Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui https://pungolorosso.com/):
Milioni di lavoratori e lavoratrici in Italia (come del resto in gran parte dei paesi europei e fuori Europa) si trovano ad affrontare il problema concreto della perdita di potere d’acquisto dei salari a seguito della fiammata inflazionistica che dalla seconda metà del 2021 a tutto il 2023 ha fortemente aumentato i prezzi dei beni di consumo dopo un ventennio di relativa stabilità, mentre salari e stipendi sono rimasti pressoché fermi. Ciò si traduce in un calo del tenore di vita e/o dei risparmi dei lavoratori salariati, e in un aumento dei profitti dei capitalisti. E non può esserci dubbio sul fatto che l’ingresso dell’Italia e dell’Europa tutta in una economia di guerra inasprirà questa tendenza.
In Italia la riduzione dei salari reali è particolarmente accentuata rispetto agli altri paesi europei, anche perché da decenni, da quando hanno firmato l’abolizione della scala mobile nel 1992, i maggiori sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil hanno rinunciato a organizzare lotte generali per la difesa dei salari e delle condizioni di lavoro. Hanno preferito barattare privilegi per le proprie organizzazioni (dai finanziamenti pubblici a Caf e patronati al monopolio della rappresentanza) offrendo in cambio la “pace sociale”, firmando senza scioperi o con scioperi di facciata contratti nazionali di categoria che tornata dopo tornata cancellano le conquiste delle lotte degli anni ‘70 con concessioni in termini di flessibilità, precarietà e anche di salario, e spostando la contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale, che divide una minoranza di lavoratori con potere contrattuale dalla maggioranza che resta al palo.
L’articolo di impostazione della questione (a cura del compagno Roberto Luzzi) che qui pubblichiamo, analizza sulla base dei dati ufficiali forniti dall’ISTAT la perdita di potere d’acquisto dei salari, che è stata più accentuata per i salari più bassi; smaschera la presa in giro dell’ “esonero contributivo” di Draghi-Meloni che fa apparire come un regalo in busta paga quello che è un semplice recupero dell’aumento dell’IRPEF a seguito dell’inflazione (fiscal drag); e pone la necessità di lottare avanzando rivendicazioni salariali unitarie e unificanti nei rinnovi dei CCNL, e di una campagna per il salario minimo a 12 euro l’ora e la reintroduzione della scala mobile.
Siamo consapevoli che è un compito non facile in assenza di una spontaneità operaia, ma orientare e muoversi in questa direzione è obbligatorio per chi si pone dal punto di vista di classe e anticapitalista – altrimenti, lo si voglia o meno, l’avranno vinta la dispersione aziendale e l’aziendalismo. Cioè i padroni.
Redazione Il Pungolo Rosso
PER UNA RISPOSTA DI CLASSE ALLA MISERIA SALARIALE
di Roberto Luzzi
La Relazione Annuale 2024 dell’ISTAT mette insieme alcuni dati che ci permettono di descrivere nel dettaglio quanto abbiamo visto con i nostri occhi negli ultimi anni: l’Italia è sempre più il paese dei bassi salari tra i paesi “ricchi”, e l’inflazione 2021-2023 ha ulteriormente tagliato il potere d’acquisto dei lavoratori, che sono sempre più a rischio di povertà grazie anche al jobs Act di Renzi che ha accresciuto l’utilizzo di part-time e contratti a termine. Quanto al taglio del Reddito di cittadinanza fatto dalla Meloni, esso ha colpito nel mucchio chi era già povero, ed è stato costretto ad accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi prezzo (perlopiù in nero) per poter campare, arricchendo gli sfruttatori.
Tra il gennaio 2021 e il dicembre 2023 i prezzi al consumo sono aumentati del 17,4%, mentre i salari contrattuali del solo 4,7%, con un taglio del potere d’acquisto del 12,7% (vedi primo e terzo grafico della Fig. 11). Anche se consideriamo le retribuzioni di fatto (compresi straordinari, premi ecc.) è confermata una grossa perdita di potere d’acquisto (secondo grafico della Fig. 11, differenza tra la colonna bianca e quella arancio). I lavoratori dei servizi privati (commercio, alberghi, ristorazione, pulizie, vigilanza, ecc.) sono quelli che hanno perso più terreno, con la più bassa dinamica salariale.
