DOVE VA LA FRANCIA?

1 year ago 95

di Ugo Palheta

A che punto è il movimento nato in Francia il 19 gennaio per ottenere il ritiro dell’ennesima controriforma delle pensioni e una vittoria contro un presidente ampiamente odiato? A chi immaginava una prova d’orgoglio sindacale incapace di opporsi al rullo compressore neoliberista, a pochi mesi dalla rielezione di Macron, i lavoratori, i movimenti sociali e la sinistra hanno dimostrato che il governo non può contare su un’apatia diffusa. Non è ancora una rottura con l’ordine costituito, ma è già molto. In questo articolo, Ugo Palheta esamina le potenzialità, i limiti e anche la posta in gioco immediata e strategica della lotta in corso, per fornire spunti di riflessione.

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Il movimento che si sta sviluppando in Francia dal 19 gennaio è entusiasmante sotto molti aspetti. In appena due mesi, ha cambiato profondamente l’atmosfera politica del Paese, ha respinto il disfattismo imperante, ha destabilizzato (persino spaventato) gli zelanti difensori dell’ordine sociale stabilito e delle politiche neoliberiste e ha ampliato l’orizzonte delle aspettative dei milioni di persone che sono scese in lotta e, così facendo, hanno iniziato a prendere le misure della loro forza. Soprattutto, questa mobilitazione ha accentuato la crisi di egemonia che si sta approfondendo in Francia da anni, mostrando l’isolamento sociale del governo macronista. Ha cristallizzato un malcontento sociale che non aveva necessariamente trovato modo di esprimersi politicamente e ha trasformato in rabbia legittima la sfiducia generalizzata di gran parte della popolazione – in particolare della classe operaia e dei giovani – nei confronti di Macron e del suo governo.

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Da quel momento in poi, la posta in gioco non è più solo la controriforma delle pensioni. Non è più semplicemente “sociale”, nel senso restrittivo di sindacale. È eminentemente e pienamente politico: non appena diventato nazionale, si è esteso su scala sociale e si è radicato, il movimento si è affermato come un confronto non con questo o quel capitalista (come nel caso di una lotta contro i licenziamenti o i tagli di posti di lavoro in un’azienda), non con questa o quella misura settoriale (per quanto importante possa essere), ma con l’intera classe borghese rappresentata (e difesa) dal potere politico. In quanto tale, un movimento di questo tipo è in grado di aprire una breccia nell’ordine politico, modificando in modo duraturo i rapporti di forza tra le classi.

È nella natura di un grande movimento popolare confondere le categorie in cui si vogliono incasellare artificialmente le lotte di classe, separando un livello “politico” da un lato e uno “socio-economico” dall’altro. Ogni lotta di massa, e quella che stiamo vivendo non fa eccezione alla regola, è quindi inestricabilmente sociale e politica; tende inevitabilmente ad avere come obiettivo logico il potere politico e i grandi interessi che esso incarna: i proprietari, gli sfruttatori, la classe dominante. È anche ideologico e culturale, nella misura in cui sfida le descrizioni (piccole o grandi) che la classe dominante costruisce per giustificare questa o quella controriforma, o più in generale il suo ordine sociale con la sua scia di ingiustizie, alienazione e violenza, ma anche nel senso che permette di condurre una battaglia tra concezioni antagoniste del mondo e di far fiorire visioni alternative di ciò che la società, le relazioni umane e le nostre vite dovrebbero essere.

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L’attuale movimento si pone alla testa di tutte le mobilitazioni che lo hanno preceduto, almeno di quelle che hanno segnato la sequenza delle lotte iniziate a metà degli anni ’90: in particolare la battaglia di Notre-Dame-des-Landes, la lotta contro la legge sul lavoro, i Gilet Gialli, le mobilitazioni femministe contro le SGBV e più in generale l’oppressione di genere, il movimento 2019-2020 contro la riforma delle pensioni, le lotte dei migranti privi di documenti, o le lotte (in particolare antirazziste) contro i crimini della polizia e tutte le violenze dello Stato. Integra, articola e sviluppa i loro risultati, sia in termini di metodi e tattiche di lotta che a livello ideologico.

