Non si sa per quale curioso motivo in molti è diffuso il convincimento che la realizzazione di uno spazio chiuso asservito permanentemente a un’attività commerciale preesistente al fine di soddisfarne le esigenze non temporanee sia da assimilare a una pergotenda, cioè una struttura fissa leggera – in genere in legno o alluminio – completata da una parte mobile, la copertura (es. pergolato, tenda, ecc.).
La pergotenda si utilizza nei giardini, sui terrazzi e costituisce per le caratteristiche un’attività di edilizia libera, cioè un intervento senza titolo abilitativo (art. 6 del D.P.R. n. 380/2001 e s.m.i.).
La realizzazione di uno spazio chiuso permanente è cosa ben diversa, in quanto crea superfici e volumi.
La Corte di cassazione, con la sentenza Sez. III, 28 ottobre 2024, n. 39596, l’ha ribadito in modo netto.
Ne parla molto chiaramente Gianfranco Amendola, magistrato in quiescenza, uno dei padri del diritto ambientale in Italia.
Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)
da Italia Libera, 19 novembre 2024
“Pergotende” libere: la Cassazione mette un punto fermo sui “regali” ai furbetti dell’abusivismo.
Scritta con linguaggio chiaro e comprensibile a tutti, la sentenza della Terza Sezione della Suprema Corte pubblicata il 28 ottobre scorso elimina ogni equivoco sulle strutture mobili o regolabili destinate alla protezione dal sole e dagli altri elementi atmosferici. Tali strutture «non possono determinare la creazione di uno spazio stabilmente chiuso, con conseguente variazione di volumi e di superfici». Uno “schiaffone” a tutti i pubblici ufficiali che vedono e passano oltre come se nulla fosse. (Gianfranco Amendola)
È appena stata pubblicata una importante sentenza della Cassazione (Sez. III n.39596 del 28 ottobre 2024) che affronta finalmente con chiarezza la questione, così attuale, delle cosiddette “pergotende” la cui disciplina è particolarmente complicata. In sostanza, quando è possibile installare “pergotende” senza permesso? La legge è più volte cambiata ma oggi – conclude la Cassazione dopo una minuziosa ricognizione legislativa -, rientrano nell’ambito degli interventi di edilizia libera solo «le opere di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici la cui struttura principale sia costituita da tende, tende da sole, tende da esterno, tende a pergola, anche bioclimatiche, con telo retrattile, anche impermeabile, ovvero con elementi di protezione solare mobili o regolabili, e che sia addossata o annessa agli immobili o alle unità immobiliari, anche con strutture fisse necessarie al sostegno e all’estensione dell’opera. In ogni caso, le opere di cui alla presente lettera non possono determinare la creazione di uno spazio stabilmente chiuso, con conseguente variazione di volumi e di superfici, devono avere caratteristiche tecnico-costruttive e profilo estetico tali da ridurre al minimo l’impatto visivo e l’ingombro apparente e devono armonizzarsi alle preesistenti linee architettoniche» (art. 6, lettera b-ter D.P.R. n. 380 del 2001 introdotta dall’art. 1, comma 1, lett. a, d.l. n. 69 del 2024).
E, quindi – precisa la Suprema Corte – «perché non sia soggetta ad alcun regime autorizzatorio è necessario che l’opera: a) sia funzionalmente destinata alla sola protezione dal sole e dagli agenti atmosferici; b) sia strutturalmente (e conseguentemente) costituita esclusivamente da tende, tende da sole, tende da esterno, tende a pergola, anche bioclimatiche, con telo retrattile, anche impermeabile, ovvero con elementi di protezione solare mobili o regolabili; c) sia addossata o annessa agli immobili o alle unità immobiliari, anche con strutture fisse necessarie al sostegno e all’estensione dell’opera; d) non determini la creazione di uno spazio stabilmente chiuso, con conseguente variazione di volumi e di superfici; e) abbia caratteristiche tecnico-costruttive e profilo estetico tali da ridurre al minimo l’impatto visivo e l’ingombro apparente e si armonizzi alle preesistenti linee architettoniche». Con la conseguemza che «in assenza anche di una sola di queste condizioni, l’opera non può essere considerata come soggetta a edilizia libera» ed occorre il permesso di costruire.
In altri termini, «la struttura con cui si crea ex novo uno spazio chiuso stabilmente asservito ad un’attività commerciale preesistente ed al fine di soddisfare le esigenze non temporanee dell’impresa, non può definirsi “pergotenda”, non essendo la struttura funzionale (solo) a una migliore vivibilità degli spazi esterni di un’unità già esistente, tipo terrazzi e/o giardini. Non si tratta, nel caso di specie, di un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, bensì di un elemento che ha creato un nuovo spazio chiuso, che ha trasformato in modo permanente un suolo inedificato, inglobandone l’area e lo spazio libero sovrastante a servizio degli interessi commerciali degli interessati».
Il che è esattamente quanto avviene nella maggioranza dei casi anche se nessuno interviene.
dalla Rivista telematica di diritto ambientale Lexambiente, 8 novembre 2024
Cass. Sez. III n.39596 del 28 ottobre 2024 (UP 12 sett 2024)
Pres. Ramacci Rel. Aceto Ric. Rallo
Urbanistica. Pergotende.