Nota. IPCA= Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato (metodo di calcolo uguale per tutti i paesi europei). Il grafico a sinistra mostra come questo indice, posto = 100 l’inizio 2021, è vicino a 120, mentre le retribuzioni contrattuali sono poco sopra il livello 105. IPCA-NEI = IPCA depurato dei prodotti energetici importati (non vi entrano gli aumenti di gas, benzina e diesel)
Ha perso di più chi ha meno
Ma si tratta di medie, le famose medie del pollo (da una poesia dello scrittore popolare in romanesco Trilussa: se una persona si mangia due polli, e un’altra nulla, “in media hanno mangiato un pollo a testa”)1. Infatti l’aumento dei prezzi è stato maggiore per le famiglie con redditi più bassi, che spendono in proporzione di più per generi alimentari e per il riscaldamento, aumentati più della media: per il 20% delle famiglie con spesa più bassa, infatti i prezzi sono aumentati del 21,7%, contro il 15,7% per le famiglie con consumi più alti. La discesa dei prezzi energetici nei primi mesi del 2024 ha ridotto ma solo in parte questo divario. Tenendo conto dell’aumento del 4,7% delle retribuzioni contrattuali (nominali, cioè in euro correnti) in tre anni le famiglie con redditi più bassi hanno subito una perdita di potere d’acquisto intorno al 17%. Come dire che se prima con la paga arrivavano fino a fine mese, ora arrivano solo al giorno 25.
Nota. La classe di spesa I, ossia le famiglie che consumano di meno, hanno visto un aumento medio dei prezzi dei propri consumi vicino al 23% (linea nera, scala a sinistra), mentre le famiglie che consumano di più hanno visto un aumento dei prezzi dei propri consumi intorno al 18% (linea rossa). Il grafico a barre mostra come il divario tra la dinamica dei prezzi dei poveri e quelli dei ricchi è stato massimo a fine 2022, e si è andato riducendo in seguito, ma restano quasi 5 punti di differenza.
Il finto regalo di Draghi e Meloni
Ora qualcuno pensa che il governo, prima Draghi poi Meloni, sia intervenuto con l’“esonero contributivo” a rimborsare almeno in parte i lavoratori per la perdita, restituendo un 6-7% circa di contributi in busta paga,2 per cui la paga netta in euro è aumentata e la perdita salariale si riduce di altrettanto. Falso. Come si può agevolmente calcolare, questo “esonero contributivo”, strombazzato come un regalo del governo ai lavoratori, copre si e no il fiscal drag, ossia l’aumento della pressione fiscale dovuto all’inflazione.3
Non solo i minori contributi sono tassati, quindi la riduzione del 7% al netto diventa il 5,4%, ma anche le detrazioni vengono svalutate, e diminuiscono per cui aumenta la tassazione a parità di potere d’acquisto. Un salario lordo di 21 mila euro oggi paga il 10,2% di IRPEF, mentre tre anni fa un salario con lo stesso potere d’acquisto (17.500 euro) era tassato al 4,0%, anche perché le detrazioni al posto di aumentare in proporzione con gli euro svalutati, sono diminuite di 405 euro! È bene che i lavoratori lo sappiano: il “7% della Meloni” (come i lavoratori hanno imparato a chiamare l’esonero contributivo, sulla falsariga degli “80 euro di Renzi”, credendo siano un benevolo regalo) non copre per intero neanche l’aumento dell’IRPEF pagata dai lavoratori. Il 7% di “esonero contributivo” di Draghi-Meloni è una partita di giro tra meno contributi e più tasse, cioè è una presa in giro per i lavoratori. Lo Stato con una mano te li dà, con l’altra te li prende.
Nonostante l’unificazione dell’aliquota al 23%, con la mancata rivalutazione delle detrazioni l’IRPEF è di fatto diventata più regressiva, i salari bassi sono tassati di più!
