"I medici sono stanchi", "chi lavora in ospedale non ce la fa più...".
Cosa significa che un medico è "stanco"? Chiunque lavori probabilmente a fine giornata sarà stanco. E perché chi ha a che fare con la salute può esserlo di più?
Burn out, letteralmente "bruciato", "esaurito".
Ci sono centinaia di studi che analizzano questa condizione psicofisica legata al lavoro. In particolare per chi lavora con le persone malate il burn out è legato a vari fattori. Presa in carico di storie drammatiche, relazioni difficili, responsabilità enormi, tentativo di nascondere le proprie emozioni, ripensamenti, visione di vicende impressionanti, emozioni intense. Senza dimenticare un ambiente ostile, superiori aggressivi, mancanza di sostegno professionale.
Tutto questo, tutto il giorno e tutti i giorni può stancare, oltre che fisicamente, anche psicologicamente. Certamente il rischio di burn out può essere legato alla tipologia di pazienti che si affrontano (con disagi personali o coniugali, idee paranoiche, sintomi depressivi). Ormai non sono rari gli ospedali che prevedono la figura dello psicologo per i lavoratori e non sono rari i sanitari che vi ricorrono o sono anche costretti ad assentarsi per quello che una volta si chiamava "esaurimento nervoso".
Certamente non si deve generalizzare. Quasi sempre, se parliamo del lavoro del medico, chi ha scelto di fare questo lavoro era fortemente motivato al momento della scelta che si sa già dall'inizio essere particolarmente impegnativa. Si sceglie di stare lì ma è anche vero che non tutti hanno le stesse caratteristiche psicofisiche e la vita crea momenti di debolezza e fragilità, quindi pensare che "bisognava pensarci prima" non è sempre una risposta.
Chi è in burn out ha anche sintomi precisi e spesso visibili che possono essere anche difficili da cogliere. Segni di "depersonalizzazione", atteggiamenti negativi o apparente cinismo possono essere sintomi evidenti di burn out professionale.
Gli studi sul tema evidenziano come questa sindrome sia più frequente in sanitari che lavorano nelle specialità chirurgiche o di urgenza (anestesisti, ortopedici, ginecologi, chirurghi) e arriva a colpire il 60% dei sanitari, per questo alcuni la definiscono "l'epidemia fantasma". Ovviamente non è solo quello della salute il campo nel quale si può manifestare questa sindrome ma sembrano più colpite le professioni che prevedono relazioni interpersonali (per esempio anche gli assistenti sociali, infermieri, psicologi e gli esponenti delle forze dell'ordine).
Il burn out è spesso associato ad aumento del rischio di dipendenze da alcol e droghe, aumenta il tasso di divorzi, suicidi e violenze domestiche.
Ci sono sicuramente correlazioni tra il rischio di burn out e il frequente eccesso di carico di lavoro per i sanitari. Come si può immaginare può essere frequente che, per motivi di emergenza o di routine, un medico faccia più turni del dovuto o semplicemente si intrattenga oltre l'orario di servizio. Se pensate che molte specialità prevedono (in ospedale) turni di 12 ore, intrattenersi per ulteriori 2-3 ore significa stare tutto il giorno fuori, tornare a casa per dormire e, probabilmente, l'indomani ricominciare. Sono ritmi spesso insostenibili, a maggior ragione con l'aumento dell'età media dei medici che lavorano (per esempio) nel nostro SSN. Ci sono altri problemi.
L'utenza nel tempo è diventata più aggressiva, molti accessi nei reparti di emergenza (pronto soccorso, per esempio) sono impropri e impegnano larga parte della giornata stancando e prosciugando risorse, troppo tempo speso in burocrazia spesso ripetuta, ridondante, eccessiva (pensate che esistono cartelle cliniche con più documenti burocratici che esami clinici!), mancato riconoscimento sociale del lavoro e tanto altro.
Per chi fa lavori usuranti il burn out è sempre in agguato.
