Il cabinato arcade è stato una delle prime forme di interazione videoludica nella storia. Abbiamo visto insieme come sin dagli anni ’70 siano esistiti giochi per computer, ma non si può dimenticare l’importanza capitale della Sala Giochi.
Descritta come un ambiente ormai morente e reso obsoleto dal multiplayer online e dai moderni locali dove affittare spazio e postazioni per gli esport da film come Ralph Spacca-Tutto, per decenni la Sala Giochi ci ha regalato diversi tipi di arcade. Oltre al cambinato classico, i formati più esoterici, spesso legati a doppio filo ai controller più assurdi delle loro conversioni domestiche.
Cocktail o Verticali? Seduto o in piedi?
Una delle prime divisioni storiche tra i vari tipi di cabinato è stata quella tra verticali e cocktail, ovvero seduti o in piedi, direttamente derivata dall’antenato diretto del videogioco arcade: il gioco elettromeccanico arcade.
Tradizionalmente possiamo dire che i giapponesi giocavano seduti e gli americani all’impiedi: il primo arcade da cocktail della storia integralmente elettronico fu Tabletop Space Invaders di Taito nel 1977, mentre il primo cabinato “all’impiedi” fu Computer Space del 1971, degli stessi Dabney e Bushnell dietro Pong e l’Atari.
L’approccio delle due visioni era diverso: Bushnell e Dabney sostanzialmente cercarono di “portare nel futuro” i giochi arcade elettromeccanici come Speedway del 1969 (dove un volante consentiva di muovere una figura ritagliata di una automobile su uno sfondo fisso), creando per la prima volta un videogame che potesse essere giocato in una sala giochi sostituendo i giochi meccanici ed elettromeccanici, precursori del concetto stesso del cabinato,
Taito invece voleva evidenziare la funzione “sociale” e cooperativa del gioco, ponendo due giocatori di fronte ad un tavolino, seduti, per poter giocare assieme, magari consumando degli snack o un drink poggiati ai bordi del tavolino stesso.
Entrambi i giochi furono precursori di alcune soluzioni storiche che avremmo visto in futuro. Computer Space ad esempio era giocabile mediante pulsanti su un cruscotto, e il joystick fu inizialmente scartato solo per la (temporanea) impossibilità di trovarne di solidi, ma introdotto nei giochi successivi.
Space Invaders introdusse invece il colore, sia pur in una forma anomala per gli standard attuali: un foglio di cellophane veniva infatti fatto aderire direttamente sul monitor in bianco e nero, creando delle “aree colorate” per segnalare il punteggio.
I due sistemi si ibridarono col tempo: anche in Giappone apparirono i cabinati “all’impiedi” e anche in Occidente apparvero i tavolini da cocktail, specialmente in pub e in altri luoghi dove il gioco avrebbe fatto le veci di un tavolo per la consumazione, risparmiando spazio e invogliando i clienti.
I mille volti del controller
Creata, o meglio ereditata dai giochi meccanici ed elettromeccanici del passato, era giunto il momento di dare una forma al controller.
Anche qui abbiamo visto i joystick esistevano già da tempo nel mondo videoludico e non solo. Se volessimo cercare il primo joystick in una sala arcade, dovremmo cercarlo nell’elettromeccanico Missile di SEGA, nel 1965, dove il Joystick controllava un lanciarazzi (poco più che una lampadina) che sparava razzetti su aerei proiettati su una striscia in movimento.
E in date simili potremmo imbatterci in buona parte dei controller che siamo stati abituati a riconoscere nell’era del videogioco arcade completamente elettronico: un fucile assai realistico in Duck Hunt del 1968 e un volante in Grand Prix del 1969, per essere precisi.
Torna il Joystick…
Volendo restare però nella “rivoluzione digitale”, dobbiamo aspettare il 1975 perché un gioco ispirato all’elettromeccanico Gun Fight del 1969, così tanto da esserne un seguito spirituale, fosse prodotto da Midway e Taito (rispettivamente per i mercati Occidentale e Orientale) coi titoli Western Gun o Gun Fight.
