I delegati delle Conferenze sul Clima per certi versi sono come quegli studenti universitari che hanno due settimane per sedersi, prepararsi, confrontarsi con i colleghi in vista di un esame, ma si riducono sempre all’ultimo momento.
La Cop di quest’anno è finita con circa 36 ore di ritardo. Nella notte tra sabato 23 e domenica 24 novembre, alle 2.40 ora di Baku, il presidente di Cop29, l’azero Mukthar Babayev, ha battuto il martelletto sancendo l’adozione del punto 11a, quello sul più importante dossier: il New Collective Quantified Goal (Ncqg).
Nell’anno più caldo da quando esistono le rilevazioni e in cui più di metà della popolazione mondiale è stata chiamata al voto, i Paesi delle Nazioni Unite sono riusciti ad approvare un testo con al centro la finanza per il clima. Il nuovo obiettivo prevede lo stanziamento di «almeno 300 miliardi di dollari» all’anno entro il 2035, principalmente da parte dei Paesi sviluppati verso quelli in via di sviluppo (G77), per permettere a questi ultimi di affrontare gli effetti della crisi climatica e ridurre le proprie emissioni.
Assenze illustri
La prima settimana di Cop29 è cominciata subito dopo l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, è continuata con la decisione del presidente argentino Javier Milei di ritirare la delegazione del proprio Paese ed è finita con lo scontro tra Azerbaijan e Francia a causa del supporto di Parigi all’Armenia, in conflitto proprio con l’Azerbaijan.
Nella plenaria inaugurale, davanti alle 198 delegazioni, Babayev – nonostante il suo passato da petroliere – ha ricordato che «le attuali politiche ci portano a un aumento di +3ºC, che distruggerebbe le comunità di molti Paesi presenti in questa stanza». Ci ha pensato l’autoritario presidente azero Ilham Aliyev ad attaccare la transizione ecologica, affermando che il petrolio e il gas sono «un dono di Dio».
A metà della prima settimana si è svolta la sfilata di capi di Stato e governo che tradizionalmente sanciscono l’apertura ufficiale del vertice. Con l’adesione di circa 90 di loro, quasi tutti uomini, la Cop dell’Unfccc resta il consesso diplomatico con la maggior partecipazione di leader, seconda solo all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ci sono stati, per motivi diversi, assenti illustri: Xi Jinping, Vladimir Putin e ovviamente Joe Biden. La vittoria di Trump quantomeno permetterebbe all’Unione europea di assumere definitivamente un ruolo di guida e diventare punto di riferimento sulla questione climatica. Solo che è l’Ue a essere senza guida.
L’unico leader di un grande Paese europeo ad avere alle spalle una maggioranza forte è Giorgia Meloni, che non si è fatta sfuggire l’occasione – anche in quanto presidente di turno del G7 – per provare ad accreditarsi come voce dell’Europa.
Nel suo intervento Meloni, che non ha annunciato alcun nuovo impegno da parte del nostro Paese, ha affermato che «un approccio troppo ideologico e non pragmatico rischia di toglierci dalla strada per il successo». Qualche giorno dopo, davanti alla stampa di mezzo mondo, l’Italia è stata nominata «Fossil of the day» per essere il secondo importatore di gas in Europa e per il suo rapporto intimo con l’Azerbaijan. Secondo la società civile riunita a Baku, che ha simbolicamente consegnato a una delegata di Italian Climate Network questo “tapiro”, siamo uno dei «Paesi che fanno del loro meglio per fare del loro peggio».
Un’Europa diversa da quella proposta da Meloni l’ha dipinta il premier spagnolo Pedro Sánchez, affermando a pochi giorni dal disastro di Valencia che «la transizione non è più rinviabile». A prendersi la scena ci ha provato anche il premier britannico Keir Starmer, che ha lanciato il piano del Regno Unito di tagliare le emissioni dell’81% al 2035: un passo avanti importante, che leggiamo anche come una sfida all’Ue e al suo programma di riduzione delle emissioni del 90% al 2040.
Subito dopo Starmer, salutandolo ma senza stringergli la mano, è arrivato al podio il primo ministro ungherese Viktor Orbán, presidente di turno del Consiglio europeo, secondo cui «dobbiamo portare avanti la transizione green ma senza smettere di usare petrolio, gas e nucleare». Se l’Ue segue questa strada, la sfida la vince il Regno Unito a tavolino.
