Economia narrativa applicata. Internet e privacy: tre modelli a confronto. Social Revolution in Iran. La BBC degli anni Trenta (del Duemila). Parlare di Meghan e Harry conviene. News desert in America. Facebook dice addio alle notizie.

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Economia narrativa applicata

Secondo il premio Nobel Robert Shiller, per capire i fenomeni economici non basta leggere solo i numeri ma bisogna individuare e analizzare le storie e le narrazioni popolari “che hanno il potenziale di cambiare il modo in cui le persone prendono le decisioni”. Come evidenziato in un articolo di MF, grazie a questa teoria si possono comprendere i crolli nei rendimenti delle Big Tech che in questi ultimi anni sembrano aver tradito la narrazione che le ha contraddistinte e rese le potenze mondiali che conosciamo oggi. Tramite la loro innovativa forma di raccontarsi, gran parte delle Big Tech hanno creato il loro stesso mito attraverso una narrazione epica e storicizzata, presentandosi come opportunità per entrare nel futuro attraverso i loro prodotti e servizi. Sembra però che adesso si viva una netta frattura tra narrazione e azioni concrete, definita come narrative washing: la storia raccontata dai brand infatti non sembra essere più coerente con quello che fanno e con quello che propongono, creando così un disallineamento che influenza anche i risultati economici.

Internet e privacy: tre modelli a confronto

Europa, Stati Uniti e Cina: tre culture, tre idee di capitalismo e tre modi di concepire e utilizzare il web del tutto differenti tra loro. Dei labili confini che separano libertà di espressione e controllo governativo, raccolta e utilizzo dei dati personali e privacy, ne parla Maurizio Molinari in un editoriale su Repubblica. Gli Stati Uniti sono fautori della libertà quasi incondizionata dell’uso delle grandi piattaforme del web: il Primo Emendamento della Costituzione che tutela la libertà di espressione e l’assenza di una regolamentazione federale esonerano aziende come Facebook o Twitter dal controllo dei contenuti prodotti dai loro users (Elon Musk, dal canto suo, vuole rendere ancora più libero l’uso di Twitter – vedi Editoriale 109). Agli antipodi c’è lo stretto controllo della Cina che, grazie all’ingente sviluppo dell’hi-tech, ha costruito una “super-muraglia” digitale attorno al suo web, costringendo chi vive o transita nel suo territorio all’utilizzo di motori di ricerca e social esclusivamente cinesi. I dati raccolti sono usati dal regime per rafforzare i controlli e alimentare la propaganda (ciò è accaduto soprattutto di recente dopo il XX Congresso del PCC, vedi Editoriale 104). Da qui, l’Europa può essere presentata come una terza via, un modello in cui, grazie al Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdrp), rafforza la privacy dell’utente ma, al contempo, difende la libertà di espressione. Con il Digital Service Act, la legislazione europea sta proseguendo nella direzione di limitare la disinformazione e la quantità di odio e razzismo online imponendo ai giganti del web regole severe per aumentare la trasparenza nell’utilizzo dei dati personali. Le profonde differenze tra le maggiori legislazioni mondiali possono portare ad alcuni attriti e il prossimo è con tutta probabilità inerente a TikTok, social cinese di nascita ma sempre più popolare in tutto il mondo, che, attraverso la sua app, può avere accesso ai dati del cellulare dell’utente anche in Paesi che non sono la Cina. Leggi e tutele legali, come spesso accade, rincorrono i fatti quando sono già avvenuti e in questo caso la questione è resa ancora più complessa dalla continua globalizzazione dell’accesso ad internet. Tra benefici e rischi, all’utente finale tocca solo essere consapevole di ciò che può fare con il suo smartphone.

Social Revolution in Iran

Come riporta Reuters Institute, in Iran le proteste hanno trovato nei social media un alleato innovativo e indispensabile tanto che il governo ha dovuto limitarne gli accessi o addirittura spegnere internet come avvenuto nelle elezioni del 2009. Gli iraniani però non si sono lasciati intimorire tanto da provare ad aggirare il sistema con le VPN, non sempre con successo. Secondo TechCrunch, un gruppo di attivisti ha escogitato un nuovo approccio che coinvolge i server Tor all’interno dello stesso Iran: “Le reti Tor, che consentono la navigazione web anonima in grado di aggirare i blocchi di Internet, sono diventate particolarmente vitali per la diffusione di video e informazioni sulle più recenti proteste contro il regime”, affermano gli attivisti.  The Tor Project, l’organizzazione no profit statunitense che gestisce la rete Tor, fornisce una guida dettagliata su come utilizzare Tor per accedere a Internet in Iran e attivare una controinformazione efficace. 

