[CONTRIBUTO] Il tracollo di Evergrande e le crescenti difficoltà del capitalismo cinese. La Cina di Xi: altro che socialismo…

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Riceviamo e publbichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):

La tesi fondamentale di questo testo è ben espressa in uno dei suoi passaggi conclusivi: “La crisi dei gruppi immobiliari cinesi, unita a quella di segmenti consistenti del sistema finanziario ombra, segnala che la Cina ha compiuto, in tempo record, il proprio passaggio dalla dipendenza e dal sottosviluppo alla piena maturità capitalistica, trovandosi a fronteggiare gli stessi problemi (finanziarizzazione dell’economia, dominio del capitale speculativo, sovrapproduzione, ipertrofia del credito, difficoltà di valorizzazione in relazione alla massa del capitale già accumulato, ecc.) che affliggono i paesi capitalistici di più antica formazione.“. Altro che socialismo, o transizione al socialismo, o – comunque – un qualcosa che non è capitalismo (dio solo sa cosa, ma interrogato è solito non rispondere)! In questo testo le crescenti difficoltà del capitalismo cinese – del capitalismo in Cina e nel mondo – sono affrontate sinteticamente sotto il profilo economico-finanziario, ma sono di non minore importanza gli aspetti socio-politici relativi allo scontro di classe interno e alla politica internazionale, su cui verremo con altri contributi.

Redazione Il Pungolo Rosso

Il tracollo di Evergrande

e le crescenti difficoltà del capitalismo cinese,

– di Piero Favetta

Da un paio di mesi la vicenda Evergrande, colosso del settore immobiliare cinese, secondo solo a Country Garden per volume di attività, è tornata ad interessare i media internazionali e gli esperti economici a causa della recrudescenza delle sue difficoltà economiche.

Non è la prima volta che Evergrande suscita apprensioni nel mondo degli affari. Già due anni fa aveva acquisito improvvisa notorietà fuori dagli ambiti degli addetti ai lavori per gravi problemi di insolvenza che ne avevano determinato il default sul debito denominato in dollari e una sospensione dalle contrattazioni di borsa durata ben 17 mesi.

Nelle intenzioni delle autorità e degli stessi vertici del gruppo, questo periodo di allontanamento dal mercato dei capitali doveva servire a pilotare una ristrutturazione del suo debito monstre capace, se non di rilanciarne l’attività, almeno di tamponare i danni evitando la bancarotta conclamata.

Con tutta evidenza, esso non è servito allo scopo. Pochi giorni fa, infatti, la società è stata costretta a richiedere alle autorità statunitensi l’applicazione del Chapter 15 della legge fallimentare allo scopo di proteggersi dalle istanze dei suoi creditori esteri, per evitare di portare i libri in tribunale e cercare di salvare il salvabile. A dispetto delle dichiarazioni ufficiali della compagnia, tese a sminuire la portata dell’accaduto, riducendola quasi ad un’operazione di routine, si tratta di un intervento d’emergenza che sottolinea il raggiungimento di una linea rossa oltre la quale sta il crollo definitivo. Un’operazione che probabilmente fa affidamento sul fatto che i creditori esteri di Evergrande, più che da una svendita degli asset offshore del conglomerato, si aspettano un recupero, pur parziale, delle loro spettanze da un intervento delle autorità di Pechino, volto a tenere in piedi il gigante dei developers.

Che cosa avverrà nelle prossime settimane, se non nei prossimi giorni, non è facile da prevedere. Troppi gli elementi in gioco, a partire dal groviglio di interessi che ruotano attorno a questo gigante, attore di primo piano in un settore che è stato per tanto tempo una vera e propria locomotiva dello spettacolare sviluppo economico della Cina. Allo stesso tempo, le decisioni specifiche su Evergrande non riguardano solo le misure che eventualmente verranno prese dal governo per scongiurare un fallimento gravido di conseguenze potenzialmente catastrofiche per il capitalismo cinese e internazionale, ma, invece, le stesse linee d’azione che Pechino deciderà di adottare per fronteggiare le difficoltà economiche interne nel quadro di un inasprimento della contesa con gli USA e con lo schieramento imperialistico “occidentale” da essi capeggiato.