La peculiarità di Gun Fight (1975) fu riportare il joystick nelle sale giochi, strappandolo dal mondo elettromeccanico per portarlo nel mondo dei videogame, lanciandosi nella top ten dei più venduti in Giappone nell’anno successivo.
Da quel punto in poi, il joystick divenne un simbolo dell’Arcade, ignorando che almeno per i primi quattro anni da Computer Space a Gun Fight di fatto ne avevamo fatto a meno.
I primi joystick furono bidirezionali, con Pac-Man (Namco) del 1980 a popolarizzare i joystick in grado di muoversi nelle quattro direzioni.
Anche qui siamo di fronte ad almeno due standard, Orientale e Occidentale, Sanwa e Happ.
Il Sanwa è riconoscibile dalla iconica “pallina su una mazzarella”, mentre l’Happ per la sua forma a goccia (anche se ovviamente vi sono eccezioni), ed un Sanwa può essere facilmente ricondotto a funzionare in due, quattro o otto direzioni (con le diagonali) installando appositi restrittori.
Nella tradizione, i joystick tipo Happ sono legati ai cabinati arcade Occidentali degli anni ’80, mentre i Sanwa ai picchiaduro nipponici, ma come vedremo, non sempre è stato così.
… e tornano volanti e pistole
Nel 1974 Atari crea Gran Trak, gioco di corsa (bidimensionale, in bianco e nero, visto dall’alto) ispirato ai giochi elettromeccanici degli anni ’60 ridando un volante ai giocatori.
Nello stesso anno Taito produrrà Speed Race, dello stesso Tomoiro Nishikado autore del citato Space Invaders e accusato falsamente di aver causato una scarsità di spiccioli in Giappone spingendo i ragazzini a usarli nei cabinati, ridando un volante ai giocatori. La novità di avere (o come abbiamo visto, riavere) un volante renderà Speed Race, in Occidente noto come Wheels uno dei giochi più costosi, con la richiesta al giocatore di un gettone da 100 yen anziché 50.
La scomodità nell’operare però un volante ed un pedale dell’accelerazione all’impiedi portò Atari a reinnovare ulteriormente il concetto ripristinando dai precedenti giochi elettromeccanici il “cabinato da seduto”: Atari Hi-Way del 1975 fornì ai giocatori la cruda ma efficace simulazione dell’abitacolo di una macchina, con un duro sedile in plasticaccia, riciclato per Night Driver l’anno dopo e i pedali posti nella posizione più pratica davanti alle gambe distese.
Erano tornati dalle nebbie del gioco elettromeccanico i simulatori di veicolo, che nei decenni fecero enormi passi avanti.
Sempre nel 1974 fecero il loro ritorno trionfale anche le pistole ottiche, con Balloon Gun di SEGA e Qwak! di Atari.
Le pistole ottiche non presero realmente piede però finché Nintendo non riscrisse in sua salsa personale i giochi di “caccia alle anatre” creando Duck Hunt per il NES e portandolo negli Arcade col suo VS System, di fatto un NES dentro un cabinato arcade con una Light Gun incorporata. Eravamo già nel 1984, e giochi di sparo popolarono gli arcade fino agli anni ’90.
Tra le ragioni del loro declino, oltre la disaffezione generale per la sala giochi, ricordiamo le controversie legate a casi di violenza nelle scuole che avevano reso la popolarizzazione e la mitizzazione delle armi da fuoco un tema ormai radioattivo.
Alcuni interessanti tentativi di superare quel declino consentirono di truccare le pistole perché sembrassero “altro”: Brave Firefighters (1999) di SEGA è a tutti gli effetti un gioco arcade con pistole, dove le “pistole” hanno la forma di manichette antincendio e sparano getti di acqua ad alta pressione su fiamme e oggetti per distruggerli.
Negli anni ’80 e ’90 il settore di simulazione di guida però continuò ad evolversi.
I più nostalgici tra voi ricorderanno il celebre cabinato di OutRun (1986, SEGA), sia in piedi che con abitacolo deluxe, con sistema di vibrazione per sentire gli impatti della macchina e gioco in movimento.
