di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo
Idrossiclorochina: un nome poco noto al grande pubblico sino al marzo del 2020, quando, nel giro di poche settimane, buona parte del mondo fu investito dalla prima, tremenda ondata della malattia Covid-19.
Si trattava di un vecchio antimalarico e antireumatico il cui uso era stato approvato per la prima volta nel 1955, negli Stati Uniti. Tutto ciò, fino al 20 marzo del 2020, quando, appena quattro giorni dopo esser stato sottoposto per la revisione tra pari, fu pubblicato sull’International Journal of Antimicrobial Agents (IJAA) uno studio guidato dal dottor Philippe Gautret, dell’Istituto Ospedaliero Universitario di Marsiglia per le malattie infettive (IHU), e che aveva come senior author il dottor Didier Raoult, a quel tempo direttore dell’Istituto (oggi è in pensione). Secondo gli autori, il trattamento dei malati affetti da Covid-19 con l’idrossiclorochina aveva ridotto la carica virale dei pazienti; un effetto ancora maggiore si era ottenuto quando il farmaco era stato somministrato insieme all’azitromicina, un comune antibiotico della classe dei macrolidi.
Quasi all’istante, quella terapia fu vista da molti come una promessa. Erano giorni di forte incertezza e di altissima attenzione mediatica verso qualunque possibilità terapeutica contro una malattia ancora poco conosciuta e devastante. Il dottor Raoult, in particolare, promosse l’idrossiclorochina tramite interviste televisive e dichiarazioni sui social media, suscitando immediato clamore in tutto il mondo. Negli Stati Uniti, la cura venne promossa anche da una figura popolare e discussa come il medico Mehmet Cengiz Öz, più noto con lo pseudonimo di “Dr. Oz”, e poi segnalata con ottimismo persino dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, allora al suo primo mandato.
Tuttavia, fin da subito il lavoro venne criticato dalla comunità scientifica: sotto accusa erano l’esiguità del campione – appena trentasei pazienti – e il tempo intercorso tra la presentazione dello studio e la sua pubblicazione (il processo di peer review è in genere molto più lungo). Inoltre, a soli quattro giorni dopo la sua uscita, la microbiologa olandese Elisabeth Bik (una delle maggiori specialiste al mondo per ciò che concerne l’integrità e l’utilizzo di metodologie erronee nei lavori scientifici) faceva notare alcuni dati curiosi della ricerca. Sugli appena trentasei pazienti trattati, sei erano stati rimossi dallo studio e quindi non considerati nei risultati: di questi, uno era deceduto, per altri tre si era dovuti ricorrere ai reparti di terapia intensiva. In altre parole, lo studio aveva escluso mentre era ancora in corso i casi più gravi, misurando soltanto la carica virale dei pazienti che erano già in via di miglioramento.
Non era l’unico problema metodologico: tre anni dopo la pubblicazione, Bik e un gruppo di colleghi pubblicarono sulla rivista Therapies una lettera in cui si chiedeva la ritrattazione dell’articolo: tra i vari problemi metodologici riscontrati fin da subito, si aggiungeva il fatto che il cutoff (il “punto”) per classificare come positivo o meno il test della reazione a catena della polimerasi (PCR) usato nella ricerca era diverso se si trattava del gruppo dei pazienti trattati con l’idrossiclorochina rispetto a quelli del gruppo di controllo. C’erano poi altre questioni che riguardavano l’adeguatezza dell’approvazione etica della ricerca e di conflitto d’interessi (uno degli autori del lavoro era anche capo-redattore della rivista sulla quale lo studio era comparso).
Il 17 dicembre 2024, a distanza di quattro anni e nove mesi dalla sua pubblicazione, quello studio è stato ritrattato. Secondo il testo della nota pubblicata dalla grande casa editrice scientifica Elsevier (co-proprietaria della rivista), la decisione è stata presa dopo un’indagine che ha messo in evidenza i problemi etici dello studio (non sarebbe del tutto chiaro se i pazienti avessero firmato il consenso informato e se fossero consapevoli di star partecipando a uno studio sperimentale, cosa che avrebbe richiesto quella firma) e dopo aver preso atto della volontà di tre degli autori di non essere più associati a quello studio.
L’efficacia dell’idrossiclorochina per il trattamento del Covid-19 è stata smentita da ulteriori studi, come quello pubblicato nell’ottobre del 2020 dal New England Journal of Medicine.
Dal canto suo, la Società francese di farmacologia (SFPT) ha scritto in un comunicato uscito lo stesso giorno della ritrattazione:
Questo studio assai controverso è stato la pietra angolare di uno scandalo di portata globale. La promozione dei suoi risultati ha portato alla prescrizione errata di idrossiclorochina a milioni di pazienti, con conseguente assunzione di rischi inutili per milioni di persone e, potenzialmente, a diverse migliaia di decessi prevenibili. Ha anche condotto a un enorme spreco di risorse e alla proliferazione di centinaia di studi inutili, e questo a scapito della ricerca di trattamenti veramente efficaci. La ritrattazione dello studio di Gautret, attesa da quattro anni, è un tardivo ma essenziale riconoscimento delle derive scientifiche che sono giunte a mettere in pericolo dei pazienti.
Da questa storia è opportuno trarre un insegnamento utile alla società e alla comunità scientifica: anche nelle situazioni di estrema emergenza come quella in cui buona parte del mondo si trovava nei primi mesi del 2020, tempi adeguati e applicazione rigorosa delle modalità del lavoro scientifico non sono un intralcio o una perdita di tempo. Al contrario, la loro applicazione finisce per salvare vite, e, allo stesso tempo, contribuisce a diffondere un bene la cui scarsità sembra sempre più farsi sentire: la fiducia nelle istituzioni di ricerca e nei processi che stanno dietro al lavoro degli scienziati.
Immagine da iStock, credit Cristian Storto Fotografia