La questione fiscale
È un altro esempio dell’importanza della questione fiscale, della sua incidenza sulla ripartizione del reddito tra salari e profitti, per chi vede solo il rapporto operaio-padrone, e non vede tutti i cinque “fratelli del plusvalore” che mettono le mani nelle tasche dei lavoratori: profitto industriale, profitto commerciale, interesse/rendita finanziaria, rendita, e infine imposte. Il dato dell’inflazione registra l’aumento dei prezzi incassati da tutti questi “fratelli”: il prezzo aumentato al supermercato contiene l’aumento di profitto industriale + commerciale+ rendita immobili industriali e commerciali + imposta=IVA; l’affitto di casa è un’altra porzione di rendita, o di interesse se pago il mutuo; quando faccio benzina pago rendita petrolifera e imposta (accise); e le imposte dirette (IRPEF e addizionale regionale e comunale) le pago ancor prima di aver ricevuto la busta paga. Se il salario è fermo, è stato decurtato da tutti questi “fratelli del plusvalore”, non solo dal padrone diretto che avendo aumentato il SUO prezzo di vendita vede aumentare il suo profitto. I governi degli ultimi decenni hanno ridotto la pressione fiscale sulle imprese di ogni ordine e grado e sugli strati sociali più ricchi, e l’hanno aumentata sui lavoratori salariati. La rapida retromarcia della Meloni sul redditometro ha mostrato ancora una volta il peso elettorale degli evasori. La rivendicazione di una patrimoniale del 10% sul 10% dei più ricchi colpisce questa ridistribuzione alla rovescia realizzata dal fisco.
Inflazione e sistema fiscale regressivo hanno invece contribuito a un ulteriore aumento dei profitti mentre diminuivano i salari. Secondo la Relazione dell’ISTAT i profitti nel 2023 sono risaliti a livelli superiori al 2019, soprattutto in agricoltura, nell’edilizia (con le vele al vento del bonus 110%), nel commercio e nella finanza (gli extraprofitti delle banche con la risalita dei tassi di interesse). In una situazione di sostanziale ristagno della produzione (a parte il tonfo per la crisi Covid, seguito da un rimbalzo), non poteva essere diversamente: se diminuisce la parte del prodotto che va ai lavoratori, aumenta quella che va ai capitalisti (vedi i margini di profitto nella parte destra di Figura 1.10).
Questo doppio movimento spinto dall’inflazione, con i più poveri che hanno subito l’impatto più forte, e i capitalisti che hanno aumentato i profitti, porta a un ulteriore aumento delle ineguaglianze, con gli strati inferiori dei salariati che diventano più poveri e i borghesi più ricchi.
Nota. Il grafico a sinistra mostra come, posto il 2018 = 100, i prezzi di vendita delle merci da parte delle imprese (deflatore dell’output al costo dei fattori) a fine 2023 erano saliti a oltre 115, mentre il costo del lavoro era tra 105 e 106. Dato che i prezzi dei prodotti intermedi acquistati (deflatore dell’input ai prezzi d’acquisto) si sono allineati con i prezzi di vendita, resta un ampliamento dei margini di profitto delle imprese pari alla differenza tra prezzi di vendita e costo del lavoro: la perdita di potere d’acquisto dei salari si traduce in più profitti. Nel grafico a destra sono posti = 100 i margini di profitto dei vari settori nel 2018. Si può vedere come nel 2023 tutti i settori avevano aumentato i margini di profitto, anche se con andamenti diversi durante la crisi Covid.
La Figura 2.5 mostra un fatto ormai risaputo: l’Italia è il fanalino di coda in Europa per dinamica dei salari. Da tempo circolava il dato del calo del potere d’acquisto dei salari in Italia nei 30 anni tra il 1990 e il 2020, mentre in tutti gli altri paesi europei sono aumentati. Dal grafico è evidente che anche negli ultimi dieci anni i salari reali italiani sono gli unici ad essere diminuiti, del 4,5%, mentre in Germania sono aumentati del 5,7%.
Nota. Il grafico a sinistra mostra l’aumento dei salari lordi nominali, cioè in euro correnti. Il grafico di destra sottrae l’aumento del costo della vita, per ottenere i “salari reali”, ossia il potere d’acquisto dei salari.