Nonché una vera e propria leva del cambio, solo semiautomatica con le due posizioni Alto/Basso e l’iconico cartello “NO GEAR GACHA” piazzato in diverse sale giochi giapponesi, con le varianti occidentali opzionali “Vietato scuotere la leva del cambio” per impedire ai giocatori di sganasciare e sradicare la leva del cambio per cercare di ottenere vantaggi di velocità con continui “su e giù”.
Ma gli anni ’80 non ci portarono solo volanti: Star Wars Arcade, del 1983, parte dei “giochi basati su film famosi” diede ai giocatori abituati allo scarno (e scomodo) joystick Atari un autentico giogo/cloche da nave spaziale in una finta cabina ed Hang-On della SEGA, due anni dopo portò tra le mani dei giocatori da sala giochi un vero manubrio da motocicletta, anche esso nella variante “all’impiedi” o “seduto” con possibilità di inclinare la seduta mimando una curva strettissima.
E se volanti e manubri da motociclette vi sembrano già meravigliosi, pensate come in Giappone ci si poteva e ci si possa ancora baloccare con una cabina da Treno, sin dal 1997 con la saga di Densha de Go, che negli ultimi capitoli (giocabili in Occidente a Madrid, Londra, Varsavia e a Vicenza) si arricchisce di tre display (uno per finestrino) e un subwoofer sotto il sedere dell’aspirante capostazione per mimare il rollio dei binari e un software in grado di emulare l’inerzia di un treno sovraccarico o dei binari bagnati.
Ma dove le pistole erano state eliminate, ecco che armi ben più strane entrano nelle sale giochi.
Spade, tamburelli e canne da pesca prima del WiiU e della Switch
Prima del WiiMote Plus, prima del joycon, Namco e Konami avevano deciso che se il pubblico si era disaffezionato alle pistole, poteva ben affezionarsi a grossi spadoni.
Apparvero sul mercato Tsurugi (2001) e Mazan (2002), giochi dove rispettivamente potevi impugnare una spada virtuale, saldamente legata ad un cavo per ovvi motivi, usando sensori di movimento per combattere a fil di spada samurai e zombie di samurai a colpi di katane non troppo immaginarie.
Il 2001 fu un anno fortunato per l’arcade curioso, non a caso. Col declino in occidente del mondo arcade, la speranza arrivava dal Giappone, pronto a tenere in vita ogni forma di divertimento sociale.
La saga di Taiko no Tatsujin, gioco di ritmo con tamburi e tamburelli virtuali da giocare su Nintendo Switch mosse i suoi primi passi proprio in sala giochi, e i fan del retro per ragioni anagrafiche ricorderanno la presenza anche negli anime di Dance Dance Revolution nella sua incarnazione arcade (Konami, 1998).
A quel punto però va detto che il rapporto “servile” Arcade-Console si era ormai invertito: laddove negli anni ’80 e ’90 la cosa migliore che potesse accadere ad una console era ricevere conversioni di giochi per arcade (salvo alcune eccezioni che vedremo), Konami aveva lanciato DDR sul “Bemani”, una console che di fatto era una Playstation mascherata e rinchiusa in un arcade, per poi lanciare, con Activision, una versione arcade di Guitar Hero nell’ormai vicino 2009.
Konami aveva comunque potuto lanciare la saga di Bass Angler (1998), ovvero Fisherman’s Bait, dove il controller era una canna da pesca.
E fin qui abbiamo coperto una breve storia dei controller assurdi ma previsti. Perché sin dalle origini esistono non solo cabinati bizzarri per scelta, ma bizzarri per caso.
Brutti e strani, ma per caso
Abbiamo visto fin’ora una carrellata di cabinati curiosi per scelta: ma esistevano almeno due tipi di cabinati curiosi per caso. I “kit di conversione” e i cabinati basati sulle console (o cabinati/console)
Cabinati a cartucce (e cassette)
Nel 1987 SEGA rilasciò i due Shooting Zone, di fatto un Mark III (variante del Master System) inglobato in un cabinato arcade con diversi giochi di sparo tra cui scegliere.
Nintendo non fu da meno: i VS Series e i PlayChoice10 erano cabinati basati sulle console NES, il cui punto di forza era poter avere in sala giochi diversi giochi che i ragazzini più ricchi avevano a casa.