La struttura con cui si crea ex novo uno spazio chiuso stabilmente asservito ad un’attività commerciale preesistente ed al fine di soddisfare le esigenze non temporanee dell’impresa, non può definirsi “pergotenda”, non essendo la struttura funzionale (solo) a una migliore vivibilità degli spazi esterni di un’unità già esistente, tipo terrazzi e/o giardini. Non si tratta, nel caso di specie, di un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, bensì di un elemento che ha creato un nuovo spazio chiuso, che ha trasformato in modo permanente un suolo inedificato, inglobandone l’area e lo spazio libero sovrastante a servizio degli interessi commerciali degli interessati.
RITENUTO IN FATTO
1. Francesca Letizia Rallo e Maria Rallo ricorrono per l’annullamento della sentenza del 27 settembre 2023 della Corte di appello di Palermo che, rigettando le loro impugnazioni, ha confermato la condanna alla pena di due mesi di arresto e 8000 euro di ammenda ciascuna inflitta con sentenza del 18 maggio 2022 del Tribunale di Marsala per i reati di cui agli artt. 110 cod. pen., 44, lett. b, e 95 d.P.R. n. 380 del 2001, loro ascritti perché, quali legali rappresentanti della “Rallo Florart S.r.l. Società Agricola”, proprietaria di un chiosco adibito alla vendita di fiori e piante antistante l’ingresso secondario del cimitero di Marsala (comune situato in zona sismica), in assenza di permesso di costruire, del preavviso scritto e dell’autorizzazione della Regione, avevano realizzato, nella parte retrostante il chiosco, un deposito a pianta rettangolare (avente superficie di mq. 15,36) con struttura portante in pilastri di ferro tipo scatolato, copertura a falda e pareti laterali rivestite con teli plastificati, alta mt. 2,95. Il fatto è contestato come accertato il 7 dicembre 2018.
1.1. Con il primo motivo lamentano la mancata qualificazione dell’opera come “pergotenda”, frutto – affermano – dell’errata applicazione del “criterio funzionale” in luogo di quello “strutturale” e deducono, al riguardo, la violazione degli att. 6, 6-bis d.P.R. n. 380 del 2001, 3, comma 1, lett. r) e u), legge reg. Sicilia n. 16 del 2016, nonché l’erronea applicazione degli artt. 3, 10, 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, avuto comunque riguardo alla natura temporanea dell’opera stessa.
1.2. Con il secondo motivo deducono l’erronea applicazione dell’art. 95 d.P.R. n. 380 del 2001, trattandosi di intervento rientrante tra quelli indicati dalla circolare della Regione Sicilia, ufficio del Genio Civile di Trapani, prot. n. 8638 del 20 gennaio 2016, Allegato n. “A1” punti 3) ed 8), per la cui realizzazione non è necessaria alcuna comunicazione ai competenti uffici in virtù della precarietà strutturale del manufatto che comporta un modesto pericolo sismico.
1.3. Con il terzo motivo deducono la violazione dell’art. 47 cod. pen. e la mancanza di motivazione in ordine alle ragioni della inescusabilità dell’errore in ordine al regime edilizio dell’opera.
1.4. Con il quarto motivo deducono la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, nonché il travisamento del fatto e l’omessa valutazione di prove decisive relativamente alla consistenza e autonomia strutturale dell’opera.
In particolare, quanto alla contraddittorietà della motivazione, lamentano che:
(i) la stessa Corte di appello descrive la struttura metallica portante come costituita da “pilastrini”, in tal modo ammettendo la presenza di piccoli pilastri, di consistenza sottile e, di conseguenza, la esiguità strutturale dell’opera;
(ii) la Corte di appello, nel conferire al manufatto carattere di stabilità, ne valorizza l’ancoraggio al suolo attraverso bulloni, laddove tale tipo di ancoraggio non esclude, per giurisprudenza costante, la facile amovibilità;
(iii) le tende che, per la Corte di appello, chiudono l’opera da tutti e quattro i lati qualificando la struttura come “nuova costruzione”, erano in realtà completamente ritraibili e non presentavano elementi di fissità, stabilità e permanenza, come si evince dalle fotografie, peraltro allegate alla consulenza tecnica della difesa e dunque finalizzate ad avallare la natura precaria dell’opera, dalle quali emerge che la struttura era funzionale esclusivamente a sorreggere il tendaggio.
Quanto al travisamento del fatto, deducono:
(i) il travisamento delle fotografie allegate alla relazione di consulenza tecnica della difesa;
(ii) il travisamento delle dichiarazioni rese da Francesca Rallo che mai aveva affermato l’utilizzo non temporaneo dell’opera;
(iii) il travisamento, per omissione, delle relazioni di consulenza tecnica della difesa;
(iv) il travisamento, per omissione, della testimonianza del geom. Vulpetti sulla natura precaria dell’opera;
(v) il travisamento, per omissione, della testimonianza di Paolo Giacalone sulla natura precaria dell’opera e sulla sua facile amovibilità;
(vi) il travisamento, per omissione, della sentenza del Tribunale di Marsala che aveva assolto altri imputati per fatti speculari a quelli oggetto di odierna regiudicanda.