Precarietà fa rima con povertà
Se andiamo a considerare il “rischio povertà” tra i lavoratori dipendenti, l’Istat evidenzia la forte correlazione con la precarietà del rapporto di lavoro. Sono considerati “a rischio povertà” i lavoratori sotto il 60% del reddito mediano, cioè sotto i 12.000 euro annui nel 2022. Il grafico 2.7 evidenzia come si tratta di gran parte dei lavoratori part-time e a tempo determinato. La precarietà del lavoro è il principale fattore di povertà. Tra il 2015 e il 2022 la quota dei lavoratori a tempo pieno e indeterminato è diminuita di 4 punti. Di altrettanto sono aumentati i lavoratori a tempo determinato e a part-time. Tra quelli a part-time, sono aumentati di 1,5 punti quelli a tempo determinato. E’ l’effetto del Jobs Act di Renzi, del 2014, che liberalizzando i contratti a termine ha sottoposto un numero crescente di lavoratori, soprattutto i giovani, al ricatto e all’arbitrio dei padroni. Tra il 2015 e il 2022 9,8 milioni di lavoratori dipendenti, pari al 59% del totale, ha sperimentato almeno un anno sotto la soglia del 60%.
Nel complesso, osserva l’ISTAT che tra il 2010 e il 2022 il numero di occupati a rischio povertà è aumentato dal 9,5% all’11,5%, più della media europea. E data la riduzione dei salari, per l’Italia significa che stanno sotto una soglia più bassa, in termini di potere d’acquisto, mentre per gli altri paesi la soglia si è alzata. Il loro numero è maggiore al SUD, ma ne conosciamo molti anche al Nord, soprattutto donne e immigrati, tra coloro che fanno le pulizie, negli alberghi, ristoranti, vigilanza, ecc. In molte di queste situazioni il part-time è funzionale a imporre ritmi più elevati, non sostenibili per 8 ore al giorno. Due lavoratrici a 4 ore al giorno possono essere costrette a rassettare più stanze d’albergo ecc. di quanto si possa imporre a una lavoratrice su 8 ore: il part-time non solo serve a garantire più flessibilità all’azienda, ma anche l’intensificazione dello sfruttamento, l’estrazione di più lavoro, di quello che Marx chiama “plusvalore assoluto”.
Le statistiche ISTAT ed Eurostat-Silc ci dicono che la quota di lavoratori a basso salario o “a rischio di povertà” è più alta per: donne, giovani, immigrati, persone con basso livello di istruzione. Le lavoratrici hanno una retribuzione media del 15,6% inferiore ai lavoratori uomini, e più di una donna su dieci ha un basso salario (meno di due terzi del salario mediano), contro 1 maschio su 14. I giovani sotto i 30 anni, sia maschi che femmine, hanno salari orari inferiori del 21% rispetto alla media e hanno una probabilità quasi doppia rispetto alla media (16,8% contro 8,5%) di avere un “basso salario”; il 37,3% degli immigrati extra-UE è a rischio di povertà o di esclusione sociale4 (reddito inferiore al 60% di quello mediano o indisponibilità di un certo numero di beni o servizi), contro il 19,8% per gli italiani. La retribuzione di un laureato è del 70% superiore a quella di un lavoratore con la media inferiore5. Il capitale sa sfruttare la divisione delle forze lavoro tra uomini e donne, italiani e immigrati, impiegati e operai, e anche tra vecchi e nuovi lavoratori, per abbassare i salari e far sentire privilegiati quelli che più facilmente possono organizzarsi, concedendo loro qualche briciola perché non uniscano le forze con quelli/e che stanno sotto di loro, alimentando razzismo e patriarcalismo. Questa divisione si combatte combattendo queste ideologie reazionarie ma soprattutto con l’unità nella lotta.
Sotto padrone
Si tenga inoltre conto del fatto che i dati riportati sui salari escludono le imprese con meno di 10 addetti, quindi escludono ben il 42% degli addetti delle imprese italiane fino a 9 addetti, quelli che hanno i salari più bassi e le condizioni lavorative peggiori.
