Non tutte le ciambelle riescono col buco, e i più assurdi flop della storia dell’Informatica Retro provengono anche da persone che il successo l’hanno poi conquistato con la qualità e la fedeltà al marchio. Ma con una fedeltà messa a dura prova da passi falsi, anzi tragicomici.
Di alcuni ne abbiamo parlato, di altri ne parleremo ora, di tutti ne riparleremo.
Partiamo dai grossi calibri, anzi dai calibri infuocati.
L’Apple III: prologo del disastro
Siamo nel 1980: Apple sta cominciando a muovere i primi passi che l’avrebbero trasformata da una ditta di home computing come molte dell’epoca, che prediligevano la funzione alla forma, al colosso di design, sviluppo e ricercata bellezza e stile che sarebbe diventata.
In una recente pillola abbiamo visto come l’interfaccia grafica di Mac OS sia stata un prodotto improntato ai caratteri dello stile e dell’ergonomia.
Nel 1980 uscì l’Apple III, l’annunciato successore (e predecessore, vedremo) dell’Apple II. Sotto la guida del Dottor Wendell Sander, che intitolò il fallimentare computer alla figlia Sara, Apple cercò di sostituire l’ormai desueto Apple II con un prodotto più raffinato, dedicato non più agli hobbisti ma ai professionisti e gli impiegati.
Il design non fu affidato a Wozniak, ma ad un comitato presieduto da Sander, che ritardò lo sviluppo del prodotto da dieci mesi a due anni.
Dal punto di vista tecnico l’Apple III era un degno erede dell’Apple II, con un suo Sophisticated Operating System (acronimo che nascondeva anche “Sara’s Operating System”, per mantenere l’intitolazione a Sara Sander), processore Synertek 6502B (precedentemente il 6502A) per retrocompatibilità con l’Apple II, 128Kb di RAM espandibile, audio a 6 Bit, floppy drive e disco fisso (da 5Mb) incorporato.
Una serie di soluzioni commerciali minarono l’Apple III: ad esempio la retrocompatibilità richiedeva avviare con un floppy di sistema che avrebbe evitato il SOS e una serie di circuiti nell’Apple III inibivano le funzioni “aggiunte” quando veniva usato in modalità di compatibilità. Il tutto allo scopo, ovviamente, di promuovere il nuovo prodotto, ma con un prezzo tra i 4000 e i 7000 dollari dell’epoca a seconda della configurazione (arriviamo ai 28mila dollari al cambio attuale) competere con gli altri prodotti dell’epoca.
“Hai provato a sbatterlo per terra?”
Steve Jobs ebbe modo di inserirsi nel dibattito sullo sviluppo dell’Apple III con un singolo suggerimento che rovinò per sempre lo sviluppo della macchina e cambiò il destino di Apple e dell’Apple II.
Chiese che il nuovo prodotto non avesse le ventole di raffreddamento.
Siamo negli anni ’80, molti home computer dell’epoca (vedi il Commodore 64 e i Tandy RadioShack) ne erano privi. Le ventole erano rumorose, il raffreddamento ad acqua era ancora molto al di là ed anche le ventole silenziose Noctua lo erano.
Ma l’Apple III non era un home computer come gli altri, e produceva una forte quantità di calore. Steve Jobs continuò ad insistere perché ventole e fori nel case fossero sostituiti da un blocco di alluminio solido in grado di dissipare la temperatura.
Le leggi della Termodinamica non lo consentirono: già nel 1982 la stampa specializzata descrisse scenari in cui il surriscaldamento portava i chip ad essere espulsi dai loro zoccoli.
Un aneddoto parla di un bollettino interno che invitava gli utenti, tra le tecniche di troubleshooting, a “sollevare e sbattere sul tavolo l’Apple III” in modo da reinserire i chip fuggitivi.