1.5. Con il quinto motivo deducono la inutilizzabilità della testimonianza del geom. Vulpetti (che aveva riferito della esistenza della copertura a falda) perché resa dinanzi a giudice diverso da quello che aveva deciso.
1.6. Con il sesto motivo deducono la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione in ordine al diniego di applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto a fronte della mancata spiegazione delle ragioni della non esiguità del danno o del pericolo di danno, tenuto conto della consistenza dell’opera, della sua facile amovibilità (l’opera è stata rimossa in pochi minuti), della leggerezza dei materiali che la componevano, dell’assenza di vincoli paesaggistici. Non una sola parola – affermano – è stata spesa in ordine alla episodicità del fatto e alla natura minimale dell’interesse leso.
1.7. Con il settimo motivo deducono la prescrizione dei reati maturata prima della sentenza impugnata non sussistendo dubbi che l’opera fosse stata realizzata già nel mese di settembre dell’anno 2018.
CONSIDERATO IN DIRITTO
2. I ricorsi sono inammissibili.
3. Dalla lettura delle sentenze di primo e di secondo grado risulta che le imputate avevano realizzato, nella parte retrostante il chiosco destinato alla vendita di piante e fiori, un deposito a pianta rettangolare di 15,36 metri quadrati costituito da struttura portante in pilastri di ferro tipo scatolato alta 2,95 metri, dotata di copertura a falda e pareti laterali rivestite con teli plastificati,. Il manufatto, aveva affermato Francesca Rallo, era stabilmente a servizio dell’attività siccome necessario «nei momenti di maggiore affluenza, al fine di lavorare i fiori da vendere evitando di trovarsi esposti al sole e alle intemperie, considerato che non era possibile svolgere tali operazioni all’interno del chiosco in quanto molto piccolo. Il manufatto, dunque, era destinato a risolvere una situazione di scarsità di spazi nei quali svolgere fasi indispensabili dell’attività imprenditoriale svolta continuativamente in quel sito» (pag. 2, sentenza Corte appello).
3.1. Con il quarto motivo, il cui esame è logicamente preliminare, le ricorrenti deducono il travisamento del fatto.
3.2. Il travisamento della prova è configurabile quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia; il relativo vizio ha natura decisiva solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio (Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758 – 01; Sez. 1, n. 53600 del 24/11/2016, dep. 2017, Sanfilippo, Rv. 271635 – 01; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499). Il travisamento consiste in un errore di natura percettiva (e non valutativa) tale da minare alle fondamenta il ragionamento del giudice ed il sillogismo che ad esso presiede. In particolare, consiste nell’affermare come esistenti fatti certamente non esistenti ovvero come inesistenti fatti certamente esistenti. Il travisamento, pertanto, rende la motivazione insanabilmente contraddittoria con le premesse fattuali del ragionamento così come illustrate nel provvedimento impugnato, una diversità tale da non reggere all’urto del contro-giudizio logico sulla tenuta del sillogismo. Il vizio è perciò decisivo quando la frattura logica tra la premessa fattuale del ragionamento e la conclusione che ne viene tratta è irreparabile. Come spiegato da Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, n.m. sul punto, il travisamento della prova sussiste quando emerge che la sua lettura sia affetta da errore “revocatorio”, per omissione, invenzione o falsificazione. In questo caso, difatti, la difformità cade sul significante (sul documento) e non sul significato (sul documentato). Il travisamento del contenuto oggettivo della prova ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio (Sez. U civ., n. 5792 del 05/03/2024, Rv. 670391 – 01).
3.3. Come ulteriormente affermato da Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Dos Santos Silva Welton, Rv. 283370 – 01, il vizio di “contraddittorietà processuale” (o “travisamento della prova”) vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell’esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l’eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di “fotografia”, neutra e a-valutativa, del “significante”, ma non del “significato”, atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell’elemento di prova. Spiega in motivazione la Corte che «il vizio di “travisamento della prova” (o di contraddittorietà processuale come lo qualifica la dottrina più attenta) chiama in causa, in linea generale, le ipotesi di infedeltà della motivazione rispetto al processo e, dunque, le distorsioni del patrimonio conoscitivo valorizzato dalla motivazione rispetto a quello effettivamente acquisito nel giudizio. Tre sono le figure di patologia della motivazione riconducibili al vizio in esame: la mancata valutazione di una prova decisiva (travisamento per omissione); l’utilizzazione di una prova sulla base di un’erronea ricostruzione del relativo “significante” (cd. travisamento delle risultanze probatorie); l’utilizzazione di una prova non acquisita al processo (cd. travisamento per invenzione). In questi casi non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano (cfr. tra le altre Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215). Invero il vizio di “contraddittorietà processuale” vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell’esatta trasposizione nel ragionamento del giudice del dato probatorio nei termini di una “fotografia”, neutra e a-valutativa, del “significante”, ma non del “significato”, atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell’elemento di prova (Sez. 1, n. 25117 del 14/07/2006, Stojanovic, Rv. 234167; Sez. 5, n. 36764 del 24/05/2006, Bevilacqua, Rv. 234605). L’elemento travisato deve assumere portata decisiva».