Tuttavia, una differenza significativa risiede nell’aumento del potere e della combattività della sinistra parlamentare, in particolare dei 74 deputati della LFI, che hanno contribuito notevolmente a politicizzare e radicalizzare una mobilitazione che la maggior parte dei sindacati – in particolare la CFDT – voleva mantenere su un terreno strettamente “sociale”. Possiamo quindi rallegrarci del fatto che la maggior parte dei nuovi deputati dell’LFI – mi vengono in mente Rachel Keke o Louis Boyard – non abbia mai cercato di opporre alla battaglia parlamentare (con i suoi stessi strumenti) i metodi classici della lotta di classe: manifestazioni di piazza, picchetti (in cui abbiamo visto questi deputati, tra cui la presidente del gruppo parlamentare dell’LFI Mathilde Panot, in diverse occasioni) e blocchi (in particolare delle scuole superiori e delle università, ma anche degli assi stradali).

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Tutti i nostri sforzi devono essere diretti verso l’obiettivo di ampliare e intensificare ulteriormente il movimento, al fine di ottenere una vittoria. Non sappiamo fino a che punto possiamo spingerci, ma ottenere che il governo faccia marcia indietro sulla sua controriforma è il minimo indispensabile. Nei mesi e negli anni a venire, tale vittoria conterà il doppio o il triplo, proprio perché Macron voleva fare di questa controriforma la madre di tutte le battaglie, una prova di forza che gli avrebbe permesso di consolidare il suo potere fino alla fine del suo mandato, e di iniziare la distruzione totale delle conquiste della classe operaia nel XX secolo. Da thatcheriano che ha imparato bene la lezione (dalla controrivoluzione neoliberista), Macron sa che deve spezzare i settori più combattivi del movimento sociale per far sprofondare in una disperazione duratura coloro che attualmente si mobilitano, costruiscono scioperi e manifestazioni, bloccano e stanno insieme, con la speranza – vaga o affermata – di un mondo di uguaglianza e giustizia sociale.

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In questo confronto, il potere macronista ha già indicato – con le sue parole e la sua pratica – che è pronto ad andare fino in fondo, contribuendo inoltre alla politicizzazione del movimento con una repressione poliziesca a tutto campo. Rompendo le illusioni sul nuovo “piano di ordine pubblico” e sulla nomina a Parigi di un prefetto ritenuto meno brutale del famigerato Lallement, la polizia si è effettivamente caratterizzata negli ultimi giorni per l’estrema brutalità dei suoi interventi – una brutalità normalizzata e diventata routine negli ultimi dieci anni, tanto che non si tratta di “scivoloni” o “gaffe”, ma di azioni ordinarie di un corpo di polizia ampiamente fascistizzato. Ma l’azione della polizia è caratterizzata anche da un certo disordine di fronte al numero e alla determinazione dei manifestanti nella sequenza che ha seguito l’imposizione del 49-3.

Una grande minoranza del Paese sul suo progetto, costretta a tutta una serie di manovre istituzionali tipiche della Quinta Repubblica (la cui Costituzione, come sappiamo, è ben lontana da tutti gli standard, anche minimi, di una democrazia), destabilizzata dalla raccolta di video e testimonianze che mostrano o sentono la violenza di Stato, la Macronie, guidata dai suoi ideologi, chiaramente non può o non riesce più a convincere l’opinione pubblica che la violenza è dalla parte dei manifestanti e che la violenza della polizia è un mito inventato da barbari assetati di sangue della polizia. La prova che il monopolio della violenza legittima è sempre e solo “rivendicato” dallo Stato, per usare la famosa definizione di Max Weber, e che a volte, quando il “successo” citato in questa definizione non arriva, le cose si bloccano.

Sia con l’uso di queste manovre che con la repressione estremamente brutale del movimento negli ultimi giorni, il governo stesso ha aperto una breccia per una campagna democratica contro l’autoritarismo e per le libertà politiche. Nella stretta continuità del primo quinquennio di Macron e dei governi Hollande-Valls, queste manovre di forza permettono infatti di porre più ampiamente su scala di massa il problema sollevato dalle istituzioni bonapartiste della Quinta Repubblica, la necessità di una rottura con l’attuale quadro costituzionale, attraverso un’Assemblea Costituente, e la possibilità di una vera democrazia (che presuppone tra l’altro l’articolazione con la questione sociale).