Altri aneddoti meno credibili parlano di floppy disk fusi all’interno del lettore: posso però dubitarne e con buona ragione, in quanto una simile temperatura avrebbe fuso anche cinghie e cavi elettrici…
Ingegneri come Jerry Manock negarono l’influenza della temperatura elevata, incolpando invece il processo produttivo stesso, caratterizzato da tracce sulla scheda madre sin troppo ravvicinate e inclini al corto circuito, e i problemi di chip “disallineati” furono attribuiti all’inserzione in fabbrica.
A complicare la cosa l’orologio in tempo reale per un errore di comunicazione fu installato senza essere verificato.
Apple rispose rendendo l’RTC un accessorio opzionale e ridisegnando l’Apple III per rimuovere buona parte dei difetti.
Il crollo della fiducia nel prodotto fu tale che Apple dovette mantenere in vita l’Apple II e varianti fino al 1993, ritirando l’Apple III nel 1984, in tutte le sue varianti.
L’idea di un prodotto “lussuoso” dedicato alle imprese fu ereditata dal LISA e poi semplificata portando alla nascita del Macintosh.
L’Osborne: come fallire prima ancora di esistere
Se l’Osborne 1 ha provocato il fallimento della Osborne, non è perché era un pessimo prodotto. Anzi: era tra i primi luggable, i portabili della storia. Dispositivo a metà tra il portatile moderno e il fisso: niente batteria, ma niente da invidiare ad un PC fisso.
Certo, ti “slogava le braccia”, era grosso e pesante come una macchina da cucito, ma stava giusto giusto nella cappelliera di un aereo e potevi portarti il lavoro a casa senza dover fare due o tre viaggi scomodissimi con monitor CRT, tastiera e corpo macchina in equilibrio.
E Osborne era abbastanza munifica da fornirti a $1795 (ora sarebbero quasi seimila al netto dell’inflazione) programmi di produttività per un valore equivalente.
Tutto questo fu sufficiente per lanciare una corsa al portabile introducendo nel mercato concorrenti come Kaypro e Compaq col “Compaq Portable”, un portabile PC Compatibile (dove Kaypro e Osborne 1 erano CP/M e il Commodore SX basato su BASIC).
Non male per una ditta che, come molte all’epoca, era nata per tutt’altro scopo (manualistica per l’uso dei computer che poi avrebbe costruito).
Dove Osborne 1 fu un fallimento? Nel momento in cui Osborne ammise che probabilmente un CRT da soli 5 pollici per quanto di buona qualità era inadatto alle presentazioni e due floppy a singola facciata potevano essere migliorato.
Osborne annunciò così l’Executive e il Vixen, versioni perfezionate dell’Osborne 1 prima che fossero disponibili sugli scaffali.
Successe una cosa che ancora oggi chiamiamo effetto Osborne non a caso: Osborne aveva bisogno di soldi per lanciare i nuovi prodotti. E per fare soldi doveva vendere l’Osborne 1.
Ma le vendite, fino a quel punto eccellenti, si fermarono con l’annuncio dei nuovi prodotti.
Avete presente il padre di famiglia che rifiuta di comprare la Switch OLED al figlio perché gli hanno detto che Nintendo ha annunciato per l’anno fiscale prossimo una nuova console?
La situazione era peggiore: mentre Nintendo si è limitata ad annunciare che probabilmente esisterà un nuovo prodotto, Osborne annunciò che l’Executive sarebbe stato più competitivo (uscì con un prezzo di $2495 dollari), con un monitor più grande, floppy a doppia faccia ed altre caratteristiche.
Secondo un mito diffuso per anni questo bastò ad uccidere le vendite degli Osborne 1: il pubblico semplicemente aspettava i nuovi prodotti e cancellava gli ordini per il vecchio modello.
Ma in realtà anche questo è parzialmente una bufala.
Semplicemente l’Effetto Osborne fu solo un anello di una catena di decisioni balzane.
Innanzitutto Osborne annunciò con largo anticipo l’Executive e il Vixen, che però si materializzarono sul mercato dopo oltre un anno dando tutto il tempo a Kaypro e Compaq di insidiare la loro clientela.