3.4. Inoltre, poiché il vizio riguarda la ricostruzione del fatto effettuata utilizzando la prova travisata, se l’errore è imputabile al giudice di primo grado la relativa questione deve essere devoluta al giudice dell’appello, pena la sua preclusione nel giudizio di legittimità, non potendo essere dedotto con ricorso per cassazione, in caso di c.d “doppia conforme”, il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il giudice di secondo grado se il travisamento non gli era stato rappresentato (Sez. 5, n. 48703 del 24/09/2014, Biondetti, Rv. 261438; Sez. 6, n. 5146 del 2014, cit.), a meno che, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, il giudice di secondo grado abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice (nel qual caso il vizio può essere eccepito in sede di legittimità, Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, Capuzzi, Rv. 258438). Tale principio è espressamente codificato dall’art. 581, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., che onera l’appellante di indicare in modo specifico le prove delle quali viene dedotta l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione.
3.5. Infine, quando viene dedotto il travisamento della prova è onere del ricorrente, in virtù del principio di “autosufficienza del ricorso”, suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti medesimi (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in sede di appello), dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto, a meno che il “fumus” del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (Sez. 2, n. 20677 dell’11/04/2017, Schioppo, Rv. 270071; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Bregamotti, Rv. 265053; Sez. F. n. 37368 del 13/09/2007, Torino, Rv. 237302). Non è sufficiente riportare meri stralci di singoli brani di prove dichiarative, estrapolati dal complessivo contenuto dell’atto processuale al fine di trarre rafforzamento dall’indebita frantumazione dei contenuti probatori, o, invece, procedere ad allegare in blocco ed indistintamente le trascrizioni degli atti processuali, postulandone la integrale lettura da parte della Suprema Corte (Sez. 1, n. 23308 del 18/11/2014, Savasta, Rv. 263601; Sez. 3, n. 43322 del 02/07/2014, Sisti, Rv. 260994, secondo cui la condizione della specifica indicazione degli “altri atti del processo”, con riferimento ai quali, l’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., configura il vizio di motivazione denunciabile in sede di legittimità, può essere soddisfatta nei modi più diversi – quali, ad esempio, l’integrale riproduzione dell’atto nel testo del ricorso, l’allegazione in copia, l’individuazione precisa dell’atto nel fascicolo processuale di merito -, purché detti modi siano comunque tali da non costringere la Corte di cassazione ad una lettura totale degli atti, dandosi luogo altrimenti ad una causa di inammissibilità del ricorso, in base al combinato disposto degli artt. 581, comma primo, lett. c), e 591 cod. proc. pen.).
3.6. E’ necessario, pertanto: a) identificare l’atto processuale omesso o travisato; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Damiano, Rv. 249035).
3.7. Il principio di autosufficienza del ricorso trova applicazione anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 165-bis disp. att. cod. proc. pen., introdotto dall’art. 7, comma 1, d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, che si traduce nell’onere di puntuale indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l’allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato ove a ciò egli non abbia provveduto nei modi sopra indicati (Sez. 5, n. 5897 del 03/12/2020, Rv. 280419 – 01; Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019, Rv. 276432 – 01).
3.8. Tanto premesso, il travisamento delle prove non è stato correttamente dedotto.
3.9. In primo luogo, è agevole osservare, sul piano formale, che: a) trattandosi di “doppia conforme” ricostruzione del fatto, le ricorrenti non spiegano se il travisamento era imputabile al primo Giudice e se il vizio fosse stato dedotto in appello ai sensi dell’art. 581, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., né se la Corte di appello ha deciso in base a prove non indicate dal Tribunale; b) non sono state allegate al ricorso le prove delle quali si deduce il travisamento.
3.10. In secondo luogo, sul piano sostanziale, ciò che viene dedotto non è un errore di natura percettiva (la descrizione della struttura), bensì di natura valutativa relativa alla natura temporanea o meno dell’opera, valutazione che è frutto del governo logico della prova, riguarda il suo significato, non il significante (derivante, cioè, dall’uso dei termini “pilastrini”, “ancoraggio al suolo”, “chiusura sui lati”), poiché è indiscutibile che l’opera corrispondesse a quella esattamente (e conformemente) descritta in entrambi i gradi di giudizio.
3.11. Ne consegue che non sono scrutinabili le deduzioni difensive che, facendo un non consentito richiamo al contenuto delle prove, sollecitano un riesame del fatto non consentito in sede di legittimità.
3.12. In ogni caso, anche a voler ritenere che le ricorrenti lamentino, più che il travisamento, l’omessa motivazione su prove rilevanti ai fini del decidere, va comunque ricordato che l’illogicità della motivazione, come vizio deducibile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile “ictu oculi”, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).