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Sono stati aperti legittimi dibattiti sulla caratterizzazione della situazione sociale e politica. Qua e là si è potuto parlare di un “momento prerivoluzionario”, in vista del passaggio a una situazione o a un processo rivoluzionario vero e proprio, che si dice sia in vista, come se bastasse “dare una piccola spinta al sistema perché tutto crolli” (Jacques Rancière). Il corollario di questa affermazione, almeno nel primo articolo citato, è che il principale (o addirittura l’unico) ostacolo per ingaggiare una battaglia rivoluzionaria da parte del proletariato sarebbe d’ora in poi rappresentato dalle “direzioni sindacali”, o detto in modo ancora più unificante: “la direzione del movimento operaio”, cioè l’intersindacale.

Infatti, nella misura in cui il proletariato “nel suo insieme” – ci viene detto – sarebbe stato radicalizzato dal movimento, il potere non avrebbe più retto se non incanalando la rabbia sociale delle direzioni sindacali: “l’intersindacale agisce come l’ultima valvola di emergenza del regime della Quinta Repubblica in crisi”. E ancora: “Possiamo quindi tranquillamente affermare che il principale ostacolo alla trasformazione del “momento” prerivoluzionario in una situazione apertamente prerivoluzionaria, o addirittura rivoluzionaria, risiede nella leadership conservatrice e istituzionale del movimento operaio”.

Questa ipotesi è importante perché, anche se le correnti o le organizzazioni che difendono questa linea sono molto deboli, i problemi che pone riflettono preoccupazioni più ampiamente condivise tra i settori combattivi del movimento sociale. E ha conseguenze evidenti: se prendiamo sul serio tali affermazioni, ne consegue necessariamente che la denuncia immediata di questa “leadership del movimento operaio” acquista un ruolo assolutamente centrale per tutti coloro che lavorano per un cambiamento radicale della società, così come la costruzione di una leadership del movimento alternativa a quella intersindacale.

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Il primo errore di questo ragionamento consiste nel sottovalutare alcuni limiti della mobilitazione, che vanno presi sul serio per superarli, non con trucchi retorici, che servono solo a convincere i convinti, o con un appello al volontarismo che otterrà solo l’appoggio di chi è già pronto ad agire.

Questi limiti attuali ne fanno un movimento in grado di far arretrare Macron sul suo progetto di controriforma e potenzialmente, in caso di vittoria, su tutte le controriforme previste per il suo quinquennio, ma non – almeno in questa fase – di aprirsi a una situazione rivoluzionaria. Perché il volontarismo militante di una minoranza, pur assolutamente necessario, non basta da solo a superare queste debolezze e a passare dalla protesta sociale – per quanto ampia e radicale – alla rivoluzione; anche in una situazione che, come la nostra, richiede oggettivamente una rottura politica e una trasformazione rivoluzionaria, in senso eco-socialista, femminista e antirazzista.

Una rivoluzione non è mai “chimicamente pura”, o fedele a un manuale scritto una volta per tutte, ma presuppone alcuni elementi senza i quali parlare di “momento prerivoluzionario” è più velleitario (o tattica di autocostruzione per piccoli gruppi militanti) che un’ipotesi strategica. Nella misura in cui la caratteristica fondamentale e distintiva di una rivoluzione è l’apparizione più o meno esplicita di una dualità di poteri (tra lo Stato borghese e le forme di potere popolare al di fuori dello Stato, ma anche all’interno dello Stato stesso), i momenti prerivoluzionari presuppongono alcuni elementi: un conseguente blocco dell’economia, un livello significativo di auto-organizzazione, un inizio di centralizzazione e di coordinamento nazionale dei movimenti in lotta, nonché crepe nell’apparato statale e, più in generale, nella classe dirigente.

Ma tutti questi elementi mancano nel movimento attuale:

– Solo pochi settori dell’economia stanno vivendo una vera e propria attività di sciopero (e ancor meno uno sciopero riconducibile), settori essenzialmente pubblici o parastatali (netturbini, SNCF, EDF, Educazione Nazionale, ecc.), e quasi tutte le grandi aziende private non si sono affatto fermate, anche nei giorni di maggiore mobilitazione sindacale (tranne in alcuni settori come le raffinerie).

– Anche nei settori in cui lo sciopero ha assunto una certa dimensione, l’auto-organizzazione nel quadro delle assemblee generali (GA) e dei comitati di sciopero è molto debole, anche rispetto ai movimenti precedenti.

