Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dei compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Chi ha paura della resistenza palestinese?
– Tendenza internazionalista rivoluzionaria
“Se falliamo nel tentativo di difendere la nostra causa, allora dobbiamo cambiare chi la difende, non la causa” (Ghassan Kanafani)
A poche ore dalla chiusura della grande manifestazione di sabato 5 ottobre a Roma, è circolata in rete una nota a firma Youssef Yousef Salman, presidente della Comunità Palestinese di Roma e del Lazio, nella quale l’autore, a nome della suddetta “comunità”, spiega i motivi del loro forfait alla piazza di Piramide, imputando questa scelta alle posizioni espresse da Udap e Giovani Palestinesi.
Non ci interessa entrare nel merito di chi abbia lanciato per primo la data del 5 ottobre, ma da internazionalisti riteniamo legittimo e doveroso esprimere il nostro punto di vista nel merito dei reali motivi politici che hanno portato a questa divisione. Diversamente da quei gruppi e da quelle realtà politiche e di movimento che opportunisticamente si trincerano dietro un ecumenismo “super partes”, e che pur di tenere un piede in più scarpe, considerano le divergenze in seno alla comunità palestinese in Italia come un “affare dei (soli) palestinesi”, noi riteniamo al contrario che tali divergenze investano tutti i principali nodi della lotta per la liberazione della Palestina, quindi anche i modi, le forme e i contenuti con cui questa lotta si sviluppa nel movimento internazionale che in Occidente si oppone al genocidio sionista.
Ma andiamo per punti:
1- non è vero che il testo di chiamata unitario della manifestazione “inneggiava al 7 ottobre come inizio di una rivoluzione”: non ci interessa in questa sede entrare nel merito del 7 ottobre (a tal fine, per chi vuole, rimandiamo al testo pubblicato sul Pungolo Rosso “L’11 settembre di Israele” – https://pungolorosso.com/2023/10/08/l11-settembre-di-israele/ ). Ci preme invece evidenziare come quelle parole d’ordine fossero apparse unicamente in un comunicato circolato sui social a nome e firma esclusiva dei suoi autori, e che dunque non impegnava in alcun modo il resto dei promotori e dei partecipanti ad una possibile iniziativa unitaria. Peraltro, imputare a quel comunicato la responsabilità di “aver dato la scusa a Piantedosi per vietare la manifestazione” costituisce un clamoroso ribaltamento della realtà, nei fatti funzionale alla vergognosa campagna di criminalizzazione governativa non solo dei cortei per la Palestina, bensì dell’intero panorama delle lotte sociali e sindacali, reso esplicito dai contenuti da stato di polizia del Ddl 1660.
2) La decisione della comunità palestinese romana di non scendere in piazza era in realtà stata resa nota agli organizzatori solo all’indomani del divieto emesso dalla Questura di Roma, quindi alcune settimane dopo la pubblicazione del comunicato “incriminato”. Ciò è la dimostrazione che tale scelta è stata dettata non dalle divergenze di cui sopra, bensì in primo luogo dalla volontà di rispettare le prescrizioni del governo Meloni: se così non fosse, la comunità palestinese del Lazio, e i suoi sostenitori nostrani, avrebbero potuto tranquillamente e autonomamente radunarsi in una piazza differente da Piramide.
3) Nelle ore successive alla comunicazione del divieto da parte della Questura, preso atto della volontà da parte della comunità laziale di rinviare la manifestazione al 12 ottobre, le due “anime” del mondo palestinese avevano raggiunto un’intesa per evitare che il governo e i filosionisti speculassero su tali divisioni, sulla base della quale fino al 5 ottobre la comunità laziale non avrebbe reso pubblico il proprio forfait. Tale impegno è stato apertamente disatteso nelle ore precedenti alla manifestazione, con dichiarazioni a mezzo stampa che hanno oggettivamente offerto un assist all’opera di terrorismo mediatico sul 5 ottobre messa in piedi da tutti i nemici della causa palestinese.