I PlayChoice vennero venduti anche come kit di conversione per i VS, come Punch-Out!!: potevi comprare quindi la scheda madre da installare in un cabinato che avevi creando un mostro di Frankenstein perfettamente funzionante.
Come suggerisce il nome, il PlayChoice aveva semplicemente “tutti i controller”: due joystick ed una light gun, e la possibilità di installare dieci giochi su cartucce interne da una selezione di 10.
Concetto questo che fu ereditato, quando nel 1992 i PlayChoice e i VS furono ritirati dal mercato, dai cabinati NeoGeo degli anni ’90, venduti e costruiti con una formula che consentiva al proprietario della sala giochi di comprare uno o più cabinati e cambiare il gioco con una o più cartucce interne e la possibilità (perlopiù nei mercati Giapponesi, mai sperimentata in Italia personalmente almeno) di salvare la propria partita su schede di memoria compatibili con le console domestiche NeoGeo per ricominciare la propria partita.
Una bizzarra variante anni ’80 fu il DECO Cassette System di Data East, disponibile sia in formato cocktail che verticale, che usava al posto di schede di memoria nastri registrati, unendo così il peggio degli home computer col peggio dei cabinati: cabinati lentissimi nell’avviarsi e inclini ad errori di caricamento.
Cabinati fai da te? Con JAMMA puoi
Lo standard JAMMA del 1985, introdotto dalla Japan Amusement Machine and Marketing Association portò simili esperimenti al massimo grado della presenza: i principali produttori di cabinati nipponici si organizzarono per usare uno standard comune, sancendo quella che era già una scomoda abitudine dei gestori di sale giochi che ora divenne possibile con maggior comodità.
Ovvero l’uso, come abbiamo visto parlando della leggenda di Polybius di “svuotare” un cabinato non più redditizio riciclando il mobile, i joystick e il monitor allo scopo di ospitare nuovi giochi.
Ovviamente un cabinato con controller particolari diventava inutile allo scopo, ma ogni controller con un numero sufficiente di tasti poteva essere usato per un gioco diverso che ne richiedesse.
Al più, qualche tasto sarebbe rimasto inutilizzato, qualche plancia avrebbe riportato adesivi grossolanamente inattinenti o l’assenza totale di adesivi, ma nessun ragazzino ci avrebbe prestato troppa attenzione.
Giochi come il celebre Street Fighter II (CAPCOM, 1991) furono distruibiti in kit di conversione, spesso ufficiali, a volte direttamente piratate come la “Rainbow Edition”.
Significa che già prima della diffusione dei NeoGeo il gestore di una sala giochi poteva comprare una scheda madre, ottenere un paio di adesivi da appiccicare sui lati del cambinato, una grafica da mettere sul frontale e sul cruscotto dei joystick e trasformare un cambinato non più redditizio nel gioco del momento.
Cosa che comporta una pletora di “versioni diverse” dello stesso gioco: chi vi scrive ricorda con affetto uno Street Figther II infilato in un cabinato pigramente non munito neppure della grafica frontale e con la grafica laterale del gioco precedente, mentre nella serie di video di restauri di David “8-bit Guy” Murray citati appare uno Street Fighter II con un ridicolo adesivo a dimensione “Santino” sul lato al posto di una vera e propria grafica.
Ancora prima dello standard JAMMA era possibile trovare cabinati anonimi, cabinati con grafiche non rispondenti al gioco, cabinati con controller malamente riadattati, con bottoni non connessi più a nulla e levette con “restrittori” modificati o sostituiti per muoversi nelle direzioni richieste dal nuovo gioco.
E questo è un fenomeno più antico di quello che si pensi: Ms. Pac-Man, sequel “ufficializzato” di Pac-Man, mosse i suoi primi passi proprio come tentativo di avere un kit di conversione “di poco legale” da usare nei cabinati di Pac-Man, e buona parte dei costi di un cabinato erano proprio nel monitor e nei controlli.
Questo, unitamente alla presenza di un mercato della pirateria anche nel mondo dell’arcade, ci ha regalato lo spettacolo a cui siamo stati un po’ tutti abituati da ragazzini di cabinati “rimescolati” in vari modi.