3.13. L’omessa motivazione non può essere dedotta in Cassazione sol perché il giudice ha trascurato o disatteso degli elementi di valutazione che, a giudizio della parte ricorrente, avrebbero dovuto o potuto dar luogo ad una diversa decisione, poiché una simile deduzione si tradurrebbe nella richiesta di rivalutazione del fatto preclusa in sede di legittimità. L’omessa motivazione, quale patologia della sentenza, è configurabile, invece, unicamente quando gli elementi trascurati o disattesi abbiano un chiaro ed inequivocabile carattere di decisività, nel senso che una loro adeguata valutazione avrebbe dovuto necessariamente portare, salvo intervento di ulteriori e diversi elementi di giudizio, ad una decisione più favorevole di quella adottata (Sez. 1, n. 6922 del 11/05/1992, Cannarozzo, Rv. 190572 – 01; Sez. 2, n. 37709 del 26/09/2012, Giarri, Rv. 253445 – 01; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera, Rv. 260841 – 01, secondo cui l’obbligo di motivazione del giudice dell’impugnazione non richiede necessariamente che egli fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole argomentazioni, osservazioni o rilievi contenuti nell’atto d’impugnazione, se il suo discorso giustificativo indica le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostra di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio, sicchè, quando ricorre tale condizione, le argomentazioni addotte a sostegno dell’appello, ed incompatibili con le motivazioni contenute nella sentenza, devono ritenersi, anche implicitamente, esaminate e disattese dal giudice, con conseguente esclusione della configurabilità del vizio di mancanza di motivazione di cui all’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen.; Sez. 2, n. 46241 del 18/09/2019, Cammi, Rv. 277593 – 01).
3.14. Orbene, la descrizione strutturale dell’opera, così come operata dai giudici di merito, insieme con la descrizione della sua funzione (così come indicata da una delle ricorrenti, con affermazione non contestata in questa sede), rendono tutt’altro che decisive in senso favorevole alle ricorrenti le prove delle quali si lamenta l’omesso esame. E questo per le ragioni che saranno illustrate in sede di scrutinio dei primi tre motivi.
4. Il quinto motivo, che riguarda anch’esso la ricostruzione del fatto, è inammissibile perché manifestamente infondato.
4.1. Si deduce l’inutilizzabilità dell’informazione probatoria introdotta dalla testimonianza del geom. Vulpetti (del quale, però, si lamenta contraddittoriamente l’omessa valutazione integrale) in ordine alla esistenza della copertura a falda. L’inutilizzabilità deriverebbe dal fatto che l’informazione in questione era oggetto della testimonianza resa dal Vulpetti dinanzi a giudice diverso da quello che avrebbe poi deciso.
4.2. Il rilievo è assolutamente infondato.
4.3. La testimonianza del geom. Vulpetti era stata rinnovata dinanzi al diverso giudice-persona fisica che avrebbe poi deciso il processo. La rinnovazione della prova dichiarativa ha reso pienamente utilizzabile anche la testimonianza resa dinanzi al precedente giudice nel contraddittorio tra le parti, testimonianza il cui verbale è stato ritualmente inserito nel fascicolo del dibattimento (art. 511, comma 2, cod. proc. pen.) (Sez. U, n. 2 del 15/01/1999, Iannasso, Rv. 212395 – 01; Sez. U, n. 41736 del 30/05/2019, Bajrami, Rv. 276754 – 03).
4.4. L’eccezione è inammissibile anche sotto il profilo della sua tardività.
4.5. Nel caso di rinnovazione del dibattimento dovuta a mutamento della persona fisica del giudice, l’eventuale inutilizzabilità delle dichiarazioni acquisite nella precedente fase dibattimentale, per la cui lettura sia mancato il consenso delle parti, dev’essere eccepita con il primo atto mediante il quale si abbia la possibilità di farlo, essendo da escludere la sua rilevabilità in ogni stato e grado del procedimento, come si verifica, invece, nell’ipotesi di elementi probatori assunti in violazione di una norma di legge e pertanto affetti da un vizio intrinseco e derivante da una causa originaria (Sez. 1, n. 781 del 30/11/1999, dep. 2000, Petrilli, Rv. 215107 – 01; Sez. 5, n. 28645 del 07/05/2013, Russi, non mass. sul punto; Sez. 1, n. 18308 del 14/01/2011, Elefante, non mass. sul punto; Sez. 1, n. 5636 del 22/01/2008, Nunziata, non mass. sul punto; Sez. 2, n. 301 del 12/11/2004, dep. 2005, D’Alessandro, non mass. sul punto; Sez. 1, n. 17804 del 07/12/2001, dep. 2002, Graviano, non mass.).
4.6. Nel caso di specie, le ricorrenti non hanno mai dedotto in primo grado, tanto meno in appello, la inutilizzabilità delle dichiarazioni precedentemente rese dal Vulpetti, con conseguente inammissibilità dell’odierno quinto motivo
5. Tanto premesso, deve essere escluso che l’opera in questione possa essere qualificata alla stregua di una “pergotenda” e che non fosse “precaria”.
5.1. L’art. 6, comma 1, lett. e-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, che disciplina l’attività edilizia libera, nella versione vigente alla data di accertamento del fatto così descriveva i manufatti liberamente edificabili: «le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni, previa comunicazione di avvio lavori all’amministrazione comunale».
5.2. La norma è stata parzialmente modificata dall’art. 10, comma 1, lett. c), d.l. n. 76 del 2020, conv. con modificazioni dalla legge n. 120 del 2020, che ha esteso fino a centottanta giorni il termine finale della rimozione, termine comprensivo, però, dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto;
5.3. L’art. 3, comma 1, lett. e.1 ed e.5, d.P.R. n. 380 del 2001, all’epoca dei fatti qualificava come “interventi di nuova costruzione”: «l’ampliamento di [manufatti] esistenti all’esterno della sagoma esistente, fermo restando, per gli interventi pertinenziali, quanto previsto dalla lettera e.6» (e.1); «l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all’aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore» (e.5).