In secondo luogo, Osborne provò ad abbassare i prezzi dell’Osborne 1, dando l’idea di un prodotto svalutato e deprecato e investì soldi che non aveva per usare mainboard fondo di magazzino per produrre nuovi Osborne 1.
Quando l’Executive era finalmente alle porte, gli stampi per il case erano stati già distrutti e bisognava procurarsi da capo floppy e CRT.
Osborne cominciò a spendere molto più di quello che guadagnava e finì presto al fallimento.
L’IBM PCJr
Con un Intel 8088 e 64Kb di RAM (vi fu un modello da 128Kb) il PC Jr fu la risposta IBM al dominio scolastico dell’Apple II e del Commodore 64. Nel 1984 l’idea era “semplificare” il PC IBM Compatibile e dargli un’immagine giocosa e giovanile che attraesse i giovani scolari.
La sezione video era migliorata rispetto alla CGA, con una serie di modi video sfruttati meglio nel Tandy Graphic Adapter del concorrente Tandy 1000.
Al pari del concorrente Commodore 64 offriva programmi educativi e da ufficio su cartuccia, e la sezione audiovideo lo avrebbero reso un’eccellente computer per videogames.
Lo avrebbero reso: in realtà dopo tante promesse ebbe una tiepida accoglienza.
Innanzitutto la sua tastiera, inizialmente con scomodi tastini di gomma squadrata modello chiclet e poi con tasti convenzionali era scomodissima per l’uso da piccolo ufficio e scolastico.
Come elemento di novità non era cablata ma connessa mediante infrarossi: provate a immaginare i problemi dati dall’illuminazione sugli infrarossi e da ragazzini pronti ad importunarsi l’un l’altro con tastiere che potevano essere spostate per prendere il controllo del PC accanto.
Un Macintosh 128k in fondo non costava tanto di più di un PCJr, ma aveva un rapporto qualità-prezzo superiore.
Nonostante questo, con un certo successo, IBM riuscì a mantenere in vita, e per un certo periodo, risollevare le vendite del PC Jr sostituendo gratuitamente le vecchie tastiere, abbassando i prezzi e rimodulando la campagna promozionale in modo da evidenziare il PC Jr come compatibile coi PC più costosi della casa ad un prezzo ormai assai inferiore.
Col finire degli sconti, finì la vita di scaffale del PCJr, sconfitto dal suo clone più vittorioso, il Tandy 1000, che sacrificò gli slot cartuccia per enfatizzare invece la natura di PC Compatibile economico e domestico.
I fan dei serial televisivi riconosceranno il Tandy 1000 come il PC della famiglia Cooper in Young Sheldon, un PC Compatibile per una famiglia di “borghesi piccoli piccoli” che il capofamiglia potesse usare per gestire tasse e bilanci e i figli per giocare.
Tutte cose che il PCJr avrebbe potuto essere, ma non fu: eppure era bastato rimuovere le fallimentari porte cartuccia (inutili su un PC Compatibile), passare ad una tastiera convenzionale e migliorare la compatibilità con lo standard IBM PC più “costoso”
Il Tandy 1000 era un vero PC Compatibile con la grafica migliorata del PCJr che forniva alle famiglie “abbienti ma non troppo” (non a caso in Young Sheldon viene presentato come l’investimento di una famiglia monoreddito nell’America rurale della fine degli anni ’80) un IBM compatibile adatto ai primi videogiochi senza rompere il porcellino.
Il Coleco Adam: fu davvero tutta colpa del manuale?
Il Coleco Adam fu un fallimento di una ditta che aveva prodotto una delle migliori console della sua era, ma fallì clamorosamente nel tentativo di competere con gli home computer della sua epoca.
Il fallimento fu attribuito da Coleco al “manuale poco chiaro”, che però fu solo uno dei fattori decidenti.
L’Adam era nato per un pubblico inesperto, disponibile sia come computer a sé stante che come modulo per il ColecoVision.