La BBC degli anni Trenta (del Duemila)

Da Radio Londra a un futuro molto vicino fatto di trasmissioni solo online. Questa la parabola dell’emittente pubblica britannica BBC: il suo direttore generale Tim Davie, scrive il Guardian, ha annunciato che il servizio d’informazione si sta preparando a chiudere alcuni programmi televisivi e stazioni radio a partire dal prossimo decennio. Un passo, prosegue Davie, visto come inevitabile in un mondo che si avvia a essere “Internet-only, dove le trasmissioni tv e radio sono spente e la scelta è infinita”. La sfida per la BBC è muoversi verso il digitale senza perdere la maggior parte del proprio pubblico e profitto: se, da un lato, nel lungo periodo si prevede un declino del numero di spettatori live (attualmente stimato intorno a decine di milioni ogni mese), con il nuovo modello una sfida da affrontare sarà raggiungere i milioni di britannici, spesso più anziani, più poveri e residenti nelle aree rurali, che non hanno una connessione a Internet adeguata. I primi canali TV coinvolti saranno CBBC e BBC Four, seguiti dagli altri negli anni che verranno. Si prevede una trasformazione che porterà tutta la BBC in una singola offerta: una formula che sembra suggerire la fine di brand distinti come BBC One e BBC Radio 4. Ma in gioco c’è di più: Davie ha chiesto a politica e autorità di regolamentazione più fondi e minori restrizioni, e si è detto aperto alla possibilità di trovare un nuovo modello di finanziamento per la BBC. E la politica entra anche direttamente nel discorso: come sottolinea il direttore generale dell’emittente, “Russi e cinesi stanno investendo centinaia di milioni in servizi supportati dallo Stato. Abbiamo una scelta da compiere”.

Parlare di Meghan e Harry conviene

Sta facendo molto discutere la docu-serie sui Duchi di Sussex, Meghan Markle e il principe Harry, uscita da poco su Netflix. Come riporta PressGazette, nel mirino sono finiti questa volta i media britannici. Innanzitutto, Meghan e Harry hanno affermato che la prima intervista fatta dalla BBC dopo il loro fidanzamento fosse in realtà costruita come in un film, e che quindi non sia stata libera e spontanea, forse perché – come racconta Meghan – i giornalisti non erano realmente interessati a raccontare la loro storia. Questa versione è stata però smentita dall’ex direttore generale della BBC, Tony Hall. In secondo luogo, la coppia ha accusato le testate di vero e proprio razzismo nei confronti di Markle. Su questo punto PressGazette ha condotto uno studio sui propri lettori: due terzi degli intervistati pensa che i media britannici siano effettivamente bigotti o razzisti e la metà ritiene che abbiano dato una copertura negativa e razzista nei confronti di Meghan Markle. Nonostante le pesanti polemiche, un risvolto positivo per i media britannici c’è: come evidenziato da The Guardian, i giornali stanno ottenendo maggiore visibilità e supporto commerciale, grazie a un gioco di specchi tra media e tv: molte delle testate coinvolte nella polemica stanno fornendo una copertura completa dei contenuti della serie. Dopo solo due ore dall’uscita dei primi episodi, le prime dodici storie su MailOnline riguardavano la coppia e il Sun ha pubblicato online sette storie riguardanti i Sussex. Gli articoli su Meghan e Harry attirano un numero enorme di clic sui siti di notizie, rendendoli l’argomento principale per i portali che si affidano alla pubblicità online per sostentarsi. E, mentre tutti si stanno chiedendo chi otterrà maggior vantaggio da questa docu-serie, la famiglia reale fa sapere che non è stata in alcun modo interpellata sulle accuse che la riguardano, né è intenzionata a controbattere.