5.4. L’art. 10, comma 1, lett. b), n. 2-bis, d.l. n. 76 del 2020, cit., ha modificato la lettera e.5 dell’art. 3, escludendo dal novero degli interventi di nuova costruzione «le tende e le unità abitative mobili con meccanismi di rotazione in funzione, e loro pertinenze e accessori, che siano collocate, anche in via continuativa, in strutture ricettive all’aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, che non posseggano alcun collegamento di natura permanente al terreno e presentino le caratteristiche dimensionali e tecnico-costruttive previste dalle normative regionali di settore ove esistenti».
5.5. L’art. 3, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, stabilisce che le definizioni degli interventi edilizi prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi.
5.6. Per questo motivo, l’art. 4, comma 1-sexies, d.P.R. n. 380 del 2001, dispone che il Governo, le regioni e le autonomie locali, in attuazione del principio di leale collaborazione, concludano in sede di Conferenza unificata accordi ai sensi dell’art. 9, d.lgs. n. 281 del 1997, o intese ai sensi dell’art. 8, legge n. 131 del 2003, per l’adozione di uno schema di regolamento edilizio-tipo, al fine di semplificare e uniformare le norme e gli adempimenti. Tali accordi costituiscono livello essenziale delle prestazioni, concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
5.7. In attuazione di tale disposizione, lo Stato, le Regioni ed i Comuni hanno siglato l’intesa del 20 ottobre 2016, n. 125/CU, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 268 del 16/11/2016, che ha approvato lo schema di regolamento edilizio tipo e il quadro delle definizioni uniformi. Il punto 42 dell’intesa così definisce la veranda: «locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili».
5.8. Concorrono a definire il quadro normativo gli artt. 1, comma 2, e 2, comma 1, d.lgs. n. 222 del 25/11/2016.
5.9. L’art. 1, comma 2, così recita: «con riferimento alla materia edilizia, al fine di garantire omogeneità di regime giuridico in tutto il territorio nazionale, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, è adottato un glossario unico, che contiene l’elenco delle principali opere edilizie, con l’individuazione della categoria di intervento a cui le stesse appartengono e del conseguente regime giuridico a cui sono sottoposte, ai sensi della tabella A di cui all’articolo 2 del presente decreto».
5.10. L’art. 2, comma 1, così recita: «A ciascuna delle attività elencate nell’allegata tabella A, che forma parte integrante del presente decreto, si applica il regime amministrativo ivi indicato».
5.11. La tabella allegata al decreto legislativo in questione dedica all’attività edilizia la Sezione II, la cui sottosezione 1 effettua la ricognizione degli interventi edilizi e dei relativi regimi amministrativi. In particolare, il punto 16 riconduce all’attività edilizia libera la installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, in strutture ricettive all’aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore. Tali manufatti devono essere ricompresi in strutture ricettive all’aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore.
5.12. In attuazione dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 222, cit., il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti ha emanato il D.M. 2 marzo 2018 con cui è stato approvato il glossario contenente l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera.
5.13. Anche per il “glossario”, rientra nell’ambito della attività edilizia libera la installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, in strutture ricettive all’aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore.
5.14. Il “glossario” esclude dal novero delle attività di edilizia libera i gazebo, i pergolati e i ripostigli che siano stabilmente infissi al suolo, pur se di limitate dimensioni. Rientrano, invece, nell’attività edilizia libera le tende, le tende a pergola, le pergotende, le coperture leggere di arredo.
5.15. È opportuno evidenziare che, nelle more, con d.l. 29 maggio 2024, n. 69, convertito con modificazioni dalla legge 24 luglio 2024, n. 105, il legislatore ha modificato il d.P.R. n. 380 del 2001 e, per quanto qui rileva, l’art. 6 aggiungendo la lettera b-ter) senza però modificare la lettera e-bis).
5.16. In particolare, la lettera b-ter) (introdotta dall’art. 1, comma 1, lett. a, d.l. n. 69 del 2024) attrae nell’ambito degli interventi di edilizia libera «le opere di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici la cui struttura principale sia costituita da tende, tende da sole, tende da esterno, tende a pergola, anche bioclimatiche, con telo retrattile, anche impermeabile, ovvero con elementi di protezione solare mobili o regolabili, e che sia addossata o annessa agli immobili o alle unità immobiliari, anche con strutture fisse necessarie al sostegno e all’estensione dell’opera. In ogni caso, le opere di cui alla presente lettera non possono determinare la creazione di uno spazio stabilmente chiuso, con conseguente variazione di volumi e di superfici, devono avere caratteristiche tecnico-costruttive e profilo estetico tali da ridurre al minimo l’impatto visivo e l’ingombro apparente e devono armonizzarsi alle preesistenti linee architettoniche».