– Sono emersi raggruppamenti di attivisti di diversi settori (come nel 2019-2020, tra l’altro), ma sono estremamente minori rispetto alla scala del movimento (per non parlare della classe operaia nel suo complesso), soprattutto se paragonati alle “interpros” (assemblee interprofessionali) del dicembre 1995; sembrano più un modo per piccoli gruppi militanti di aumentare il loro pubblico e costruirsi, che un mezzo reale per influenzare l’estensione e l’intensificazione dello sciopero.

– Infine, l’apparato statale tiene duro (in particolare l’apparato repressivo: polizia-esercito-giustizia) e i datori di lavoro continuano a sostenere Macron (anche se sembra che questa controriforma non fosse per loro particolarmente urgente).

Tutti questi limiti non sminuiscono in alcun modo il movimento attuale e può darsi che le prossime settimane ci permettano di andare oltre la situazione attuale e di superare certi limiti, ma la corretta definizione dei compiti e della strategia dipende dalla esattezza della diagnosi. In questo senso, non c’è spazio per l’autocompiacimento.

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Un secondo errore, che in realtà deriva dal primo, è quello di pretendere di risolvere quello che dovrebbe essere un grande problema strategico per il movimento, ma anche per le organizzazioni sindacali e politiche nel prossimo futuro, affermando che negli ultimi due mesi abbiamo assistito alla “radicalizzazione del proletariato nel suo complesso”. Ciò significa ignorare il fatto che l’ostilità generalizzata e virulenta nei confronti di Macron non equivale in alcun modo a una coscienza anticapitalistica di massa. È importante lottare contro un’eccessiva personalizzazione e un’interpretazione psicologica delle questioni intorno alla figura di Macron, che ne fa un “pazzo”, uno “squilibrato” o un “sociopatico”, quando è soprattutto il mandatario del capitale e in particolare di quello finanziario. Ma soprattutto si sottovaluta il fatto che una grande maggioranza del proletariato non è di fatto entrata nel movimento.

I lavoratori sono certamente, nella loro quasi-totalità, contrari alla controriforma e ostili a Macron, ma la maggior parte di loro è rimasta finora inattiva. Solo una piccola parte della classe ha manifestato e la stragrande maggioranza non ha attraversato il Rubicone dello sciopero – per inevitabili ragioni materiali (insicurezza salariale, salari stagnanti da tempo, inflazione galoppante), ma anche a causa della repressione antisindacale che ha indebolito le squadre militanti in molte aziende, dell’impatto combinato della legge sul lavoro e delle ordinanze di Macron (che hanno destrutturato e limitato le risorse sindacali, in particolare nel settore privato), a cui si aggiunge l’amaro ricordo delle precedenti sconfitte. Inoltre, il livello di autorganizzazione è generalmente più basso rispetto ai movimenti precedenti (compresi quelli recenti come quello del 2019-2020, in particolare alla SNCF, e a maggior ragione rispetto a quello del dicembre 1995), e il coordinamento interprofessionale è inesistente o molto debole.

Il movimento popolare si è effettivamente sviluppato in modo più autonomo dopo l’imposizione del 49-3, organizzando azioni quotidiane quasi ovunque in Francia, senza l’avallo dell’intersindacale e utilizzando metodi di lotta più offensivi, le assemblee generali sembrano essere più numerose negli ultimi giorni, ma è ancora l’intersindacale a dare il tono e il ritmo del movimento, e nessuno è attualmente – in alcun modo – in grado di contestare questo ruolo.

Si potrebbe obiettare che, anche in un processo rivoluzionario, gli sfruttati e gli oppressi non sono mai mobilitati nella loro totalità. Ma, per prendere il solo caso della Francia, si stima che nel maggio-giugno del ’68 ci fossero fino a 7,5 milioni di scioperanti (e 10 milioni di persone mobilitate), in un Paese che aveva un numero di salariati molto inferiore a quello attuale (circa 15 milioni contro gli oltre 26 milioni di oggi). A causa del blocco dell’economia su larga scala per diverse settimane, del gran numero di occupazioni dei luoghi di lavoro e dell’iniziale disordine delle autorità politiche, la situazione dell’epoca presentava aspetti prerivoluzionari (nonostante i limiti dell’autorganizzazione, che non consentiva la nascita di consigli operai), e ciò significava compiti di natura molto particolare per i militanti convinti della necessità di una rottura rivoluzionaria (all’interno del PCF e delle organizzazioni di estrema sinistra).

