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di Sofia Basso, unità investigativa Greenpeace Italia
La guerra in Ucraina ha scatenato un aumento della spesa militare dei Paesi Nato, con il 2,2% di incremento reale tra il 2021 e il 2022 (dato Nato), e l’Italia che sfiora il +7% in termini assoluti (dato Camera dei Deputati). La stragrande maggioranza dei Paesi dell’Alleanza Atlantica, però, non ha ancora raggiunto il controverso obiettivo del 2% del Pil, perché ogni decimo di percentuale in più significa ulteriori miliardi di euro da togliere a sanità, ambiente e spesa sociale. Nonostante questa evidenza, già a fine gennaio il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha cominciato a parlare di “un nuovo obiettivo per la spesa per la difesa”. La decisione finale sarà presa al vertice di luglio a Vilnius, ma intanto è stato introdotto il concetto che il 2% deve essere considerato la soglia minima. “È ovvio che dobbiamo spendere di più”, ha ribadito il segretario generale a metà febbraio. Una mossa per mettere sotto pressione i Paesi rimasti sotto l’obiettivo Nato. Non a caso, dopo aver comunicato che la spesa militare italiana è ferma all’1,38% del Pil, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha lanciato l’allarme: se il nostro Paese non cambierà marcia, ha ammonito mentre illustrava al Parlamento le linee programmatiche del suo dicastero, “saremo i Pierini della Nato, gli unici a non raggiungere l’obiettivo del 2%, quando altri parlano già di 3% o 4%”.
Peccato che si stia discutendo di un target non vincolante, raggiunto solo da 7 membri su 29. Sono ben altri, invece, i campi nei quali l’Italia (ultima in Europa per spesa per l’istruzione e quarta per incidenza della povertà tra i lavoratori) è effettivamente fanalino di coda nella UE, oltre a essere inadempiente su molti impegni internazionali, tra cui il target Ocse per la spesa nella cooperazione internazionale e lo stop ai sussidi alle fonti fossili siglato a Glasgow.
Ma questi gap non sembrano preoccupare il governo, né i vertici militari auditi tra fine febbraio e metà di marzo dalle commissioni Difesa di Camera e Senato. Tutti d’accordo nel mettere in conto scenari di guerra totale e investimenti multimiliardari nel settore. Lo ha detto apertamente il segretario generale della Difesa, Luciano Portolano, nella sua audizione parlamentare: “È importante focalizzarsi sull’opzione più onerosa – il war fighting – poiché è più semplice operare uno scale down dal war fighting verso il peace keeping, piuttosto che fare poi uno scale up, come ci troviamo a fare oggi”. Per il Direttore Nazionale degli Armamenti, insomma, l’Italia dovrebbe spendere ingenti somme per prepararsi alla guerra convenzionale, a prescindere dall’effettiva possibilità di un simile scenario.
La parola d’ordine non è più “ripianare i sistemi d’arma ceduti all’Ucraina”, ma “colmare i gap capacitivi”. Così, di fronte ai deputati e senatori, il Capo di Stato della Marina Militare, Enrico Credendino, ha snocciolato una impegnativa lista della spesa: 3-6 fregate antisommergibile in più, due navi antiaeree, due sommergibili, una seconda portaerei, una nave logistica e 13 aeromobili a pilotaggio remoto. Senza entrare nello stesso dettaglio, anche il Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, Luca Goretti, ha chiesto di invertire la tendenza del passato, citando come esempio l’esigenza di tornare ai 131 F35 ordinati prima del taglio a 90: in pratica, 41 cacciabombardieri in più. Una richiesta avanzata poco prima di spiegare la rilevanza della partecipazione italiana al “sistema Gcap”, il costosissimo programma congiunto con Regno Unito e Giappone per i jet di nuova generazione, che dovranno sostituire proprio gli F-35. Anche il Capo di Stato dell’Esercito, Pietro Serino, ha illustrato al Parlamento la sua lista dei desideri, soprattutto per quanto riguarda il rinnovo della componente corazzata ed elicotteristica e la capacità di ingaggiare un obiettivo a lunga distanza.
Quando la Nato mise a punto l’obiettivo del 2% non fornì alcuna spiegazione su come si era arrivati a quel parametro; tra l’altro ballerino, visto che è legato alle fluttuazioni del Pil. Anche oggi l’argomentazione sembra essere una sola: bisogna spendere di più. Punto. Poco importa che il 2022, come sottolinea la stessa Nato, sia stato “l’ottavo anno consecutivo di aumento della spesa per la difesa degli alleati europei e del Canada”, mentre molte altre voci di bilancio, ben più rilevanti per la vita delle persone, sono in calo da anni. Né rileva se i soldi siano spesi in maniera inefficiente, come ha invece dimostrato uno studio del Parlamento europeo del 2020. Il mantra, amplificato dalla guerra in Ucraina, è solo uno: aumentare la spesa per le armi. A tutto vantaggio dell’industria bellica, che in questa fase vede crescere anche i finanziamenti UE, soprattutto attraverso il Fondo europeo per la Difesa. Non a caso i profitti del settore sono in forte crescita: nel 2022, la sola Leonardo ha registrato il 58,5% di utili in più rispetto al 2021.
Greenpeace chiede che il governo tassi gli extra profitti delle aziende della Difesa, al pari delle aziende dell’oil&gas che si sono arricchite in quest’anno di crisi energetica, e fermi la corsa al riarmo riducendo la spesa militare del 2% l’anno, come proposto da 54 premi Nobel. L’ultimo decennio di spesa record per la difesa ha dimostrato che più armi portano solo a nuove guerre e a maggiore insicurezza. La nostra richiesta è che l’Italia tagli il bilancio militare per investire nel sociale e nella transizione ecologica. Sempre in attesa che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, oltre a mettere la faccia sull’aumento della spesa militare, dica pubblicamente dove intende prendere i circa dieci miliardi di euro mancanti per raggiungere l’obiettivo Nato, già sonoramente bocciato dalla maggioranza dei cittadini, come rilevato dal sondaggio Greenpeace-Swg. L’Italia è ancora in tempo per cambiare rotta e dare il suo contributo per fermare la crisi climatica, ma lo deve fare adesso, come ci hanno appena ricordato gli esperti dell’Onu. Poi sarà troppo tardi. Anche se saremo armati sino ai denti.