Il punto sulla crisi degli “sviluppatori immobiliari” – dopo Evergrande, Country Garden

Le difficoltà di Evergrande e lo stato dell’economia cinese nel suo complesso sono stati letti dagli esperti e dai principali media in modo tutt’altro che univoco, per un più che evidente condizionamento degli interessi in gioco. Prima di dire qualcosa al riguardo, però, occorre spendere qualche parola per riassumere lo stato a cui è giunta la crisi in questione, che non è l’unica del settore.

I dati ricavati da più fonti convergono sostanzialmente nello stimare il debito di Evergrande fra i 312 e i 340 miliardi di euro. Nonostante un aumento dei ricavi nel primo semestre del 2023 (+44%), la società ha comunque chiuso il bilancio del primo semestre con una perdita di 4,2 miliardi di euro. Certo, una perdita in calo se confrontata con quella del 2021 di 85,2 miliardi di euro e con quella del 2022, compresa, a seconda delle stime, fra 8,5 e 15,6 miliardi di euro, ma pur sempre una montagna di soldi, che va a sommarsi allo stock del debito pregresso. La società stessa, in un documento ufficiale, conferma “l’esistenza di incertezze materiali che possono gettare dubbi significativi sulla capacità del gruppo di continuare la sua attività” (dichiarazione riportata da Le Soir del 12 agosto). Non stupisce che, al suo rientro alla Borsa di Hong Kong, il titolo abbia registrato un tonfo dell’87%, poi corretto a circa il 79%, attestandosi su una quotazione di 0,22 dollari che ha fatto crollare la capitalizzazione del gruppo dai 50 miliardi di dollari del 2017 agli attuali 500 milioni.

Ma Evergrande non è l’unico malato grave fra i grandi costruttori cinesi. Country Garden, il più importante operatore del settore, con una quantità di cantieri quadrupla rispetto a quella di Evergrande, naviga anch’esso in cattive acque. Il 60 per cento dei suoi progetti è collocato nei piccoli comuni, laddove si è verificato il maggiore calo dei prezzi degli immobili e dove i potenziali acquirenti hanno redditi bassi e quindi potere d’acquisto limitato. Ma i problemi di Country Garden non finiscono qui, perché anche il restante 40 per cento dei suoi cantieri contribuisce alle perdite sempre più alte del gruppo, che ha un debito complessivo compreso fra i 150 e i 176 miliardi di euro (stima dell’agenzia Bloomberg).

Ad alimentare la voragine debitoria sono anche i progetti fuori dai piccoli comuni, che non trovano sul mercato una corrispondente domanda solvibile, una condizione il cui emblema è il progetto “Forest City”, del valore di ben 100 miliardi di dollari. Questo progetto, destinato alla Malesia, prevedeva la costruzione di una città su quattro isole artificiali su un’area di 30 kmq, con una potenzialità abitativa di 700.000 persone. A sette anni dal varo del progetto, la città è semivuota e solo 28.000 appartamenti sono stati ultimati, tanto che le inchieste giornalistiche che se ne sono occupate hanno parlato esplicitamente di “una città fantasma”. Snobbata dai ricchi investitori cinesi e, per motivi opposti, dai potenziali acquirenti malesi (reddito medio 700 euro), Forest City è la classica cattedrale nel deserto, anche se Country Garden continua a parlare di un rilancio del progetto, che dovrebbe essere completato nel 2035.

Nei giorni scorsi, però, il gruppo non è stato in grado di effettuare il pagamento di due cedole obbligazionarie in dollari per un totale di 22,5 milioni, a settembre ci saranno altre scadenze e il prossimo anno scadranno obbligazioni per un controvalore di 3,9 miliardi di euro. Anche in questo caso, non stupisce che le azioni Country Garden si siano deprezzate del 63 per cento e la capitalizzazione alla Borsa di Hong Kong sia crollata dai 365 miliardi di dollari del 2018 ai 27 miliardi di oggi.