Il manuale incriminato consigliava di avviare il sistema con le cassette inserite negli appositi lettori, le Digital Data Pack, ma l’Adam ad ogni avvio produceva una scarica elettromagnetica che danneggiava le cassette.
Il manuale diceva invece di tenerle a portata di mano se non nel lettore, offuscando la bizzarria di un computer in grado di distruggere i suoi stessi media se lasciati accanto.
Un’altra bizzarra scelta dell’Adam fu considerarlo un blocco unico con la stampante: l’Adam arrivava con un programma di videoscrittura pronto a trasformarlo in uno dei wordprocessor di moda all’epoca, macchine da scrivere evolute con monitor. Ma aveva l’alimentatore nella stampante: se rompevi la stampante, potevi dare l’addio al tuo Adam.
Il tutto fu unito ad una politica di license assai restrittiva per cui l’Adam al lancio avrebbe avuto accesso a tutti i videogames del ColecoVision ma nuovi programmi sarebbero stati creati su licenza da produttori a cui era impedito criticare pubblicamente Coleco e che avrebbero potuto perdere le licenze ad nutum costringendoli quindi a rinunciare agli investimenti fatti.
Il manuale fu riscritto, i difetti corretti e l’Adam ricevette un lettore floppy: anche così, sparì dal mercato dopo due anni, trasciando via Coleco con sé, diventando uno dei dieci computer peggiori della storia, ma tra tutti il più amato tra i fans.
Il PC delle Hot Wheels e di Barbie (e di come il fallimento divenne farsa dopo)
Siamo nel 1999, convenzionalmente l’anno in cui il retro finisce (considerando l’ultima console veramente retro il GameBoy Advance del 2001). Patriot Computer decide di vendere dei Celeron lerci con Windows 98 SE ad un pubblico di bambini e bambine.
“Naturalmente”, siccome eravamo ancora nella logica anni ’90, il computer dei bambini doveva essere blu pieno di fiamme, con un volante per giocare a giochi di corsa, un monitor e delle casse di gamma bassa altrettanto blu e prestazioni scadenti.
“Ovviamente” alle bambine andava il computer rosa col logo Barbie in rosa shocking, in un tripudio di argento platinato, rosa, fiori e margherite da far impallire la Margot Robbie del film della Gerwig con una macchina fotografica non meno rosa.
Il tutto piagato da problemi di qualità, esemplari con alimentatori malfunzionanti, l’apparente impossibilità di Patriot (il produttore) di consegnare gli esemplari in tempo per Natale costringendo Mattel a inviare ai genitori buoni regalo e giocattoli portò la stessa a fallire con diversi ordini ancora inevasi e genitori pronti a scrivere alle principali riviste con lamentele relative alla scarsa qualità del prodotto ed al non aver mai ricevuto il prodotto.
Anni dopo, parte la moda degli “sleeper PC“: modernissimi computer gaming inseriti in case vintage oppure un umilissimo case ufficio, spesso per placare la voglia di retro che anche voi che mi leggete avete ma che spesso assume i contgorni grotteschi del bagarinaggio.
Nel 2020 il canale Linus Tech Tips ospita un video che usa il PC Hot Wheels come base per uno sleeper.
Da allora ciarpame che un tempo avresti trovato usato per un centinaio di dollari lo trovi a prezzo da PC moderno se non a prezzo da modernariato di lusso in condizioni “da riparare”.
Il VirtualBoy
Di questo ne parlerò solo brevemente, perché ve ne ho già parlato diffusamente qui. Potrete leggere quell’articolo nel dettaglio, qui avrete un rescritto. Il buon Gunpei Yokoi, padre del Game Boy e del suo predecessore Game&Watch, nonché del concetto stesso di pad con la “crocetta direzionale”, combinò la tecnologia 3D del “Private Eye” di Reflection Technology, uno specchietto vibrante in grado di simulare immagini tridimensionali, con display a LED monocromatici rossi.