Poi è intervenuto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che tuttavia ha dedicato più di metà del suo discorso al «massacro che Israele sta compiendo in Palestina» (il tema più presente nelle proteste a Baku assieme a quello della finanza per il Sud Globale) e ha chiesto alle delegazioni di supportare la candidatura della Turchia a ospitare Cop31 nel 2025.
La prima metà della seconda settimana di Cop29 è stata caratterizzata dall’attesa degli esiti di due vertici lontani dall’Azerbaijan: l’incontro dell’Ocse sui sussidi fossili a Parigi e soprattutto il G20 di Rio de Janeiro, dove erano presenti tutti i leader che hanno disertato Baku.
Da Rio, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha avvertito che il fallimento della Conferenza in Azerbaijan avrebbe inciso sull’ambizione dei piani nazionali di riduzione delle emissioni, che tutti i Paesi dovranno consegnare entro la primavera dell’anno prossimo.
Grazie alla sua spinta, nella dichiarazione finale del G20 è stata inserita una lunga parte, dal titolo “Sustainable Development, Energy Transitions and Climate Action”, che ha messo la Cop sulla strada verso un accordo sulla finanza climatica, pur non indicando una chiara direzione.
Trattativa difficile
I Paesi in via di sviluppo, guidati negozialmente dalla Cina nel gruppo G77+Cina, chiedevano un obiettivo annuale tra 1.000 e 1.300 miliardi di dollari in finanza mobilitata possibilmente in forma di sovvenzioni e non di prestiti: questa era la cifra proposta da tre economisti di fama mondiale (Nicholas Stern, Kristalina Georgieva e Ricardo Hausmann), a fronte di perdite e danni dovuti al cambiamento climatico che si stimano siano già di cinque volte superiori.
Dall’altra parte, Usa, Ue, Paesi Ocse e il resto del Nord Globale chiedevano un allargamento della base dei contribuenti che potesse includere i Paesi formalmente in via di sviluppo secondo i termini del Protocollo di Kyoto e dell’Accordo di Parigi, ma che nei fatti sono già sviluppati e climalteranti (a partire proprio dalla Cina).
Quando durante una conferenza stampa, poco dopo l’uscita di una nuova bozza, un giornalista ha chiesto ai portavoce dei Paesi in via di sviluppo cosa ne pensassero della cifra di 200 miliardi per l’Ncqg, l’ugandese Adobia Ayebare ha risposto: «È uno scherzo?». La frattura si è acuita nel corso del sabato pomeriggio, 24 ore dopo la chiusura prevista della Conferenza, quando i delegati dei Paesi del G77 hanno lasciato le trattative in segno di protesta.
La cifra su cui, in extremis, si è trovato un accordo nella notte tra il 23 e il 24 novembre corrisponde ad «almeno 300 miliardi l’anno» entro il 2035. Il precedente obiettivo finanziario di 100 miliardi all’anno viene quindi triplicato, ma mancano 1.000 miliardi rispetto a quello che chiedevano i Paesi più colpiti. La cifra di 1.300 miliardi è citata, e una road map che porterà da Baku a Belem (in Brasile, dove si terrà la Cop30) dovrebbe verificare come poterli raggiungere.
Di questa cifra, che è al momento una vaga aspirazione senza valore legale, sono quindi solo 300 i miliardi sicuri, che arriveranno da «un’ampia varietà di fonti». Significa fondi pubblici e privati, bilaterali e multilaterali, concessioni e prestiti. I soldi che i Paesi vulnerabili riceveranno sono quindi pochi rispetto ai bisogni, arriveranno da fornitori incerti e nella loro interezza solo a metà del prossimo decennio, quando la crisi climatica (e l’inflazione, come ha sottolineato la Nigeria) saranno ancora più gravi.
Secondo l’India, questo accordo è una «illusione ottica». Non è certo una vittoria, ma nemmeno un completo fallimento. È un pareggio, frutto dell’attuale contesto internazionale. Solo che, se a essere in gioco è la vita di persone vulnerabili in Paesi poveri, non possiamo accontentarci di un pareggio.