A chiudere il quadro della crisi immobiliare in Cina, anche Sino-Ocean, gruppo pubblico, ha dichiarato alcuni giorni fa di essere inadempiente sugli interessi del prestito e conta di chiudere il bilancio semestrale con perdite eccezionali.

Negli ultimi due anni, la crisi del settore immobiliare in Cina è andata aggravandosi, coinvolgendo i giganti privati e pubblici del comparto, che hanno a loro volta trascinato a fondo decine di operatori minori, attraverso una catena progressiva di insolvenze.

Si tratta di un comparto che vale, a seconda delle stime, da un quarto a un terzo del PIL cinese e che ha trainato per un lunghissimo periodo lo sviluppo capitalistico di questa nazione. La sovrapproduzione da cui è afflitto (si calcolano non meno di 50 milioni di appartamenti vuoti) non potrà dunque non avere pesanti ricadute sull’intera economia.

Le misure per fronteggiare la crisi

Allo stesso tempo, i provvedimenti per attutire l’impatto della crisi e impedire che deflagri somigliano come gocce d’acqua alle ricette in vigore in Occidente. Il governo infatti – oltre a misure puramente contingenti, come la riduzione allo 0,05% della tassa sulle transazioni in Borsa, capace solo di generare fiammate momentanee sul mercato dei capitali – ha dato via libera agli Enti Locali a emettere obbligazioni per 139 miliardi (Affari&Finanza del 28 agosto), che dovrebbero finanziare cantieri e infrastrutture. Da parte sua, la PBoC (la Banca Centrale cinese) ha limato i tassi d’interesse a breve e medio termine, aumentando per tale via la massa monetaria in circolazione e il credito disponibile allo scopo di puntellare le situazioni pericolanti. Ma tagliare in modo più sostanzioso i tassi di interesse – come forse sarà costretta a fare – in un contesto internazionale caratterizzato dal loro aumento genererebbe fatalmente un deflusso di capitali dal paese con inevitabili tensioni al ribasso sullo yuan. Il risultato sarebbe così di tamponare gli effetti interni della crisi facendo però esplodere il debito offshore, denominato in dollari, dei grandi sviluppatori immobiliari. Analogamente, il ventilato taglio del coefficiente di riserva obbligatoria delle banche, se permette una maggiore disponibilità di capitale da prestito, tuttavia aumenta la fragilità degli istituti di credito, abbassandone la solidità patrimoniale ed esponendoli a maggiori rischi nel far fronte alla lievitazione dei crediti deteriorati. Questi ultimi, secondo i calcoli di Moody’s, sono passati dall’1,9% del 2020 al 4,4% di oggi. I margini di intervento, dunque, non sono molto ampi e soprattutto non sono privi di controindicazioni.

Abbiamo già detto che la crisi del settore immobiliare in Cina non può essere archiviata come un fisiologico sgonfiamento della bolla speculativa entro cui si è sviluppata, ma avrà certamente implicazioni di ampia portata. Ben più complesso, tuttavia, è capire come questa crisi specifica si intrecci con la struttura generale dell’economia cinese e le ripercussioni che tutto ciò può avere a livello internazionale.

Non possiamo, nell’ambito di queste brevi note, fornire risposte esaurienti a domande che necessiterebbero di una lunga trattazione e di uno studio e una conoscenza in termini di dati più approfondita di quella di cui disponiamo. Ci limitiamo quindi ad alcune considerazioni utili forse ad aprire un terreno di riflessione più ampio.

Ricordiamo tutti che la crisi del 2007-2008 iniziò piuttosto in sordina e che, da subito, economisti, banchieri, esponenti del mondo finanziario, ecc. si affrettarono a negare un possibile contagio ad altri settori dell’economia e, in particolare, il suo trasferimento al di fuori degli USA. La crisi dei mutui sub-prime era frutto, si diceva, delle particolarità di quel settore e di quel paese, non vi erano rischi sistemici. Sappiamo com’è finita. Nel caso Evergrande, invece, media ed esperti si sono equamente divisi fra coloro che hanno parlato subito di “una Lehman Brothers cinese”, prologo di una nuova crisi globale, e coloro che hanno criticato questo approccio, considerando che la vicenda avesse solo una rilevanza interna per la Cina.