Ci si può chiedere come mai l’Italia sia il fanalino di coda in Europa quanto a dinamica salariale. Un motivo oggettivo può essere la disoccupazione, che tuttavia in rapporto alla popolazione è nella media europea. Un motivo che certamente incide è la piccola dimensione delle imprese italiane, risultato della protezione delle piccole imprese da parte dei governi di destra come di centro-sinistra, che rende impossibile organizzarsi e lottare sul terreno sindacale per buona parte dei lavoratori. In Italia più della metà dei lavoratori del settore privato (il 52%) lavora in aziende con meno di 20 dipendenti. E solo uno su 4 (il 25%) in aziende con più di 250 dipendenti, contro il 42% della Germania e il 44% della Francia. Se consideriamo i 50 addetti la soglia minima per riuscire a organizzarsi sindacalmente, in Italia solo il 39% è sopra questa soglia, contro il 59% in Germania, il 55% della Francia e il 47% della Spagna.
Ma c’è anche, e pesa, un fattore soggettivo, politico: la rinuncia alla lotta delle confederazioni sindacali CGIL, CISL e UIL, che hanno praticamente il monopolio della contrattazione nazionale. Hanno lasciato passare l’ondata inflazionistica e la decurtazione del potere d’acquisto dei salari, un fatto eccezionale nell’ultimo ventennio e comune a tutti i lavoratori salariati, senza organizzare una lotta unitaria almeno per il recupero di quanto perso da tutte le categorie. Si dovevano unire metalmeccanici, chimici, legno e tutti gli altri settori industriali al commercio, turismo, pulizie, trasporti pubblici e merci, logistica, bancari, sanità, istruzione ecc. in un’unica lotta per un aumento uguale per tutti di almeno 300 euro mensili. Quello che sarebbe stato dovuto a tutti se 32 anni fa CGIL, CISL e UIL non avessero firmato l’abolizione della scala mobile dei salari. Hanno invece lasciato che ogni categoria aspettasse la scadenza del suo contratto per trattare in ordine sparso sulla base delle condizioni settoriali, di modo che i chimici hanno ottenuto 200 euro su 5 anni, la vigilanza una sessantina di euro (tanto è roba da senegalesi!), e i bancari 435 euro di aumento al mese, senza scioperi (ancora briciole rispetto ai superprofitti delle banche, che i governi Draghi e Meloni hanno fatto solo finta di voler tassare), ma meglio non farlo sapere troppo in giro, che anche agli altri potrebbero farsi venire strane idee, mentre altre categorie sono ancora al palo di fronte all’intransigenza padronale e in mancanza della volontà, e della capacità, di organizzare scioperi veri, abbandonate da decenni.
Invece i vertici confederali sono andati col cappello in mano dalla Meloni, che ha offerto loro l’aumento dell’“esonero contributivo” di Draghi dal 3 al 7 per cento, e hanno fatto finta che fosse un regalo vero e non la presa in giro che è, delegando la questione salariale sul piano generale a PD e M5S, la cui proposta di salario minimo a 9 euro (che aveva un senso nel 2021, prima della fiammata inflazionistica, ma che nel 2023 equivaleva a un netto di meno di 8 euro e, con valore reale pari a 6.62 euro netti del 2021: una svendita) è stata bocciata dalla maggioranza governativa, e nessuna iniziativa è stata presa nelle piazze e nelle fabbriche. La rivendicazione di un salario minimo di 12 euro, come esiste già in Germania, avrebbe una diversa capacità di mobilitare e unificare la grande maggioranza dei lavoratori, ma non è nelle corde dei sindacati confederali, alfieri della competitività del made in Italy, e soprattutto delle piccole imprese che prosperano sui bassi salari e sull’esclusione del sindacato.