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Le difficoltà del movimento non si spiegano tutte, tutt’altro, con il ruolo dannoso svolto dall’intersindacale. Su questo punto, non possiamo accontentarci di un ragionamento perfettamente circolare che consiste nel dire, in breve: se non ci sono organismi di auto-organizzazione, è perché l’intersindacale guida il movimento; e se è l’intersindacale a dare il tono e il ritmo, è perché non ci sono organismi di auto-organizzazione.

L’ipotesi di leadership infide nel movimento operaio che impediscono la trasformazione del movimento in un vero processo rivoluzionario aveva almeno una base oggettiva nel 1968, degna di essere discussa. In Francia, all’epoca, esistevano potenti sindacati operai, il principale dei quali – la CGT – era guidato da un partito comunista ampiamente radicato nella classe operaia e con un’ampia platea elettorale (oltre il 20%). In effetti, nel maggio-giugno 1968, il PCF ha ostacolato le forme di autorganizzazione che sarebbero potute emergere nelle aziende, a favore di una pratica generalmente passiva dello sciopero (in cui i lavoratori erano invitati a non intervenire direttamente e a lasciare che fossero i funzionari sindacali a guidarlo). Il partito si rifiutò anche di prendere iniziative coraggiose che avrebbero potuto permettere di sollevare la questione del potere e di un governo di rottura, soprattutto durante i pochi giorni o le settimane in cui il governo gollista è sembrato allo stremo, stordito dalla portata dello sciopero dei lavoratori e dalla determinazione del movimento studentesco.

Oggi la situazione è radicalmente diversa: i sindacati sono molto indeboliti, almeno rispetto al ’68 e non esiste più un partito operaio di massa. Se seguiamo l’ipotesi di Juan Chingo, questo dovrebbe costituire un viatico per la costruzione di uno sciopero generale. È vero il contrario, perché è nei settori e nelle imprese dove c’è il maggior numero di iscritti al sindacato e dove continuano a essere presenti i sindacati combattivi (in genere CGT, Solidaires e/o FSU) – perché non possiamo mettere tutti i sindacati e nemmeno tutte le “leadership sindacali” nello stesso sacco – che si esprime complessivamente la conflittualità più forte. D’altra parte, i settori e le aziende non sindacalizzate, lungi dall’essere quelli in cui una presunta disponibilità delle masse all’azione radicale si esprimerebbe in modo non ostacolato dalla famosa “leadership del movimento operaio”, sono quelli in cui regnano l’atomizzazione, la passività, lo pseudoconsenso manageriale, e persino dove fiorisce il voto di estrema destra.

Anche nelle università possiamo constatare la validità di questa ipotesi: se i sindacati sono molto deboli, gli attivisti presenti hanno le maggiori difficoltà, almeno finora, a far emergere ampi quadri di autorganizzazione (la maggior parte dei GA ha mobilitato fino a poco tempo fa solo qualche centinaio di studenti); e anche nelle università che di recente hanno visto alcuni GA piuttosto massicci (Tolbiac, Mirail) la scarsa presenza di organizzazioni studentesche indebolisce l’allargamento e l’autorganizzazione del movimento [1]. In altre parole, se il proletariato e la gioventù fossero già radicalizzati nel loro insieme e se le direzioni sindacali costituissero l’unico blocco da rompere per lanciare un’offensiva rivoluzionaria, assisteremmo allo sviluppo di lotte radicali e di forme avanzate di autorganizzazione nei settori in cui l’impianto sindacale è più debole, in altre parole dove la presa delle direzioni sindacali è più fragile. Niente di più lontano dalla realtà attuale.

L’ipotesi della sostituzione della leadership sindacale (riformista) con una  veramente rivoluzionaria ha tutti i vantaggi della semplicità e tutti gli svantaggi del semplicismo (se non dell’irrealismo, quando si pensa che la famosa “leadership rivoluzionaria alternativa” sia il prodotto del lavoro di costruzione autocentrato delle micro-organizzazioni). Certo, possiamo pensare che una politica più combattiva dell’intersindacale – il rifiuto delle giornate “bisestili”, un chiaro invito a rinnovare lo sciopero e a partecipare alle assemblee generali, eccetera – avrebbe permesso una mobilitazione fin dall’inizio. Ma stiamo toccando i limiti del quadro dell’attuale mobilitazione, che costituisce anche uno dei suoi punti di forza: l’unità mantenuta dal fronte sindacale, senza la quale è dubbio che il movimento avrebbe assunto queste dimensioni e avrebbe ricevuto questa approvazione da parte della popolazione.