In realtà, ciò che ha permesso alla crisi dei sub-prime di straripare e dilagare in tutto il mondo ha una delle sue cause principali nell’ipertrofia finanziaria e nel peso assunto dal capitale speculativo e dai suoi molteplici strumenti, in presenza di una perdurante crisi della valorizzazione. L’insolvenza sui mutui è stata il detonatore che ha fatto esplodere l’immane debito accumulato nel sistema, sconvolgendolo con una micidiale catena di insolvenze che hanno portato il sistema finanziario mondiale al crollo virtuale.

Economia reale e finanza

Apparentemente, la struttura finanziaria del capitalismo cinese sembra essere molto diversa, fondata su una produzione manifatturiera colossale, che ha fatto della Cina “l’officina del mondo”, una produzione che ha a suo fondamento una massa di forza-lavoro sfruttabile, e sfruttata, di dimensioni immense, che assicura una produzione di valore altrettanto gigantesca, il tutto su una scala semicontinentale che non ha paragoni con altri Stati. Insomma, senza voler anticipare considerazioni che cercheremo di svolgere più dettagliatamente in altra sede, la Cina appare come il regno in cui la cosiddetta economia reale domina su quella finanziaria. Svariati osservatori, ad esempio, fanno rilevare che, in campo immobiliare, la linea del governo e di XI ruoterebbe attorno al principio che “la casa è per abitare, non per speculare” e che il modus operandi prevalente dei gruppi del settore prevede il pagamento anticipato delle abitazioni, così da ottenere i capitali necessari alla loro edificazione prima dell’avvio dei progetti. Senonché, con tutta evidenza, l’attività dei developers ha invece molti punti di contatto con la speculazione per come la si conosce in Occidente. La costruzione di immense “città fantasma”, l’avvio di faraonici progetti edilizi che generano milioni di appartamenti invenduti stanno lì a dimostrare che speculazione e sovrapproduzione la fanno da padrone anche in Cina. Le risorse ottenute con la vendita delle case prima della loro costruzione servono semmai come un’iniezione supplementare di capitali che viene messa al servizio di progetti che non hanno lo scopo di fornire un’abitazione a chi ne ha bisogno, ma di valorizzare al massimo gli investimenti. A sua volta, una parte rilevante degli acquirenti è costituita da esponenti della borghesia e delle classi più agiate che comprano case scommettendo sulla crescita del loro valore e sulla possibilità di realizzare profitti speculativi upon alienation, alla maniera di coloro che comprano azioni in Borsa puntando non ai dividendi ma ai capital gains derivanti dalla crescita delle quotazioni.