L’iniziativa sindacale è lasciata a briglie sciolte nella giungla della “contrattazione di secondo livello”, azienda per azienda, dove i padroni giocano al gatto col topo concedendo briciole sui profitti nella forma di premi legati alla produttività e alla presenza. Ossia, per riconquistare una frazione del potere d’acquisto di tre anni fa occorre produrre ogni anno di più, e andare a lavorare anche se malati! Spieghiamoci meglio: se il lavoratore dà la stessa quantità di ore di lavoro con la stessa intensità, e quindi “produce” la stessa quantità di merci, dovrebbe ricevere un salario che gli permette di acquistare la stessa quantità di merci. E invece no: il prezzo delle merci è aumentato, il salario in euro no, o molto meno. Il padrone dice all’operaio (tramite il sindacato): “se vuoi avere di più devi lavorare di più” e insieme firmano un “accordo di secondo livello” che aumenta il premio di risultato, diciamo da 1.000 a 1.500 euro in cambio di minori assenze e più produzione. Ma su un salario di 20 mila euro il lavoratore ha perso 4.000 euro di potere d’acquisto. Per recuperarne solo 500 dovrà dare più ore di lavoro. Quindi: più produzione per un salario che può acquistare meno prodotti… L’aziendalismo oltre che far rima con “divisione” dei lavoratori azienda per azienda, fa rima anche con “sfruttamento”. Anche in un settore come la logistica, dove l’iniziativa è in mano a sindacati combattivi, in particolare il SI Cobas (che le organizzazioni padronali cercano di escludere dal tavolo nazionale) è importante che la lotta per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro non si sfilacci in battaglie aziendali spesso alimentate da provocazioni delle stesse aziende, ma raccolga ed estenda le energie di tutto il settore sugli obiettivi comuni, tra cui una richiesta di 300 euro di aumento e di riduzione dell’orario settimanale e annuo.
Contro lo sfruttamento e l’ “autosfruttamento”, non c’è che il ritorno alla lotta!
Ma come abbiamo visto, solo una minoranza dei lavoratori ha la possibilità di organizzarsi sindacalmente e quindi far valere degli accordi aziendali. E solo una parte dei lavoratori in aziende con più di 50 addetti riesce effettivamente a portare avanti rivendicazioni aziendali. La maggioranza è lasciata a se stessa, in un rapporto individuale col padrone. Chi può, risolve così individualmente il problema del basso salario nel modo richiesto dal padrone: lavorando più ore, prolungando la giornata e la settimana lavorativa. I dati ufficiali sugli straordinari non sono veritieri, perché per una parte importante non sono dichiarati e sono pagati in nero (fuori busta) o in “grigio” come “diaria”, “trasferta”, “rimborso”, tutte forme esenti da contributi e IRPEF: il lavoratore guadagna un netto poco più alto di quello che guadagnerebbe se pagato regolarmente in base alle maggiorazioni contrattuali, perché non paga contributi e tasse, il padrone non solo non paga le maggiorazioni, ma evade anche i propri contributi, e riduce così fortemente il “costo del lavoro” proprio con le ore straordinarie, che invece dovrebbero costare di più.
C’è quindi un interesse diretto padronale a far fare straordinari in nero per diminuire il costo medio orario del lavoro e quindi aumentare i profitti. In molti luoghi di lavoro lo straordinario è ambito dai lavoratori, che lo vedono come unica via per portare a casa un salario che permetta un tenore di vita più umano (al prezzo di una vita disumana) e il padrone usa la “concessione” dello straordinario come strumento di premiazione e il suo diniego come mezzo di punizione. Questa condizione, tipica del primo dopoguerra prima dell’”autunno caldo”, è un indicatore della degradazione della classe lavoratrice priva di capacità di lotta, che il bisogno porta all’”auto sfruttamento”.
Al posto di assumere altro personale si costringono o inducono i lavoratori in forza a consumarsi anzitempo con lunghi orari di lavoro, ad amputare la propria vita familiare e sociale per mettere insieme un po’ più di salario, ma essenzialmente per aumentare i profitti dei padroni pagando un monte salari inferiore. Queste prassi vedono spesso la connivenza dei sindacati aziendali, e sono ancor più diffuse dove non c’è il sindacato. Si sviluppa così una “complicità” operaio-padrone alle spalle del fisco, nella quale l’operaio pensa di guadagnarci mentre ci perderà: non in salario netto, ma in “salario differito” perché avrà una pensione più bassa, e perché i contributi e le tasse così evasi comporteranno un taglio dei servizi sociali. Ma soprattutto il lavoratore consuma il proprio organismo e la propria vita nel luogo di lavoro come bestia da soma del capitale e allo stesso tempo col suo superlavoro tiene fuori nell’”esercito industriale di riserva” come disoccupati una parte dei proletari, la cui fame viene usata dal capitale per far concorrenza al ribasso sui salari. Per chiarirci meglio: su un monte ore di lavoro pari, ad esempio, a 24 ore, ai padroni conviene sempre di più impiegare 2 operai a 12 ore piuttosto che 3 operai a 8 ore; e sempre più assumere part-time a 4 ore per farli lavorare 6 o 8 ore, poiché indipendentemente dalle ore effettive lavorate, l’inquadramento a part-time gli permette di abbattere il salario relativo al TFR e agli istituti contrattuali.
