Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Alla lista dei paesi che incentivano il lavoro straordinario, dopo Regno Unito, Italia, Olanda, etc., si aggiunge ora la Germania del governo Scholz.
Lo evidenzia il Financial Times del 14 maggio [ https://www.ft.com/content/deaba04b-89cf-447f-970a-6d732c751b8f ] con malcelata soddisfazione, trattandosi di un governo guidato dai socialdemocratici, che il giornale britannico non ha in gran simpatìa. E nel farlo spara la sua tesi: gli orari di lavoro troppo ridotti sono la “prima causa” del “malessere” dell’economia tedesca ed europea.
In realtà le statistiche circolanti sulla Germania sono attendibili solo in parte perché incorporano una quota molto ampia di lavoro femminile part time che abbatte la media degli orari settimanali e annuali in maniera artificiale. La stessa cosa vale per le statistiche relative ai paesi del centro-nord dell’Europa.
Tuttavia è vero che per effetto delle lotte operaie dei metalmeccanici e dei tipografici degli anni ‘70 e ‘80 (ignorate dal Financial Times) e di un’efficienza nell’organizzazione del lavoro sicuramente superiore alla media occidentale, l’industria tedesca ha avuto finora un orario di lavoro settimanale medio inferiore a quello degli altri paesi europei, e molto inferiore rispetto a quello statunitense, conservando comunque un alto livello di competitività. Ma la mazzata dell’incremento dei costi energetici assestata da Washington con il taglio delle convenienti forniture di gas e petrolio russo, e più in generale l’intensificazione della concorrenza (specie cinese) su un mercato mondiale sempre più affollato da merci in eccesso, obbligano ora il capitale tedesco a premere sull’acceleratore per allungare gli orari. In termini marxiani: il prelievo di lavoro non pagato realizzato attraverso il ricorso al plusvalore relativo non è più sufficiente a soddisfare le brame del capitale; serve ricorrere anche al “vecchio”, e mai realmente passato di moda, plusvalore assoluto.
E poiché uno degli aspetti delle politiche neo-liberiste degli ultimi cinquanta anni è stata la riduzione delle maggiorazioni salariali previste per le ore di lavoro straordinario e le festività così da ridurre i costi di produzione attraverso la riduzione della remunerazione della forza-lavoro, lo strumento che anche la Germania si prepara ad attivare è la detassazione degli straordinari. Che per la classe dei lavoratori salariati non è altro, nella migliore delle ipotesi, che una ingannevole partita di giro se consideriamo l’insieme della classe: chi farà ore di lavoro straordinario in più, infatti, si troverà in tasca nell’immediato una qualche maggiorazione salariale, ma a prezzo di ulteriori tagli alla spesa sociale che colpiranno l’intera classe lavoratrice (e dunque anche lui/lei) dal momento che la generalizzazione di una misura del genere ridurrà le entrate statali proprio nel momento in cui l’incremento della spesa militare, in Germania come in Italia e in tutta l’Unione europea, è considerata la priorità assoluta, mentre la voce di spesa da continuare a tagliare è quella sociale.
Anche questa vicenda mostra la cecità di quanti all’“estrema sinistra” (estrema quasi solo, ormai, nel tasso di ciarlataneria) considerano ogni rivendicazione di classe sul terreno fiscale tesa a colpire il capitale e il parassitismo a più alto reddito una misura riformista, anziché – come è – una rivendicazione di classe. E non si avvedono neppure di accodarsi alla tendenza capitalistica alla detassazione dei salari (parziale e limitata, s’intende) verso cui si muove anche il capitalismo germanico.
Il ministro delle finanze Lindner è il portatore convinto della proposta di detassare le ore di lavoro oltre le 41 settimanali e, inutile dire, coglie l’occasione per prendersela con gli “eccessivi” sussidi di disoccupazione che sono già stati brutalmente tagliati con i provvedimenti – Schroeder del 2004-2006 (sì, proprio lui, l’amicone di Vladimir Putin…), ma che per questi signori, trattandosi di sussidi per i lavoratori in difficoltà, sono sempre esorbitanti. A sua volta il Financial Times indica tra i reprobi che meriterebbero una lezione i ferrovieri tedeschi che sono riusciti ad avere una garanzia di riduzione dell’orario, nel 2029, da 38 a 35 ore. Che roba, contessa!
Non poteva mancare né il contributo delle ricerche della BCE che sostengono che la fase post-pandemica è stata caratterizzata da una riduzione degli orari di lavoro (sicuro? volontaria? Ne dubitiamo.), né l’apporto sempre più ferocemente anti-operaio del Regno Unito post-Brexit, dove il governo Sunak ha messo nel mirino “i perversi incentivi nel sistema dei benefit che possono scoraggiare la gente dal fare lavoro straordinario”. Ad esserne colpiti – ammoniscono alcune ong – saranno anche coloro che non sono in grado di sostenere orari di lavoro più lunghi, ma Sunak è categorico: “questo cambiamento sarà a vantaggio loro (??) e dello sviluppo dell’economia”. Non dubitatene. Il Regno Unito del dopo-Brexit, di cui i pro-Brexit di “sinistra” evitano accuratamente di parlare (perché dovrebbero semplicemente vergognarsi di quello che hanno sostenuto per anni), si conferma all’avanguardia nell’attacco ai proletari e ai salariati tutti, in tutti i campi, e non solo ai richiedenti asilo da deportare in Ruanda…
Nota
Il tema della strutturale tendenza del tardo capitalismo ad allungare gli orari di lavoro e contemporaneamente ampliare la massa della disoccupazione è stato affrontato già un quarto di secolo fa nello studio di Pietro Basso, Tempi moderni, orari antichi. L’orario di lavoro a fine secolo, Angeli, 1998. Uno studio totalmente ignorato in Italia, e poi tradotto in inglese (Regno Unito, Stati Uniti), francese (Svizzera, Francia) e portoghese (in Brasile). Un’esposizione sintetica e aggiornata di questa analisi è ora in Pietro Basso, Modern Times, Ancient Hours, “Critique”, n. 90 / 2020.
Abstract
Since the crisis of the mid-1970 companies began to push for longer hours in every dimension (daily, weekly, monthly, annual and lifelong). At the same time unemployment and extreme forms of job insecurity grew as a result of ‘neoliberal policies’, ending with zero hours contracts and various kinds of work placement and internship. This article questions the causes of this global, dramatic, twofold waste of work capacities, of vital human energies that involves and affects hundred of millions of working women and men, and comes to the conclusion that this unbearable social contradiction can only be overcome by relaunching the struggle for the drastic and generalized shortening of the working day. ‘Work less so that everyone works, and then everyone can work less – only for social necessary tasks’: this is the only perspective that can allow us to respond to the crisis of capitalist civilization and its growing overproduction of useless, harmful, anti-social and anti-ecological commodities, dismantling piece by piece the social, sexual and international division of labour erected over the centuries by the capitalist mode of production.
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