Nel periodo attuale e futuro, le sfide e i compiti sembrano essere di natura completamente diversa per gli attivisti che non vogliono rinunciare né alla prospettiva rivoluzionaria né al lavoro all’interno del movimento reale: estendere l’impianto sindacale al di là dei settori attualmente mobilitati, rafforzare le “ali di sinistra” all’interno delle organizzazioni sindacali (i sindacati della “lotta di classe” o della sensibilità), contribuire all’ascesa di nuove correnti o movimenti radicali (al di fuori delle organizzazioni tradizionali, ma in articolazione e non in opposizione ad esse), approfondire il lavoro politico-culturale che ci permetta di passare dall’odio per Macron alla critica del sistema nel suo complesso e infine alla necessità di una rottura anticapitalistica per costruire una società completamente diversa.

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Uno dei punti centrali espressi nella situazione attuale è l’estrema dispersione dei livelli di coscienza politica tra i lavoratori e i giovani. La prospettiva di una rottura anticapitalistica e di un’altra società è certamente cresciuta tra la popolazione nella sequenza 2016-2023, ma non cresce alla stessa velocità dell’odio viscerale verso il potere politico e, in particolare, verso Macron. Tanto che il sentimento anti-Macron in generale e l’ostilità verso la sua controriforma delle pensioni in particolare, può favorire l’estrema destra.

Un sondaggio abbastanza recente (a fine febbraio) dava Marine Le Pen come principale oppositrice del progetto di controriforma di Macron (leggermente in vantaggio su Jean-Luc Mélenchon), in particolare tra le classi lavoratrici, anche se il Rassemblement National (RN) non propone il ritorno ai 60 anni di età pensionabile e si oppone agli scioperi rinnovabili. Un sondaggio appena pubblicato lo conferma, suggerendo che il FN/RN potrebbe essere la forza politica che beneficerebbe maggiormente del rifiuto della controriforma delle pensioni. Ciò rimanda ovviamente a cause profonde e a una storia già lunga di radicamento elettorale e di costruzione ideologica, ma non si capirebbe nulla se non si prendesse sul serio in considerazione il modo in cui le élite politiche e mediatiche non hanno smesso negli ultimi anni di rendere rispettabile l’estrema destra e di banalizzare le sue “ideee al contrario di demonizzare la sinistra (in particolare LFI – La France Insoumise).

In alcuni movimenti si sono verificate sedimentazioni parziali, ma che riguardano solo in minima parte le classi e le frazioni di classe che ne costituiscono il centro di gravità. I Gilet gialli sono stati quindi teatro di un processo di chiarificazione e radicalizzazione politica, che però ha permeato solo una frangia limitata delle classi lavoratrici, anche all’interno delle frazioni più favorevoli al movimento, in particolare nelle aree rurali o semi-rurali e nelle piccole città. Ciò è indubbiamente tanto più vero in quanto esiste un forte divario tra l’adesione al movimento (che può essere estremamente ampia, come nel movimento attuale e, in misura minore, all’inizio dei Gilet Gialli) e l’effettiva partecipazione alle mobilitazioni (soprattutto quando questa partecipazione si riduce a una o più manifestazioni, i cui effetti di politicizzazione sono molto inferiori rispetto a uno sciopero, a maggior ragione quando quest’ultimo è di lunga durata e si basa su un’ampia partecipazione alle assemblee generali).

Uno dei problemi seri per la sinistra sociale e politica è quindi quello di riuscire a mantenere e approfondire il movimento dove si è sviluppato, estendendolo al contempo a settori o frange della gioventù dove il livello di coscienza di classe – segnato dal fatto di organizzarsi collettivamente, in particolare nei sindacati, e di mobilitarsi per i propri interessi, sulla base di una rappresentazione più o meno chiara e coerente di questi interessi – è a un livello molto più basso. In questi ultimi settori e in questi ampi settori della popolazione, la posta in gioco è lontana mille miglia dai grandi proclami sul “momento prerivoluzionario”: riuscire ad attirare un gran numero di lavoratori verso una prima giornata di sciopero e di manifestazione, riuscire a farli partecipare a un’assemblea generale per decidere collettivamente le modalità di azione, ecc. In questa prospettiva, lo slogan meccanicistico e astratto della denuncia delle “leadership traditrici” non è solo una falsa pista, ma il più delle volte un ostacolo.