Questa dinamica reale mostra l’importanza di una lotta generalizzata per la rivalutazione dei salari e per il ripristino di una scala mobile dei salari, che permetta il recupero automatico integrale degli aumenti dei prezzi, perché non si sia costretti al superlavoro per poter vivere. Un salario dignitoso è la precondizione per la riduzione dell’orario di lavoro e per migliori condizioni di vita. Per questo occorre promuovere ovunque vertenze nazionali unificanti nei singoli settori e tra diversi settori per un forte recupero salariale per contrastare la misera salariale attuale e abbattere la tendenza ad ambire agli straordinari, e per il salario minimo legale di 12 euro l’ora.
Note
1 Ma pè me la statistica curiosa/ è dove c’entra la percentuale,/ pè via che, lì, la media è sempre eguale/ puro co’ la persona bisognosa./ / Me spiego: da li conti che se fanno/ seconno le statistiche d’adesso/ risurta che te tocca un pollo all’anno:/ e, se nun entra nelle spese tue,/ t’entra ne la statistica lo stesso/ perch’è c’è un antro che ne magna due. (Trilussa, La statistica)
2 Il 7% per redditi mensili fino a 1.923 euro mensili, 25.000 annui; il 6% per redditi tra 1.923 e 2.692 euro mensili, 35.000 annui considerando 13 mensilità. Nessun esonero oltre questa soglia.
3 Prendiamo come esempio un reddito lordo di 21.000 euro annue (1.500 euro al mese per 14 mensilità) nel 2024. Con una inflazione del 20%, corrispondente a questa fascia di reddito, ha lo stesso potere d’acquisto di 17.500 euro lordi del 2021. Se calcoliamo il netto dei 21.000 euro lordi attuali, dopo la restituzione del 7% di contributi (escluse 13^ e 14^) e l’applicazione di detrazioni e aliquote IRPEF, oggi otteniamo euro 18.224 netti, che equivalgono a 15.186 euro del 2021. I 17.500 lordi nel 2021 avrebbero dato un netto di 15.203, 17 euro reali in più, nonostante la “restituzione Meloni” di 1260 euro di contributi. Come mai? Perché con un reddito di 17.500 euro lordi nel 2021 si sarebbero pagate 627.90 euro di IRPEF, contro i 2.044 pagati nel 2024 (la differenza di 1.407 euro di tasse pagate in più è il fiscal drag). L’”esonero contributivo” è completamente annullato dall’aumento dell’IRPEF!
4 Rischio di esclusione sociale: nelle statistiche Eurostat-Silc è definito come la percentuale di popolazione che sperimenta una mancanza forzata di almeno 7 voci di deprivazione su 13 (6 relative all’individuo e 7 relative alla famiglia).
Elenco delle voci a livello familiare:
- Capacità di affrontare spese impreviste
- Capacità di permettersi di pagare una settimana di vacanza annuale lontano da casa
- Capacità di far fronte a pagamenti arretrati (su mutui o affitti, bollette, rate di acquisto a rate o altri prestiti).
- Capacità di permettersi un pasto a base di carne, pollo, pesce o equivalente vegetariano ogni due giorni
- Capacità di mantenere la casa adeguatamente calda
- Avere accesso a un’auto/furgone per uso personale
- Sostituzione di mobili usurati
Elenco di elementi a livello individuale:
- Avere una connessione a Internet
- Sostituire gli abiti logori con altri nuovi
- Avere due paia di scarpe che calzino correttamente (compreso un paio di scarpe per tutte le stagioni)
- Spendere una piccola somma di denaro ogni settimana per sé stessi
- Avere attività di svago regolari
- Riunirsi con gli amici/familiari per un aperitivo/pranzo almeno una volta al mese.
5 Dati relativi all’ultima rilevazione Eurostat disponibile, il 2018 per quanto riguarda la struttura salariale.
L'articolo [CONTRIBUTO] Per una risposta di classe alla miseria salariale proviene da "TOCCANO UNO TOCCANO TUTTI".