Il sistema della finanza ombra…

Complice anche la difficoltà di accedere al credito delle banche commerciali (un vincolo che il governo sta rimuovendo, almeno parzialmente), è un dato di fatto che Evergrande, Country Garden, Sino-Ocean e a cascata tutti gli altri gruppi immobiliari piccoli e grandi sono ricorsi al sistema finanziario ombra. Lo conferma Stefano Chao, general manager di Azimut in Cina, la cui tesi è riportata dal Corriere della Sera del 22 agosto: “Gli sviluppatori hanno finanziato gli acquisti di terreni soprattutto attraverso la cosiddetta finanza ombra di fondi fiduciari e prodotti di risparmio”. Il manager deduce da ciò che non esiste il pericolo di una “Lehman” asiatica perché il legame fra banche e gruppi immobiliari non è così stretto. Ci permettiamo di dubitarne e, forse, ne dubita lo stesso manager, impegnato a tranquillizzare il pubblico, secondo i canoni di comportamento di chi crede fermamente nelle profezie che si autoavverano. Il problema, infatti, non è il debole legame fra gruppi immobiliari e banche, ma quello, in larga parte oscuro, fra finanza ombra e sistema bancario ufficiale. Parliamo di un legame opaco che non è peculiarità del sistema cinese, che non ha a che fare col dirigismo del PCC, se non nelle forme esteriori con cui si manifesta, ma che è una caratteristica del capitalismo globale della nostra epoca e che la crisi dei sub-prime ha mostrato in tutta la sua ampiezza e pervasività. Proprio l’esplosione di quel bubbone, infatti, rese evidente quanto il sistema finanziario ufficiale fosse avviluppato con lo shadow banking, quanto fosse spropositata la quantità di “titoli tossici” posseduti dalle banche più “rispettabili” e quanto poco sapessero perfino l’una dell’altra rispetto all’esposizione reale ai rischi. Uno dei fenomeni più devastanti per l’economia capitalistica all’epoca fu infatti l’improvvisa sparizione del credito interbancario, essenziale per il funzionamento degli scambi commerciali e del sistema dei pagamenti, una sparizione dovuta precisamente al sospetto di ogni banca che i propri partner finanziari fossero imbottiti di CDO, obbligazioni strutturate e ogni genere di diavolerie speculative molto più dell’immaginato.

… e la crisi di Zhongrong

Nulla del genere in Cina? Il caso di Zhongrong International Trust solleva più di un dubbio. Si tratta di un tipico esponente della finanza ombra, che raccoglie fondi dagli investitori (la sua controllante ne ha in gestione per almeno 138 miliardi di dollari) per impiegarli in operazioni redditizie e potenzialmente rischiose, tanto nel campo del real estate (immobiliare) che in altri settori (azioni industriali, speculazioni su materie prime, ecc.). Si tratta, in altre parole, della versione cinese degli hedge funds, delle compagnie di private equity, delle società di gestione patrimoniale e di venture capital, che, in “Occidente” costituiscono i cosiddetti mercati Over the Counter (OTC). L’analogia è confermata dal fatto che, mentre il tasso di deposito pagato dalle banche ordinarie è dell’1,5%, il rendimento medio dei prodotti del trust è stato del 6,88%, uno spread piuttosto indicativo del carattere speculativo di tale società.

Ora, proprio questo fondo è risultato inadempiente sul pagamento di almeno una dozzina di prodotti (obbligazioni e titoli vari che aveva emesso e che, con ogni probabilità, venivano collocati come “garantiti” dalle proprietà immobiliari, proprio come i CDO fino al 2007 venivano spacciati negli USA, in Europa e altrove vantandone la presunta “solidità” rispetto ad altre forme di investimento finanziario…) e Wang Qiang, segretario del cda del trust, ha dichiarato apertamente di non avere piani immediati per onorare gli impegni.

Un paio di settimane fa, diversi media hanno riportato una nota degli analisti di Goldman Sachs che recitava: “Dati i recenti ribassi del valore patrimoniale netto e dei rimborsi, prevediamo un rallentamento della crescita dei prodotti fiduciari, il che potrebbe tradursi in condizioni di finanziamento immobiliare più rigorose, e influenzare utili e bilanci delle banche” (s.n.). Ci sembra una dichiarazione che suona come un campanello d’allarme, tenuto conto che, a parlare, è il team di analisti di una delle più grandi banche d’affari del pianeta…

Il settore immobiliare di Zhongrong Trust rappresenta l’11% delle sue attività, mentre il 42% è impiegato nell’industria e il 33% nelle istituzioni finanziarie (dati tratti da Scenari Economici del 15 agosto). Zhongzhi, secondo maggiore azionista del trust, a sua volta, possiede partecipazioni azionarie in cinque società finanziarie autorizzate, tra cui un gestore di fondi comuni e due assicurazioni, ha investito in cinque società di gestione patrimoniale e controlla società quotate. Ce n’è abbastanza per nutrire forti dubbi che la crisi dell’immobiliare rimanga un fatto isolato. L’intreccio fra il credito tradizionale, il sistema della finanza ombra e un comparto fondamentale dell’economia quale quello immobiliare è un elemento che, se non ci permette di fare previsioni a tavolino, tuttavia depone a favore di una dinamica non dissimile da quella sperimentata nel 2007-2008. Certo, per poter formulare ipotesi più precise al riguardo, andrebbero indagati molto meglio i livelli di integrazione fra il sistema finanziario cinese e quello internazionale.