5.17. Dunque, perché non sia soggetta ad alcun regime autorizzatorio è necessario che l’opera:
a) sia funzionalmente destinata alla sola protezione dal sole e dagli agenti atmosferici;
b) sia strutturalmente (e conseguentemente) costituita esclusivamente da tende, tende da sole, tende da esterno, tende a pergola, anche bioclimatiche, con telo retrattile, anche impermeabile, ovvero con elementi di protezione solare mobili o regolabili;
c) sia addossata o annessa agli immobili o alle unità immobiliari, anche con strutture fisse necessarie al sostegno e all’estensione dell’opera;
d) non determini la creazione di uno spazio stabilmente chiuso, con conseguente variazione di volumi e di superfici;
e) abbia caratteristiche tecnico-costruttive e profilo estetico tali da ridurre al minimo l’impatto visivo e l’ingombro apparente e si armonizzi alle preesistenti linee architettoniche.
5.18. In assenza anche di una sola di queste condizioni, l’opera non può essere considerata come soggetta a edilizia libera.
5.19. Appare allora chiaro, anche alla luce del novum legislativo, che l’installazione di manufatti leggeri non destinati alla sola protezione dal sole e dagli agenti atmosferici ma stabilmente utilizzati, come nel caso di specie, come ambienti di lavoro, depositi o magazzini, con creazione di uno spazio stabilmente chiuso a servizio di esigenze tutt’altro che temporanee, costituisca intervento di “nuova costruzione” soggetto a permesso di costruire.
5.20. Il che è coerente con la definizione di “interventi di nuova costruzione” data, come visto, dall’art. 3, comma 1, lett. e.5), d.P.R. n. 380 del 2001, che ancor oggi qualifica come tali i “manufatti leggeri, anche prefabbricati” che siano utilizzati come ambienti di lavoro, depositi o magazzini e non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee. La natura permanente dell’esigenza cui l’opera è asservita costituisce criterio legale di qualificazione dell’opera stessa come nuova costruzione siccome ope legis ritenuta tale da determinare la trasformazione edilizia e urbanistica del territorio.
6. La natura “precaria” dell’opera, dunque, non deriva dalla tipologia dei materiali impiegati per realizzarla, né dalla sua facile rimovibilità, bensì dalla natura delle esigenze che essa intende soddisfare. Ciò è chiaramente evincibile dal tenore testuale degli artt. 3, comma 1, lett. e.5, e 6, comma 1, lett. e-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, nei quali si fa esplicito riferimento alle «esigenze meramente temporanee» (art. 3) e alle «esigenze contingenti e temporanee» (art. 6). La natura temporanea e contingente delle esigenze non è di per sé sufficiente a sottrarre l’opera al regime “concessorio” se la stessa non sia comunque di facile amovibilità. Lo stabile e permanente collegamento al terreno esclude sempre la natura precaria dell’opera; lo si evince chiaramente dal fatto che anche le “unità abitative mobili”, per non essere considerate “nuove costruzioni”, devono comunque essere dotate di meccanismi di rotazione funzionanti e non devono essere collegate al terreno in maniera permanente (art. 3, lett. e.5, seconda parte). Il che si spiega con il fatto che le opere destinate a soddisfare esigenze non temporanee e quelle comunque stabilmente collegate al suolo condividono con gli “interventi di nuova costruzione” la loro attitudine alla trasformazione edilizia e urbanistica del territorio in via permanente. Prova ne sia che le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, sono soggette ad attività edilizia libera a condizione che siano tempestivamente rimosse al cessare dell’esigenza: l’opera “precaria” non rimossa è una “nuova costruzione” e necessita, in quanto tale, di permesso di costruire.
6.1. Questi concetti sono stati costantemente e ripetutamente affermati dalla Corte di cassazione, secondo la quale per definirsi precario un immobile, tanto da non richiedere il rilascio di un titolo abilitativo, è necessario ravvisare l’obiettiva ed intrinseca destinazione ad un uso temporaneo per specifiche esigenze contingenti, non rilevando che esso sia realizzato con materiali non abitualmente utilizzati per costruzioni stabili (Sez. 3, n. 5821 del 15/01/2019, Dule, Rv. 275697 – 01; Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni, Rv. 267759 – 01; Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, Manfredini, Rv. 261636 – 01; Sez. 3, n. 22054 del 25/02/2009, Frank, Rv. 243710 – 01; Sez. 3, n. 20189 del 21/03/2006, Cavallini, Rv. 234325 – 01; Sez. 3, n. 24898 del 04/04/2003, Nagni, Rv. 225380 – 01; per meno recenti affermazioni degli stessi principi, si vedano ex plurimis: Sez. 3, n. 5326 del 25/02/1994, Alzetta, Rv. 197451 – 01, secondo cui rientrano nella previsione delle norme urbanistiche e richiedono la concessione dell’autorità comunale non solo i manufatti tradizionalmente compresi nelle attività murarie, ma anche le opere di qualsiasi genere, nel suolo o sul suolo, senza che abbia rilevanza giuridica il mezzo tecnico con cui si sia assicurata la stabilità del manufatto (infissione o appoggio al suolo), in quanto la stabilità non va confusa con l’inamovibilità della struttura o con la perpetuità della funzione ad essa assegnata dal costruttore, ma si estrinseca nell’oggettiva destinazione dell’opera a soddisfare un bisogno non provvisorio, ossia nell’attitudine ad una destinazione che non abbia il carattere della precarietà, cioè non sia temporanea o contingente; Sez. 3, n. 6553 del 19/10/1987, Salis, Rv. 178514 – 01, secondo cui ai fini della ricorrenza del requisito della precarietà di una costruzione, che esclude la necessità della concessione edilizia, si deve prescindere dalla temporaneità della destinazione subiettivamente data all’opera dal costruttore e valutare l’opera medesima alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione naturale, indipendentemente dalla facilità o meno della sua futura demolizione; Sez. 3, n. 9847 del 10/07/1984, Cameli, Rv. 166585 – 01, secondo cui un’opera è precaria quando sia destinata ad un uso temporaneo e limitato e non quando possa essere agevolmente rimossa; Sez. 3, n. 15496 del 26/09/1978, Delfino, Rv. 140534 – 01, secondo cui la natura del materiale usato per una costruzione non costituisce di per sé elemento decisivamente influente per stabilire il carattere precario o non del manufatto).
