Caldaie a idrogeno: funzionano?

1 year ago 83

di Gianni Comoretto

Da alcuni anni diversi circola la pubblicità di una miracolosa caldaia a idrogeno: anche io sono stato bombardato, ultimamente, di “contenuti sponsorizzati” sui social network. Non citerò la ditta, sia per non fargli pubblicità sia perché minaccia azioni legali a chiunque ne parli male. Tra l’altro, il mio discorso vale per chiunque faccia il genere di affermazioni che vedremo.  

Di per sé, una caldaia a idrogeno non è un oggetto da fantascienza: non è diversa da una sua omologa a metano, cambia solo il gas che brucia. Quella reclamizzata avrebbe il vantaggio di una “cogenerazione”: produrrebbe insieme elettricità e calore, che pure sarebbe una buona cosa. A seconda del modello, il sistema sarebbe in grado di generare fino a 6 kW elettrici, e circa 30 kW termici. Lo schema di funzionamento fornito nella brochure illustrativa ha senso, potrebbe descrivere un prodotto utile e realizzabile. 

Quel che invece è fantascienza è la resa energetica, che sarebbe 100 volte maggiore rispetto alle normali caldaie a gas. Se ciò fosse vero, usando una parte dell’energia elettrica generata, potrei (secondo la pubblicità) alimentare un idrolizzatore e produrre da solo l’idrogeno che mi occorre. Sì, avete capito bene: la macchina produrrebbe molta più energia di quella contenuta nel gas che serve a farla funzionare e, alla fine, si fornirebbe da sé il combustibile. Entra acqua distillata, escono energia e acqua distillata. Difatti l’apparecchio viene proposto per impianti a isola, non allacciati alla rete gas o elettrica, o per ridurre i consumi virtualmente a zero. 

Facendo qualche calcolo, dalla combustione di un kg di idrogeno si producono circa 39 kWh di energia (36 kWh di potere calorico inferiore, ma assumiamo pure che la caldaia funzioni a condensazione). Assumendo una resa ideale, servirebbe quindi circa un kg di idrogeno (circa 11 metri cubi) per far funzionare la caldaia a pieno regime per un’ora. Per confronto, alimentando la caldaia a metano me ne servirebbero circa 4 mc. Un buon idrolizzatore commerciale richiede circa 50 kWh per ogni kg di idrogeno prodotto e, quindi, usando tutta l’energia prodotta dall’apparecchio, mi servono otto ore per produrre l’idrogeno necessario a un’ora di funzionamento. Oppure posso alimentare l’idrolizzatore con la rete elettrica o un impianto fotovoltaico, consumando 50 kWh per ottenerne 6 di elettricità e 31 di calore (che, usando una pompa di calore, mi avrebbero richiesto solamente altri 6-10 kWh di elettricità). Non sembra un sistema molto efficiente. 

Ma la brochure dice che servono solo pochi grammi di idrogeno e che il sistema può funzionare a isola, senza apporti di energia esterni. Il tutto sarebbe possibile grazie ad una “cella idrogeno-metallo” che, par di capire, sembra funzionare grazie alla fusione fredda.  Per cercare di convincere l’acquirente che non si tratta di fantascienza, la pagina della ditta cita enti di ricerca che stanno studiando la fusione fredda, in un consorzio finanziato addirittura da un bando europeo. 

La storia della fusione fredda è lunga e tormentata. Nel 1989 due elettrochimici, Martin Fleischmann e Stanley Pons, riportarono di aver ottenuto una generazione di calore anomalo da un apparato a temperature di laboratorio. Secondo loro il calore era dovuto a una reazione di fusione nucleare. Dopo l’entusiasmo iniziale ci si rese conto che replicare quei risultati era molto difficile, e che probabilmente il calore anomalo non era dovuto a reazioni nucleari ma a fenomeni noti o a errori di misura. Ciononostante gruppi di ricercatori, come quelli citati dalla ditta, continuano a studiare il fenomeno. La prospettiva è evidentemente attraente: se fosse possibile ottenere reazioni di fusione nucleare in un apparecchio di piccole dimensioni, a temperature ordinarie, avremmo a disposizione una sorgente di energia economica e virtualmente illimitata. Purtroppo però siamo molto distanti dall’ottenere prove convincenti che il fenomeno esista e, anche se fosse reale, siamo lontanissimi da un qualche suo utilizzo pratico. Se fosse possibile costruire una caldaia che funziona grazie alla fusione fredda, il fenomeno sarebbe provato al di là di ogni possibile dubbio, e probabilmente il geniale inventore potrebbe ambire a un premio Nobel. 

Appare quindi veramente incredibile che un ingegnere sia riuscito a realizzare una cella a fusione di uso commerciale (ma non afferma mai questo, la parola “fusione” non compare mai nel materiale illustrativo). Ancora più incredibili i dettagli: la cella funzionerebbe con normale idrogeno, ma tutti i tentativi di fusione fredda impiegano deuterio, un isotopo dell’idrogeno con un neutrone in più  nel nucleo. Il deuterio è mescolato all’idrogeno normale, ma è relativamente raro: un atomo di deuterio ogni 6000 di idrogeno. Abbastanza da produrre la quantità di energia dichiarata, ma nessuna ipotetica cella a fusione fredda potrebbe funzionare con concentrazioni così basse, servirebbe prima un complicato processo di estrazione del deuterio dall’idrogeno. 

La ditta vanta diversi brevetti. Guardando in dettaglio, solo uno di questi è stato accettato, e riguarda una cella che utilizza la normale combustione dell’idrogeno per produrre vapore. Non si può naturalmente vedere uno di questi apparecchi in funzione. Non è possibile neanche chiedere ulteriori dettagli, coperti da segreto industriale. Le consegne inizieranno presto, ma ovviamente ci sono difficoltà amministrative, e la data di consegna delle caldaie prenotate slitta in avanti con regolarità da alcuni anni. La ditta accetta prenotazioni e, secondo quanto riportato in una intervista rilasciata domenica 12 febbraio su Il Sole 24 Ore, l’anno scorso avrebbe fatturato (presumibilmente con le caparre per le future consegne) un paio di milioni. 

Se poi davvero il sistema funzionasse in base a reazioni nucleari ci sarebbero aspetti di sicurezza non banali da risolvere. La reazione deuterio-deuterio non produce neutroni, ma non sarebbe mai efficace al 100%, se avvenisse niente impedirebbe che contemporaneamente avvengano altre reazioni analoghe, ad esempio con produzione di trizio (radioattivo) e un neutrone libero. La cella richiederebbe quantomeno una schermatura e una certificazione di sicurezza, che dovrebbe essere rilasciata dopo misure accurate in un laboratorio di radioprotezione. Non a caso, quindi, si evita di nominare qualsiasi “fusione nucleare”.

Immagine: grafica di Roman da Pixabay.

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