Prima di trarre conclusioni circa le ripercussioni internazionali della crisi cinese, è opportuno dare uno sguardo alle difficoltà complessive in cui si dibatte negli ultimi tempi l’economia del gigante asiatico.

Lo stato generale dell’economia cinese

Se anche si evitasse un contagio internazionale capace di scatenare una crisi finanziaria in stile “Lehman”, appare tuttavia evidente che l’economia cinese è entrata in una fase diversa rispetto al passato, in cui prevalgono il rallentamento della sviluppo (è in dubbio il raggiungimento del 5% di crescita del PIL), la sovrapproduzione del settore immobiliare, l’aumento della disoccupazione, specie di quella giovanile, il calo delle esportazioni, ecc. Anche in relazione a questi fattori, la prudenza è d’obbligo, perché molti dati, al netto della loro attendibilità, possono avere letture non univoche, che dovranno essere verificate seguendo il concreto svolgersi dei fatti.

E’ un fatto, di certo, che la disoccupazione è in aumento, specie fra i giovani, e che il rallentamento della crescita economica non potrà che rendere più acuto questo problema (molto indicativa è la decisione del governo di non rendere più noti, da ora in poi, i dati della disoccupazione giovanile). D’altra parte, l’aumento dell’esercito industriale di riserva, spingendo al ribasso i salari, potrebbe essere un fattore capace di contrastare la tendenza in atto da tempo alla loro crescita, anche grazie alle molte lotte e alle vere e proprie rivolte di cui si sono resi protagonisti i proletari cinesi per conquistare migliori condizioni di vita e di lavoro. Fermare l’ascesa dei salari o, quanto meno, tenerla sotto controllo col ricatto occupazionale potrebbe essere una carta in mano ai capitalisti cinesi per compensare la relativa perdita di competitività, nelle more di un intervento volto a rialzare la produttività attraverso l’impiego di capitale fisso più efficiente e la razionalizzazione dei processi produttivi.

Altro dato di fatto è il calo delle esportazioni del 14,5% su base annua, un calo che, seppur in modo differenziato, ha riguardato tutti i mercati: -23,12 verso gli USA, -21,43% verso l’Asean (principale partner commerciale), -20,62% verso l’UE. Più complicato è stimare il calo delle importazioni, calcolato al 12,4% su base annua. Goldman Sachs, ad esempio, ritiene che esso sia legato al fattore prezzo e che, in termini di volumi, si sarebbe verificato un seppur modesto aumento. Resta il fatto, però, che il surplus commerciale è diminuito per il maggior calo dell’export rispetto all’import. Del resto, anche il calo dell’export non può essere letto come “un problema cinese”, dal momento che l’aumento dei tassi di interesse ha generato, specie in Europa, un rallentamento dell’attività economica che si è ripercosso sulla domanda globale (Scenari Economici – 8 agosto).

Infine, per quanto riguarda l’andamento degli investimenti, ritenuti deboli da molti analisti, essi devono essere valutati anche in relazione all’andamento delle scorte, cresciute durante la pandemia, la cui entità ha scoraggiato le imprese dall’investire ulteriormente, senza prima averle riportate ad un livello fisiologico.

In ogni caso, anche tenendo conto della possibile interpretazione alternativa di una serie di dati, il deterioramento congiunturale dell’economia cinese è evidente. Questo però non autorizza conclusioni ultimative, come fanno il Wall Street Journal o lo stesso Economist (riportato dal Corriere della Sera del 28 agosto) circa “la fine del modello cinese”.