4) Si accusano i promotori della manifestazione di aver espresso “solidarietà incondizionata alla resistenza”. I fatti di questi anni, ben prima del 7 ottobre, dimostrano chiaramente che è questo, e non altri, il vero “pomo della discordia”, sul quale è giunta l’ora di fare chiarezza una volta e per tutte, senza ipocrisie e buonismi di sorta.
È un dato di fatto che dietro i distinguo sul sostegno alla resistenza spesso non si cela una legittima critica dell’operato e della natura politica di formazioni quali Hamas, Jihad islamica, e dello stesso “asse della resistenza” a guida iraniana, bensì queste ultime costituiscano al contrario un facile alibi per mettere in discussione tout court il ruolo della resistenza nella lotta di liberazione del popolo palestinese.
Ciò è reso evidente dal richiamo esplicito fatto da Salman alla parola d’ordine “due popoli due stati”, ritenuta oramai del tutto inattuale e impraticabile sia da Israele, sia (per motivi opposti) dagli stessi settori ebraici contrari al colonialismo sionista, nonché dal richiamo all’ONU, un organismo che al di là delle buone intenzioni di qualche suo funzionario/a, ha svelato in maniera drammatica la propria totale impotenza finanche nel fermare il genocidio di un intero popolo che da un anno è in corso nella striscia di Gaza (figurarsi come potrebbe garantire il ritiro di Israele dai territori occupati dal 1967 in poi, o il diritto al ritorno per i milioni di profughi…).
Quanto poi alla cosiddetta “sinistra europea”, Salman dovrebbe chiedersi come mai, al di là dei proclami verbali, le forze politiche che ad essa fanno riferimento siano da più di un anno pressoché latitanti dalle manifestazioni e dalle iniziative di solidarietà che con cadenza quasi quotidiana hanno affollato le piazze, le università, i posti di lavoro e i territori in tutta Italia ed Europa…
E riguardo al “cessate il fuoco”, che Salman indica come assente dalle parole d’ordine del 5 ottobre, crediamo che nessuno tra coloro che sono scesi in piazza sabato sia contro il cessate il fuoco e la fine dei massacri per mano sionista. Ma è sotto gli occhi di tutti come questa invocazione, fatta propria da buona parte della cosiddetta “comunità internazionale” e in primis dal papa, da oltre un anno si scontra con la ferma volontà del governo israeliano capitanato dal boia Netanyahu, più che mai determinato a portare i piani di sterminio sionisti fino alle estreme conseguenze e fino a scatenare una guerra in tutto il Medioriente, con l’unico l’obiettivo di trasformare in realtà il disegno razzista e confessionale della “grande Israele”. Se così stanno le cose, evocare il cessate il fuoco senza evidenziare (come più volte fatto dai Giovani Palestinesi e da tante manifestazioni) che l’unica pace giusta coincide con la fine dell’occupazione, diviene un esercizio di vuota retorica: quella stessa retorica che ha fatto sì che per 80 anni Israele continuasse a perpetrare senza sosta una pulizia etnica grazie al sostegno occidentale e in barba ad ogni accordo, risoluzione e raccomandazione dell’ONU, con il silenzio complice delle borghesie arabe.
Che piaccia o no, la fine dell’occupazione può avvenire solo attraverso la resistenza delle masse palestinesi e attraverso la solidarietà internazionale e internazionalista a quella resistenza. Se è vero che oggi la lotta antisionista all’interno dei territori palestinesi si esprime principalmente attraverso le formazioni islamiste, la causa di ciò è da individuare in primo luogo nelle gravi responsabilità della sedicente ANP, la quale all’indomani degli accordi di Oslo ha barattato la causa palestinese con l’instaurazione di un semistato-fantoccio del tutto subalterno al colonialismo israeliano: un regime che è considerato da più del 90% dei palestinesi di Cisgiordania nient’ altro che un apparato burocratico collaborazionista, complice col sionismo finanche nella repressione dei palestinesi di Cisgiordania.
D’altra parte, l’equazione “resistenza= Hamas” è una falsificazione non solo storica, ma anche in relazione a ciò che quella resistenza oggi esprime realmente, e cioè la partecipazione attiva della quasi totalità della sinistra palestinese e finanche di settori della stessa Fatah.