In questo periodo di pandemia gli episodi di burn out sono certamente stati quasi sempre legati proprio a questo, all'eccesso di lavoro o alla fatica del contrasto all'emergenza, ai timori di fronte a una nuova, travolgente malattia. Un'indagine spagnola ha confermato che il 60% dei medici (in questo caso internisti) ha sofferto di burn out e i motivi più citati sono stati l'eccessivo carico di lavoro (cura del paziente che, come sappiamo nel periodo Covid è stata molto impegnativa) e la mancanza di sistemi di sicurezza e protezione (il timore di essere esposti a rischi ovviamente aumenta il livello di stress). A tutto questo aggiungiamo l'impegno che già deve sostenere professionalmente un lavoratore ospedaliero (medici e infermieri soprattutto), ambiente nel quale esiste molta competizione, spesso insoddisfazione e poco contatto con i responsabili ai vertici delle aziende con conseguente sensazione di avere pochi riconoscimenti dei propri sforzi.
Se dovessi aggiungere due righe di esperienza personale posso aggiungere che è quasi inevitabile, per chi lavora con la salute delle persone, sentire il peso, spesso enorme, della responsabilità, il pensiero di ciò che si è visto, i dubbi, le paure, gli errori reali o potenziali, la stanchezza fisica che è spesso enorme (ovviamente tutto cambia da una specialità medica all'altra). Chi fa questo lavoro sa di cosa sto parlando. La frase quasi proverbiale del "portarsi il lavoro a casa" può avere conseguenze devastanti sul lavoratore ma anche sulla sua famiglia. Tutto questo è associato (come ho scritto prima) a un lavoro aggiuntivo che toglie tutto al lavoro ideale del medico (burocrazia, certificati, consensi informati, cartelle, lettere, schede di dimissione, richieste e altro) che nel mondo reale rischia di impiegare la maggior parte del tempo di lavoro ad atti burocratici lasciando alla cura del paziente dei ritagli di tempo, dando origine a una frase che sempre più si ripete tra medici: "non è questo il lavoro che ho scelto". Un esempio specifico può essere relativo alla professione di infermiere, totalmente rivoluzionata negli anni, professionalizzata, l'infermiere oggi è un vero professionista della salute, non un mero esecutore di ordini come in passato. Partecipa (e spesso decide) la cura. Questo nella pratica può non essere vero. La routine, la velocità richiesta, le urgenze, la burocrazia, cancellano ogni forma di indipendenza rendendo automatico e meccanico il suo lavoro, creando così una categoria di persone non soddisfatte, che non fanno ciò che volevano fare.
Il problema, apparentemente secondario, è serio.
Il lavoratore affetto da burn out rende di meno, sbaglia di più, lavora male e fa lavorare male gli altri, non è utile né al paziente, né ai colleghi e nemmeno a se stesso.
Il burn out conduce spesso al peggioramento dell'atteggiamento sul lavoro, a una vera e propria psicosi (chiamata la "sindrome della seconda vittima", ovvero il medico autore di un errore vive talmente male la colpa da diventarne anch'esso vittima). Questo disturbo, ben conosciuto, ha un decorso classico e segue gravi errori o incidenti di tipo medico. Nell'evoluzione tipica, dopo l'evento, il lavoratore si chiede come possa essere avvenuto il fatto e se si poteva prevedere, cosa pensino gli altri di lui e di quello che è accaduto, se questo comporterà conseguenze, denunce, licenziamenti, se l'evento diventasse di dominio pubblico si tende alla fuga, alla ricerca di anonimato, fino a un vero e proprio stato depressivo. È ben documentato il fatto che questioni legali conseguenti a errori medici, più che ridurli o "migliorarne l'esito" conduce a maggiori problemi ed errori, perché rendono gli autori dei presunti errori ancora più insicuri e dubbiosi, tanto che qualcuno ha detto che quei medici diventano a loro volta pazienti nell'indifferenza generale. Argomento complicato, come si vede, però sicuramente da approfondire e interessante.
La presa in carico coinvolge l'aspetto psicologico ma anche il sostegno dei colleghi di lavoro, l'aiuto degli altri e dell'ambiente circostante.
Insomma, qualcosa da non sottovalutare.
Per questo bisogna prendere atto del problema è, invece di nasconderlo, parlarne e affrontarlo.
Alla prossima.