L’idea era avere, nel 1995, un dispositivo completamente 3D che lanciasse i giovani in un mondo virtuale. Usando tecnologie vecchie di sei anni già all’epoca, tirò fuori un pesantissimo casco, così pesante da richiedere l’uso di un treppiedi per tenerlo dritto perché usando solo i muscoli del collo probabilmente ti saresti ribaltato in terra o stirato i muscoli, in grado di proiettare immagini a linee rosse monocromatiche, con un consumo di energia elettrica tale da bruciare sei batterie in quattro ore (o attaccare un alimentatore da presa al tripode).
Nelle intenzioni di Yokoi, il finto 3D monocromatico avrebbe occultato ogni magagna. La vita vera dimostrò che il VirtualBoy era in grado di produrre solo feroci mal di testa.
Non vi fu mai un VB in versione PAL, e i mercati Giapponese e Americano rigettarono presto il prodotto.
Dovremo aspettare il 3DS per avere “la prima console 3D domestica Nintendo” e la successiva Switch abbandonerà il progetto salvo per un numero limitato di giochi e usando lo stesso sistema stereoscopico del “3d per cellulare” con occhialoni in cui incastrare la console.
Ma all’epoca il VirtualBoy distrusse i sogni 3D Nintendo, e fece in modo che Mario Tennis, il secondo gioco della saga, fosse in realtà il primo. Mario’s Tennis, il vero “primo gioco di tennis di Supermario” avrebbe dovuto essere in 3D, ma fu solo un flop.
Quando i computer vogliono farsi console: parte prima, il 64GS
Abbiamo visto come uno dei grossolani fallimenti della storia informatica, l’Adam, sia nato quando Coleco decise di entrare nel mercato dei computer. Un altro fallimento nacque quando Commodore, nel termine della sua gloriosa vita, volle entrare nel mercato delle console.
Anche di questo ne abbiamo parlato assieme, e quindi ripercorreremo la cosa brevemente, come faremo col secondo capitolo dei “computer diventati console”.
Cosa accade quando un home computer il cui punto di vendita principale era essere ostentatamente superiore alle console videoludiche offrendo giochi ma anche cultura improvvisamente viene cannibalizzato, e male, per farne una console?
Siamo nel 1990: SEGA e Nintendo hanno già la quarta generazione di console in canna, ovvero SuperNintendo e Mega Drive, ma tengono sugli scaffali edizioni economiche del NES e del Master System (il Master System II) per l’utente budget, ovvero spiantato.
Commodore decide sostanzialmente che se il Master System II è ancora a scaffale, ci può andare il 64GS: un C64C senza tastiera, senza connettore floppy e col connettore Datassette murato, con un KERNAL (il Kernel di sistema) modificato per accettare solo giochi su cartuccia e il nuovo joystick modello Cheetah, finalmente col supporto per due tasti sparo diversi.
Stringe un accordo con Ocean e altri produttori e decide di vendere una serie di cartucce. Problema: sia i Chetaah che le cartucce funzionano anche sugli altri Commodore. Che sono veri computer. Ad un prezzo comparabile.
Chi voleva una console averebbe comprato le console di quarta generazione. Chi voleva spendere poco le “terze generazioni rifatte”, ma non il GS.
Chi voleva giocare coi giochi del Commodore, voleva un Commodore 64, un 64C o un 64G (il 64C in un case simile a quello del primo modello).
Commodore lo capì e finì a vendere i Cheetah, peraltro di pessima fattura e inclini all’autodistruzione, in bundle coi C64C.
Caso 2: il Bandai Pippin
Parliamo di un altro fallimento Apple.
Il Pippin era di fatto un Power Mac reimpacchettato in forma di console. Nella pratica però divenne uno tra i venticinque peggiori prodotti informatici di ogni tempo, un computer Apple spinto dalle sole proprietà intellettuali Bandai (giochi basati su Gundam e Dragonball) che nel 1996 si trovò a competere col successo esplosivo della SONY Playstation.