Il vero “nemico interno” della causa palestinese, dunque, non sono certo le migliaia di giovani palestinesi e arabi e i milioni di sfruttati che inneggiano alla resistenza e la appoggiano, quanto al contrario quegli apparati, rappresentanze, ambasciate ufficiali, ecc., che oggi rappresentano unicamente gli strati palestinesi imborghesiti che anche in Europa parlano a nome della Palestina, ma in realtà operano in nome e per conto dell’Anp e dei suoi sodali europei, a partire da quel centrosinistra nostrano che dopo un anno di massacri indiscriminati a Gaza, in Cisgiordania e ora in Libano, ancora è allergico a utilizzare la parola “genocidio”, è complice del traffico di armi verso Israele, continua a sponsorizzare gli scambi culturali, economici e commerciali con Israele, e soprattutto sostiene attivamente i piani di riarmo e la folle corsa verso una guerra imperialista globale al fianco degli Usa e sotto le insegna della Nato.
Come Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria non saremo in piazza oggi [12 ottobre]: sia per i motivi anzidetti, sia soprattutto perché riteniamo che, tanto più in questo momento drammatico, dividere le piazze in “buone e cattive”, provando ad isolare quelle “cattive”, cioè quelle dai contenuti anti-sionisti e anti-imperialisti più netti e le più determinate, costituisca il peggior servizio che si possa offrire alla causa palestinese.
Il fatto, poi, che questa spaccatura sia stata alimentata ad arte da qualche manipolo di sinistrati nostrani, ci dà il segno di quanto la piazza del 5 ottobre abbia contribuito a fare (finalmente!) un po’ chiarezza sui falsi amici del popolo palestinese.
Quanto infine a ciò che è da fare qui, ci permettiamo di ribadire quel che abbiamo scritto in una precedente presa di posizione sull’uccisione di Nasrallah e la nuova invasione israeliana del Libano:
«Nei paesi imperialisti come il “nostro”, per quanto possano superficialmente apparire distanti dallo scenario mediorientale, si gioca larga parte dei destini del movimento rivoluzionario di quell’area. Opporsi alla politica di guerra dei propri governi, costruire un fronte proletario contro tutti gli imperialismi, e sostenere incondizionatamente la causa e la resistenza palestinese, come quella delle masse povere di tutti i paesi soggetti al dominio e al controllo dell’imperialismo, non è solo un imperativo morale e di solidarietà. Significa contribuire a tagliare le unghie alla macchina bellica, non meno che economica e finanziaria, delle grandi potenze che reggono le fila di un sistema di rapina, sfruttamento e oppressione che avvolge il mondo intero. Ed è un compito che da decenni il proletariato dei paesi centrali del sistema capitalistico non è in grado di svolgere. Altro che impartire lezioni alla resistenza palestinese! Il compito più urgente è lavorare, qui “da noi”, per dichiarare guerra alle “nostre” classi dominanti, ai “nostri” governi, alla loro azione di preparazione di sempre più devastanti guerre sullo scenario mondiale. Se i rivoluzionari delle metropoli avranno successo nell’avviare un simile processo, se sapranno spostare settori crescenti del proletariato contro la propria borghesia, dimostrando coi fatti che gli sfruttati dei paesi ricchi non sono una massa di manovra della borghesia, ma si muovono come parte integrante di un fronte anti-capitalistico, riconquisteranno quell’autorevolezza che adesso manca loro e che è indispensabile per costruire una strategia internazionale di lotta al sistema capitalistico.
La resistenza del popolo palestinese resta uno snodo fondamentale attraverso cui passa la battaglia per unire gli sfruttati dell’intero Medioriente. La sua importanza supera dunque la dimensione regionale e assume una valenza anticapitalistica internazionale.
“Palestina patria degli oppressi di tutto il mondo” non è uno slogan sentimentale: esso esprime invece il legame profondo fra la resistenza del popolo palestinese, i destini del Medio Oriente e la battaglia internazionale dei proletari di tutti i paesi per rovesciare il dominio capitalistico in tutto il mondo».
12 ottobre,
Tendenza internazionalista rivoluzionaria
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