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Si pone ovviamente la questione dell’esito politico del movimento. Le mobilitazioni sociali – per quanto massicce e radicali possano essere – non generano spontaneamente prospettive politiche, a maggior ragione quando evitano deliberatamente la questione del potere e il necessario confronto politico con le classi proprietarie (ciò che Daniel Bensaïd ha definito “illusione sociale”). Ciò è tanto più vero nel caso in questione, in quanto il movimento è stato caratterizzato finora da un basso livello di auto-organizzazione e coordinamento. Tuttavia, questo non significa che i movimenti sociali debbano accontentarsi di un ruolo subordinato rispetto alle forze politiche, che da sole sono in grado di proporre delle prospettive. È piuttosto nel quadro di una dialettica di collaborazione-confronto tra movimento sociale e sinistra, di un’unità che non impedisce in alcun modo il dibattito più aperto su orientamenti e prospettive, che dobbiamo immaginare una proposta politica di rottura.

Cominciamo col dire a questo proposito quanto la prospettiva di un referendum di iniziativa condivisa (PIR), difesa in particolare dal PCF, sia ben lontana dal potenziale aperto dal movimento, si riveli profondamente irrealistica sotto il pretesto del pragmatismo e non risponda in alcun modo all’imperativo, per la sinistra, di proporre una soluzione alla crisi politica. Si tratterebbe di raccogliere 4,8 milioni di firme, il che richiederebbe un grande lavoro militante nell’arco di nove mesi. Questo dirotterebbe le energie verso un terreno puramente della petizione, mentre l’obiettivo è attualmente quello di estendere la mobilitazione, anche se la Macronie sta già annunciando nuovi progetti mortali (non solo la legge Darmanin ma anche una legge sul lavoro e l’occupazione). Inoltre, anche se si raccogliessero i 4,8 milioni di firme, la proposta di referendum dovrebbe comunque essere esaminata dalle due camere entro sei mesi… In altre parole, la situazione sarà ampiamente cambiata nel frattempo, forse a svantaggio del movimento e una simile proposta non aiuta in alcun modo a sfruttare il triplice vantaggio che la mobilitazione ha qui e ora: uno sciopero radicato in diversi settori chiave, una mobilitazione multiforme che è diventata inafferrabile negli ultimi dieci giorni e un’opinione pubblica che è stata ampiamente conquistata.

A volte viene avanzata la prospettiva di un “maggio 68 che vada fino in fondo”. Lo slogan è seducente, soprattutto perché il maggio ‘68 rimane un riferimento positivo (anche se indubbiamente vago) per ampie fasce della popolazione, in particolare per quelle attualmente mobilitate. Come già detto, tuttavia, non è detto che l’analogia con il maggio 68 sia efficace in questo caso, al di là degli effetti agitatori che uno slogan può produrre. Ma è soprattutto l’idea di “andare fino in fondo” che non sembra molto chiara. Se si tratta di dire che dobbiamo andare fino in fondo alle speranze di rottura con il capitalismo e di emancipazione sociale suscitate dal movimento del maggio-giugno ’68, questo ci sembra ovvio. Ma questo non risponde alle questioni strategiche immediate che si pongono al movimento e alla sinistra.

Con la politicizzazione della lotta e l’enorme livello di sfiducia nei confronti del potere politico, solo una proposta che articoli il ritiro immediato della controriforma, lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale e l’indizione di nuove elezioni sembra essere all’altezza della posta in gioco, senza cadere nel doppio tranello del massimalismo verbale e del feticismo delle formule del passato. Certo, la rottura politica non può essere ridotta alla scena elettorale, ma come ci ha ricordato Daniel Bensaïd: “È abbastanza ovvio, a maggior ragione nei Paesi con una tradizione parlamentare più che centenaria, dove il principio del suffragio universale è solidamente stabilito, che non si può immaginare un processo rivoluzionario se non come un trasferimento di legittimità che dia la preponderanza al “socialismo dal basso”, ma in interferenza con le forme rappresentative” (corsivo aggiunto).