La crisi dell’ordine mondiale

Certamente, l’inasprirsi della contesa internazionale fra il blocco imperialistico capeggiato dagli USA e quello che fa capo all’asse Cina Russia, che aspira all’egemonia sull’ampio fronte dei BRICS, la necessità da parte dell’imperialismo cinese di raggiungere e puntellare adeguatamente la propria autosufficienza tecnologica (il conflitto su Taiwan ha anche questa valenza), l’esigenza di Pechino di affrontare le proprie difficoltà economiche interne in una fase in cui la disponibilità di risorse e di capitali è quanto mai preziosa, lavora nel gigante asiatico, non meno che nelle metropoli capitalistiche “occidentali”, in direzione di un maggiore disciplinamento sociale delle masse, di un inasprimento dello sfruttamento del proletariato, della crescita del nazionalismo come volano per assuefare le larghe masse della popolazione non sfruttatrice alle esigenze della preparazione della guerra, dell’economia di guerra, del conflitto sempre più duro per conquistare “lo spazio vitale” che tanto le potenze declinanti quanto le potenze ascendenti avvertono come condizione stessa della loro esistenza.

La crisi dei gruppi immobiliari cinesi, unita a quella di segmenti consistenti del sistema finanziario ombra, segnala che la Cina ha compiuto, in tempo record, il proprio passaggio dalla dipendenza e dal sottosviluppo alla piena maturità capitalistica, trovandosi a fronteggiare gli stessi problemi (finanziarizzazione dell’economia, dominio del capitale speculativo, sovrapproduzione, ipertrofia del credito, difficoltà di valorizzazione in relazione alla massa del capitale già accumulato, ecc.) che affliggono i paesi capitalistici di più antica formazione.

D’altra parte, la realtà ci mostra che un paese che abbia compiuto la propria rivoluzione borghese non si trova nella situazione in cui si trovavano i primi Stati, quella di un capitalismo di libera concorrenza che si sarebbe progressivamente trasformato in capitalismo monopolistico. Quella fase è definitivamente tramontata, nessun “capitalismo emergente” la può richiamare in vita. Il capitalismo da tempo può esistere solo come imperialismo, una condizione che informa tutto il modo di produzione a scala globale. Nel momento in cui le componenti fondamentali della borghesia di un paese unificano il mercato interno e stabiliscono il proprio controllo sulla riproduzione complessiva della società, la realtà con cui devono fare immediatamente i conti è quella di un mercato mondiale diviso fra un insieme di monopoli industriali, finanziari, commerciali e di uno “spazio-mondo” diviso in sfere d’influenza, ora in rapporti di concorrenza economica, ora in rotta di collisione, che arriva periodicamente allo scontro bellico. Imprese, banche, capitali si trovano da subito in rapporto con questi monopoli, in una relazione di scontro o di collaborazione, e partecipano, in modo più o meno subordinato, al carattere imperialistico che caratterizza l’intero modo di produzione a scala internazionale.

La fase imperialistica riguarda il capitalismo mondiale nel suo insieme e non può essere spezzettata nel vano tentativo di esaminare, paese per paese, la presunta “maturità imperialistica” di uno Stato. Quello che cambia è lo status di “grande potenza”, che può essere declinato a livelli diversi e che è la sintesi di molte determinazioni (produzione industriale, sviluppo tecnologico, risorse energetiche e alimentari, peso demografico, potenza militare, presenza di truppe, personale, ecc. all’estero).

In Cina, piaccia o non piaccia, la vita economica della nazione è organizzata sulla base dello sfruttamento capitalistico della forza-lavoro. La torchiatura delle centinaia di milioni di proletari cinesi e della massa dei contadini poveri è la base che ha permesso il miracolo cinese, l’ascesa di Pechino ai piani alti della gerarchia imperialistica mondiale.

Mentre la Cina aspira a sostituire gli USA sulla plancia di comando del capitalismo, vagheggiando un fantomatico ordine multipolare, le sue difficoltà economiche ci mostrano che, ad Occidente e a Oriente, il capitalismo è fatto della stessa pasta e non può più offrire niente all’umanità, se non sfruttamento, miseria, guerre, distruzione dell’ambiente.

Agli sfruttati il compito di mettere fine a questa barbarie.

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