Un computer reimpacchettato male per fungere da scomoda console contro il successo commerciale di fine millennio: tutto quello che che poteva andare storto, francamente lo fece.
E qui possiamo tornare a Commodore, abile nella creazione di computer, ma specialmente dopo l’esplosivo successo del Commodore 64, meno abile nel venderli.
Come il Plus/4 fu ostacolato da Commodore stessa
Il fatto che molti di voi ricorderanno il Commodore 16 ma pochi il Plus/4 rende questa sezione dell’articolo quasi inutile, eppure ci proveremo lo stesso.
Era il 1985, e Commodore sentiva la pressione dello ZX Spectrum e dei computer da 99$ e meno. Ma anche il peso di essere ormai onnipresente nel mercato domestico e SoHo (Small office/Home office, i piccoli uffici) ma non avere una vera presenza nel mercato dei “cubicoli di azienda”, occupato da Apple e presto appannaggio del già citato Tandy 1000 e altri cloni PC compatibili economici.
Decise così di far creare al buon Bil Herd il Plus/4, la macchina perfetta da ufficio. Economica, con programmi di produttività incorporati in ROM, una tastiera abbastanza ergonomica, un lettore floppy attaccato mediante la porta cartuccia non piagato dall’atavica lentezza del formato IEC (legata ad un noto bug di sistema mai corretto nei Commodore 64 e VIC20) e un unico chip audio/video, il TED, creato per gli uffici.
Niente sprite, ma un maggior numero di colori, audio a due canali, perfetto per cimentarsi con fogli di calcolo ed elaborazione testi a livello professionale.
E fin qui, sembra tutto perfetto: nonostante una diffusa leggenda metropolitana voglia il Plus/4 nato per sostituire il Commodore 64, le intenzioni iniziali era portare Commodore a conquistare ogni settore possibile, dal piccolo ufficio ai cubicoli senz’anima delle grandi aziende.
Ma il Plus/4 finì venduto ad un prezzo iniziale di 300 dollari, al cambio 800 attualli. I programmi di produttività promessi arrivarono col contagocce, dalla promessa di diverse varianti con diverse ROM-programma per ogni ufficio si arrivò ad un singolo pacchetto ufficio coi soliti programmi (videoscrittura, foglio di calcolo, database, grafica) ostacolato peraltro da una serie di cambi in corsa che rendevano, ad esempio, impossibile usare il bundle mouse 1351+GEOS (l’interfaccia grafica introdotta col Commodore 64 e resa poi famosa col 128).
Un ulteriore ostacolo venne dato dall’idea del marketing di pensionare il VIC20 proponendo come variante il Commodore 16 a 99%, un Plus/4 senza programmi da ufficio, con la tastiera modificata di un VIC20 e un case ad esso simile ma a colori invertiti (case nero e tastiera bianca) con soli 16K di RAM.
Capirete che i programmatori fecero la stessa cosa che fecero col Commodore 128 dopo: cominciarono a produrre programmi per il Commodore 16, il “minimo comune denominatore” castrato, attaccandoci su un adesivo per spiegare che funzionava “anche col Plus/4”.
La combinazione della scarsità di programmi, la concorrenza in ufficio di computer più performanti di altre marche e dello stesso Commodore 64, l’assenza totale di retrocompatibilità tra VIC20, Commodore 64 e serie TED (il Plus/4, il C16 e il C116, versione ulteriormente ridotta con una tastierina chiclet) comportarono l’insuccesso del Plus/4, trascinato in basso dai suoi fratellini “poveri” e condannato a condivederne un destino che vide i tre frateli primeggiare solo in Messico, Ungheria e altri posti dove un Commodore 64 non riusciva a prendere spazio.
Molti in Italia hanno visto un C16, pochissimi un Plus/4.
Il Casio Loopy: lo stereotipo con la console intorno
Siamo nel Giappone del 1995. Quel Giappone che ancora oggi è una società incredibilmente sessista.