Resta inteso che è necessario aggiungere a questi slogan la lotta per un governo di sinistra con una rottura con il passato, il che implica la precisazione di elementi del programma, in particolare intorno a questioni centrali e immediate per l’insieme delle classi lavoratrici e, più in generale, per i salariati, ma anche più specificamente per alcune frange al loro interno: pensionamento a 60 anni con stipendio pieno per tutti (a 55 anni per i lavori fisicamente usuranti), aumento immediato dei salari e indicizzazione all’inflazione (scala mobile dei salari), congelamento dei prezzi e degli affitti, assunzione dei lavoratori precari nel settore pubblico e passaggio a contratti a tempo indeterminato nel settore privato, misure proattive contro le discriminazioni sistemiche di genere e razziali nel lavoro, nei salari e nelle pensioni, assunzioni massicce nel servizio pubblico, ritorno alla nazionalizzazione immediata dei servizi e dei beni pubblici fondamentali (trasporti, energia, sanità, autostrade, ecc.), nonché pianificazione ecologica. ), oltre alla pianificazione ecologica.

Si porrebbe necessariamente la questione del rapporto dei movimenti sociali, e in particolare dei sindacati – in particolare quelli in cui continua a esistere un sindacalismo di lotta di classe: la CGT, Solidaires e la FSU – con un tale governo, portando le loro richieste a livello globale. Qualsiasi governo di sinistra con un programma di rottura si troverebbe sotto l’enorme pressione della classe dominante (ricatto sugli investimenti, pressione da parte delle istituzioni europee, ecc.). Solo una vasta mobilitazione popolare consentirebbe di controbilanciare, di evitare una capitolazione in aperta campagna e di imporre le proposte di cui sopra. Lo scontro sociale, se si innescasse, avrebbe una dinamica fondamentalmente anticapitalistica, in quanto porterebbe inevitabilmente, in tempi più o meno brevi, a sollevare la questione del potere del capitale sull’intera società, sulle nostre vite e sull’ambiente, e quindi della proprietà privata dei mezzi di produzione, scambio e comunicazione.

In caso di nuove elezioni, si aprirebbe una nuova battaglia politica, ma una vittoria del movimento sociale sulla controriforma delle pensioni metterebbe il NUPES – in particolare la forza dominante al suo interno, che si è indubbiamente dimostrata la più combattiva contro Macron e il suo progetto, ovvero LFI – in una posizione di forza. Questo non significa affatto una strada reale, perché le mobilitazioni sociali non hanno mai effetti automatici sui rapporti di forza elettorali (si pensi al maggio-giugno ‘68 e all’elezione della Camera più a destra della Quinta Repubblica, solo poche settimane dopo il movimento…). Si è notato sopra che il FN/RN sembra attualmente la forza che più beneficia dell’ampio rifiuto popolare della controriforma, per ragioni di sostanza che le effettive pratiche parlamentari dell’estrema destra non riescono a controbilanciare. Va notato, tuttavia, che i sondaggi attualmente in corso si basano sull’ipotesi disfattista – ampiamente accettata dagli intervistati in questa fase – che Macron non si tirerà indietro. Se il movimento dovesse infine vincere, l’ipotesi di un’impennata politico-elettorale della sinistra non sarebbe irrealistica, anche se nulla indica che essa annullerebbe puramente e semplicemente quella dell’estrema destra, data la banalizzazione di quest’ultima nel panorama mediatico e nel campo politico.

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La mobilitazione ha innegabilmente creato una nuova situazione e la possibilità di una biforcazione, nel senso di una dinamica di rottura con l’ordine costituito. La mobilitazione ha indubbiamente creato una nuova situazione e la possibilità di una biforcazione, nel senso di una dinamica di rottura con l’ordine costituito. Senza dubbio non tutto è a portata di mano, ma prospettive che potevano sembrare irrilevanti fino a pochi mesi fa sono ora accessibili. Non ci sarà tregua nei prossimi giorni e settimane di lotta; sta a noi respingere non solo il potere politico, ma anche i limiti del possibile.

L’autore desidera ringraziare i membri della redazione di Contretemps per i loro commenti e suggerimenti su una prima versione di questo testo, ma rimane l’unico responsabile delle posizioni difese in questo articolo.

Note

[1] Tanto che molti studenti si recano alle manifestazioni, ma senza discutere collettivamente il movimento nel quadro delle assemblee generali (e a maggior ragione dei comitati di sciopero o di mobilitazione), e quindi senza decidere le iniziative future da intraprendere (in particolare per estendere il perimetro degli studenti mobilitati), il che limita gli effetti di politicizzazione che ogni movimento di tale portata necessariamente produce.

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