Ovviamente tutto questo consente il recupero di vecchi cabinati, che potrai riadattare in un “MAMECade”, creandoti o comprando il tuo adattatore JAMMA o similari per infilare un computer in un cabinato di recupero e godere dei ricordi.
E ha consentito in passato cose ancora più creative.
Un po’ di fantasia ad esempio portò una ditta italiana a creare una console “bruttina” ma efficace e a tutt’apparenza legale: il Cubo CD32, ovvero un Amiga CD32 “appaiato” ad una scheda di conversione JAMMA per renderlo compatibile con lo standard, “maritato a vita” a cabinati autocostruiti o riutilizzati.
Un altro prodotto europeo assai interessante è il PhotoPlay, ovvero un prodotto Austriaco degli anni ’90 (dal 1995 al 2001 per essere precisi) ottenuto assemblando un PC compatibile con processore Intel (dal 486 fino al Pentium Celeron e il Pentium II) con un touchscreen di tipo capacitivo sovrapposto al monitor, e una selezione di giochi nelle principali lingue europee, Italiano compreso.
PC ovviamente e inesplicabilmente munito in alcuni esemplari del PTS-DOS, variante di MS-DOS dalle origini Russe.
L’Arcade, oggi
In Occidente, il gioco Arcade vive sostanzialmente sulle spalle del Retro, con sale giochi specializzate nel recupero e nell’offerta di cabinati vintage, come Time Rift Arcade in Texas e da noi iniziative come il Vigamus, il museo del videogioco.
Iniziative che consentono di conservare tutti i cabinati anche più esoterici, strani o “frankenstainizzati”: con l’arrivo dell XXImo secolo le console avevano divorato la quota di mercato dei cabinati, trasportando a casa il colorato mondo di videogiochi e controller particolari.
Il Giappone ha mantenuto alta la bandiera dell’arcade grossomodo fino all’arrivo di COVID19, che ha dato una batosta al fenomeno.
Batosta traducibile numericamente: 8000 sale giochi perse in dieci anni, i “Club SEGA” rivenduti e operativi con un nuovo marchio perché non più in grado di garantire profitto alla casa madre e le 26mila attività all 1986 diventate 4000 poco prima del COVID19.
Basti pensare che fino ai Mondiali Pokemon del 2022 una delle discipline “eSportive” previste erano i camponati di Pokken Tournament, variante del picchiaduro arcade Tekken coi Pokemon al posto dei lottatori, inizialmente previsto solo per Arcade nel 2015 e poi portato sulle console Nintendo con tanto di controller dedicato, sostituito nel 2023 dal MOBA Pokemon UNITE!, come a suggellare un passaggio di consegne ormai inevitabile.
Nonostante questo, le grandi sale giochi Giapponesi continuano a mostrare giochi vecchi assieme a nuovi: proprio Pokemon continua a regalarci un gioco dalle strane periferiche: Mezastar, sequel spirituale di capitoli precedenti della “Serie Puck” come Battrio e Tretta in cui il controller regala card e gettoni per stivare i propri animaletti del cuore e nuovi arcade continuano ad essere presentati ancora adesso ispirati a IP forti come Fast&Furious, Mario Kart e Gundam.
In ogni caso, le prospettive per i giochi arcade diventano abbastanza cupe: complice la scomparsa di parti essenziali come i display catodici il futuro dell’Arcade è nel passato, con costose riproduzioni per un pubblico pronto a tuffarsi nella nostalgia, con varie repliche vintage destinate a diventare oggetti di arredo o cabinati restaurati da appassionati, o costruiti a imitazione dei cabinati originali, trasformati o nati come MAMECade, emulatori fisici del colorato e come abbiamo visto spesso complesso universo delle Sale Giochi.
La vita è fatta di cicli, di corsi e ricorsi: un tempo il videogioco Arcade ha sconfitto e preso il posto del gioco arcade Elettromeccanico, adesso console, PC e “Sale eSport” hanno divorato le quote di mercato della Sala Giochi ponendo fine all’epoca del Videogioco Arcade, o quantomeno portandolo lungo la via del declino.
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