Figurarsi nel 1995. Casio, principale produttore di orologi e agende elettroniche decide di farsi la domanda sbagliata e rispondere nel modo sbagliato.
Si chiede perché alle “signorine” non piacciano i videogames. Anziché pensare che l’ambiente del videogioco, come molti ambienti nerd e come dimostrerà brutalmente il Gamergate è stato per troppo tempo una sorta “di festa della salsiccia” in cui agglomerati di nerd tendenti all’incel si riuniscono nel loro mondo di fantasia cercando di tenere le “femmine” il più lontano possibile con ogni mezzo possibile, e che la teoria per cui ai maschietti spettavano computer, videogiochi e “giocattoli da maschi” mentre alle ragazzine spettavano bambole e cose “rosa e donnesche” era ormai obsoleta, Casio decise di rispondere nello stesso modo con cui Patriot aveva creato il “Computer della Barbie”.
Creando una console videoludica a portata di fanciulla.
Naturalmente una fanciulla vista da un salaryman, un impiegato maschio Giapponese. E grazie ad una visita al sito “FEMICOM“, museo del videogame “al femminile vintage” scopriremo quale disastro ferroviario esso fu e come in un mondo ancora lontano dalla parità tra sessi il mondo gaming degli anni ’90 fosse sostanzialmente (e con malcelato orgoglio) fermo al livello “donna schiava, zitta e lava” se non, orgogliosamente, peggio.
Quindi il Loopy, aka My Seal Computer SV-100, era un affare grigio rosato (ma esposto alla luce del sole ingialliva virando verso il fucsia e Casio stessa lo photoshoppava rosa acceso negli spot per “attrarre le ragazzine”) con una sola control port, perché si sa che le ragazzine (naturalmente sono sarcastico) non hanno “lo spirito competitivo dei veri maschi” e non giocano mai in multiplayer, ma mai nellla vita, un controller assurdamente semplificato inadatto per giochi di azione o picchiaduro (perché puoi avere Chun-Li e Cammy White in Street Fighter, ma rigorosamente controllate da giocatori maschi), il supporto per un mouse e una stampante.
Nonché una decina di giochi tra cui un antesignano di Animal Crossing dove arredare la tua casetta al femminile (ma scritto da uno degli autori Final Fantasy e È quasi magia Johnny, Kenji Terada, per cui evidentemente, citando Italian Spider-Man, “Le femmine non sono utili a fare il fantasy, ma sanno arredare una bella casetta”) ed una serie di giochi legati al mondo della moda, avventure romantiche al livello “Romanzo di Liala“, oroscopi, e purikura, ovvero programmi per stampare adesivi luccicosi (comprando la citata stampante) per adornare zainetti, borsette e cellulari in un tripudio di rosa e strass da far vomitare anche la Barbie.
Dopo un anno smisero di uscire programmi per il Loopy, dopo tre smise di esistere il Loopy. E ci piace sperare che il resto del mondo abbia imparato che il mondo non finirà se avete una figlia che gioca con Nintendo Switch o la PS5.
Atari Jaguar: 64 bit e non sentirli (ma neppure averli)
Gli anni ’90 furono veramente un tripudio di fallimenti: anche Atari decise di tirare il carico da ’90 presentando la sua prima console a 64 bit.
Che era a 64 bit tanto quanto la PS5 è una console 8k, ovvero lo è stata per motivi di marketing prima di essere scoperta.
Cinque processori divisi in tre chip, di cui due proprietari, aveva due processori a 32 bit in parallelo che “sommati facevano 64” (secondo questa teoria, il SEGA Saturn avrebbe dovuto essere la prima console a 112 bit della storia), una imbarazzantissima serie di bug e una serie di giochi al lancio che, lungi dal rappresentare la promessa della “prima console a 64 bit”, erano port delle vecchie console a 16 bit della terza generazione.