News desert in America

Come riportato da Poynter., la diffusione delle fake news sulle testale locali sta proliferando in tutti gli Stati Uniti. Alla fine di ottobre, due settimane prima del giorno delle elezioni di midterm, gli abitanti dell’Iowa hanno ricevuto per posta l’Iowa Catholic Tribune le cui prime pagine mettevano in guardia dagli insegnanti che introducevano nelle scuole libri sulla “child sexualization” e attaccavano il procuratore generale dell’Iowa Tom Miller e la deputata Cindy Axne, due candidati democratici. Entrambi hanno perso le elezioni con un piccolo scarto. Ma l’Iowa Catholic Tribune non era un giornale di una diocesi cattolica, come alcuni avevano pensato inizialmente. È un prodotto di Metric Media, un’organizzazione conservatrice che pubblica notizie false in tutto il Paese. Giornali simili sono comparsi in altri stati e hanno generato confusione tra gli elettori. Questi fenomeni non fanno altro che peggiorare la fiducia nelle istituzioni e nel giornalismo. Negli ultimi vent’anni, il 25% dei giornali ha chiuso i battenti e un americano su cinque vive in un “news desert” con scarso accesso a notizie locali affidabili. Un sondaggio di Gallup del mese scorso ha rilevato che solo un terzo degli americani crede che i mass media riportino le notizie in modo “completo, accurato e corretto”. La fiducia nei giornali e nei notiziari televisivi è scesa a livelli record. Questo fenomeno è maggiore nelle aree rurali, dove il 57% afferma che quando riceve notizie locali, sia in televisione che online, queste non coprono il luogo in cui vive. Come ha rilevato la Commissione dell’Aspen Institute, le soluzioni devono provenire da ogni settore della società. La stessa conservazione della democrazia dipende dalla capacità di ricostruire un ecosistema di notizie che si guadagni la fiducia dei lettori.

Facebook dice addio alle notizie

Come riporta il Columbia Journalism Review, nel 2019 Zuckerberg aveva annunciato il Facebook Journalism Project, un piano che prevedeva 300 milioni di dollari in tre anni per “supporting local journalists and newsrooms with their newsgathering needs in the immediate future, and helping local news organizations build sustainable business models.” Oggi sembra che Zuckerberg abbia cambiato idea, dato che Meta ha passato l’ultimo anno a tagliare i fondi e a ridimensionare la maggior parte dei suoi impegni giornalistici. Lo scorso giugno il Wall Street Journal ha dichiarato che il colosso di Menlo Park stava “riconsiderando” i suoi pagamenti agli editori nell’ambito del programma Facebook News. Secondo quanto riferito, l’azienda avrebbe pagato compensi annuali per oltre 15 milioni di dollari al Washington Post, poco più di 20 milioni di dollari al New York Times e più di 10 milioni di dollari al Journal. Da allora questi pagamenti sono stati sospesi e non si prevede che riprendano. Fonti a conoscenza delle operazioni giornalistiche di Meta fanno notare che, sebbene i finanziamenti siano stati interrotti, i grandi media, proprio come il New York Times, dispongono ancora di personale all’interno di Facebook che li supporterà. I piccoli editori, invece, che per lo più lavoravano con Meta attraverso programmi o sovvenzioni, non hanno mai avuto tanto supporto, e il poco che avevano ora non l’avranno più. Interrogato sull’annullamento degli impegni finanziari di Meta nei confronti del giornalismo, un portavoce della big tech ha dichiarato che: “Meno del 3% di ciò che le persone di tutto il mondo vedono nel feed di Facebook sono post con link ad articoli di notizie. Come azienda non ha senso investire eccessivamente in aree che non sono in linea con le preferenze degli utenti”. Un ulteriore fattore che potrebbe aver contribuito al desiderio di Meta di smettere di finanziare il giornalismo attraverso i suoi vari programmi è il fatto che l’azienda è stata costretta a pagare a diversi media i diritti di licenza a seguito di una legge approvata in Australia l’anno scorso e contemplata in diversi altri Paesi, tra cui gli Stati Uniti, dove la legge proposta si chiama Journalism Competition and Preservation Act. Meta ha minacciato di rimuovere completamente le notizie dalla sua piattaforma se il disegno diventerà legge.

*Storyword è un progetto editoriale a cura di un gruppo di giovani professionisti della comunicazione che con diverse competenze e punti di vista vogliono raccontare il mondo della comunicazione globalizzato e in costante evoluzione per la convergenza con il digitale. Storyword non è una semplice rassegna stampa: ogni settimana fornisce una sintesi ragionata dei contenuti più significativi apparsi sui media nazionali ed internazionali relativi alle tecniche e ai target di comunicazione, sottolineando obiettivi e retroscena. Per maggiori informazioni: https://www.storywordproject.com/

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