Aggiungiamo a questo un controller scomodissimo con un numero abnorme di tasti, che aumentarono quando il pubblico ne chiese uno migliore e possiamo capire perché l’Atari Jaguar fallì l’obiettivo di raggiungere la rivoluzione 64 bit.
Il marketing stesso non negò momenti di imbarazzo, con Sam Tramiel, figlio del celebre Tramiel padre nobile di Commodore, pronto a giurare che avrebbe querelato SONY, anzi, l’avrebbe denunciata alla Commissione per il Commercio Internazionale degli USA, per concorrenza sleale se mai avesse osato vendere la Playstation a prezzi concorrenziali contro il suo gioiello.
Tramiel si spinse a fissare il prezzo: a 300$ avrebbe querelato SONY, 500$ andavano bene.
SONY vendette la Playstation per 300$ e divenne un successo planetario e le carcasse degli Atari Jaguar, o meglio gli stampi finirono in mano ad una ditta che ci fece i gusci per macchinari per l’ortopanoramica dentale.
La reazione dell’ITC Americana non è pervenuta, mai, e l’affermazione di Tramiel Jr. è diventata l’equivalente del mondo videoludico delle profezie di Fassino sul Movimento 5 Stelle e la politica Italiana.
Il Philips CD-I, ovvero come rovinare IP perfette
Il punto forte di Nintendo sono le sue IP.
La Nintendo Switch è di fatto un portatile di ottava generazione che compete da pari con le console di nona generazione pura avendo dalla sua un carico di IP leggendarie.
Sostanzialmente, non si rinuncia a Mario Bros., Legend of Zelda e Pokémon, Animal Crossing attrarrà per sempre il pubblico e il bagaglio retro di Nintendo sarà sempre lì a consolarti.
Lo avete letto in un altro momento della nostra rubrica: c’è stato un momento in cui Philips è riuscita a rendere ridicolo questo grande bagaglio di storia.
Ricorderete come abbiamo parlato di una partnership tra Nintendo e Philips per creare il SNES CD, qualcosa che poi sarebbe diventato, in casa SONY, la famosa PlayStation: alla fine non nacque una nuova console, ma Philips ottenne accesso a due proprietà intellettuali iconiche e gloriose della grande N: Mario e Zelda.
E decise di usarle per lanciare il CD-i, una console audiovideo domestica con supporto per i formati CD-i (un formato Philips da 744 Mb di Dati e 72 minuti di audiovideo), CD Audio, CD+G, CD karaoke e Video CD, ancorché con una scheda opzionale.
E ovviamente, con giochi in grado di combinare filmati con momenti di gioco.
Il risultato: la Unholy Triforce, la Triforza sconsacrata: ben tre giochi di Zelda con trame banali ed animazioni fognarie con intuizioni insieme ridicole e moderne.
Se la serie animata di Zelda del 1989 aveva introdotto il gigione ma bonario padre di Zelda, e capitoli videoludici come Wind Walker e Breath of the Wild gli avevano dato un ruolo importante, nella Triforza Sconsacrata il Re Harkinnen è noto per il meme Mah boi, in cui tira fuori massime di sapienza disegnato malissimo.
Solo il terzo gioco fece a meno delle animazioni fognarie: per passare direttamente a filmare la segretaria della compagnia che si occupava del gioco in un cosplay economico della Principessa Zelda e una tunichetta da eroina di Miyazaki.
Hotel Mario, gioco “merdaviglioso” (traduzione di “Craptastic”) contribuì a dissacrare la memoria di Mario con le stesse animazioni fognarie della Trilogia di Zelda, trasformando il CD-i in una pagina nera nella storia di tutti i Nintendari duri e puri.
Conclusione
Ci sono molti altri flop di cui non abbiamo parlato, e molti lo sono relativamente.
Ma se vi sentite dei falliti talvolta pensate a questo: Apple si è ripresa dall’Apple III. Avete una Switch in casa nonostante sia esisito il VirtualBoy.
Coraggio: potete farcela anche voi.
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