7. Le ricorrenti invocano l’applicazione dell’art. 3, legge reg. Sicilia 10 agosto 2016, n. 16, che ha recepito, con modifiche, gli artt. 6 e 6-bis d.P.R. n. 380 del 2001.
7.1. In particolare, la lettera r) dell’art. 3 include nell’area della irrilevanza edilizia «l’installazione di pergolati, pergotende ovvero gazebi costituiti da elementi assemblati tra loro di facile rimozione a servizio di immobili regolarmente assentiti o regolarizzati sulla base di titolo abilitativo in sanatoria».
7.2. La lettera u), a sua volta, definisce come soggette a edilizia libera «le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto, previa comunicazione di avvio dei lavori all’amministrazione comunale».
7.3. Orbene, in nessun caso l’opera descritta dai Giudici di merito può essere definita alla stregua di una pergotenda.
7.4. Secondo la definizione che ne dà la giurisprudenza amministrativa la pergotenda consiste tipicamente in una struttura leggera, diretta precipuamente a soddisfare esigenze che, seppure non precarie, risultano funzionali solo a una migliore vivibilità degli spazi esterni di un’unità già esistente, tipo terrazzi e/o giardini, poiché essenzialmente finalizzate ad attuare una protezione dal sole e dagli agenti atmosferici. La pergotenda, dal punto di vista fattuale, è una struttura destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini), installabile al fine, quindi, di soddisfare esigenze non precarie; essa, dunque, non si connota per la temporaneità della sua utilizzazione, piuttosto per costituire un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo. E’ una struttura destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini), installabile al fine, quindi, di soddisfare esigenze non precarie; essa, dunque, non si connota per la temporaneità della sua utilizzazione, piuttosto per costituire un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo. Ne consegue che per poter configurare una struttura come pergotenda, occorre che la res principale sia costituita, da una tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell’unità abitativa, con la conseguenza che la struttura di supporto – per aversi realmente una pergotenda e non una costruzione edilizia necessitante di titolo abilitativo – deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario, per l’appunto, al sostegno e all’estensione della tenda; in altri termini, il sostegno della tenda deve consistere in elementi leggeri di sezione esigua, eventualmente imbullonati al suolo (purché facilmente disancorabili). La tenda poi, per essere considerato elemento di una pergotenda (e non considerarsi una “nuova costruzione”), deve essere realizzata in un materiale retrattile, onde non presentare caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti, la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, proprio per il carattere retrattile della tenda, onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie (Cons. giust. amm. Sicilia, 28/03/2024, n. 232; Cons. giust. amm. Sicilia, 23/02/2024, n. 131; Cons. giust. amm. Sicilia, 18/10/2023, n. 9063; Cons. St. Sez. II, 04/05/2022, n. 3488; Cons. St., Sez. VI, 27/04/2022, n. 3321).
7.5. La creazione di nuovi spazi chiusi o comunque di un nuovo ambiente stabile o l’incremento di superfici o di volume escludono che l’opera possa essere qualificata come “pergotenda” (Cons. St., Sez. VI, 27/04/2021, n. 3393).
7.6. Tali affermazioni si pongono in linea di continuità con quanto già affermato dal Consiglio di Giustizia Amministrativo della Sicilia, Adunanza delle Sezioni riunite del 15 novembre 2022, che, nel ribadire a sua volta la precedente giurisprudenza del giudice amministrativo, così si era espresso: «[s]econdo la condivisibile giurisprudenza «(i)n materia edilizia, gli estremi per la sussumibilità di un manufatto nella categoria della pergotenda, caratterizzata dal regime di c.d. edilizia libera, si individuano nel fatto che l’opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda» (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 9 febbraio 2021, n. 1207 e Sez. VI, 5 ottobre 2018, n. 5737). 6.1. In particolare la giurisprudenza, consolidatasi sul punto, ha ritenuto che la “pergotenda”: 1) dal punto di vista fattuale, sia una struttura destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini), installabile al fine, quindi, di soddisfare esigenze non precarie; essa, dunque, non si connota per la temporaneità della sua utilizzazione, piuttosto per costituire un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo; 2) sotto il profilo giuridico, l’installazione di una pergotenda – tenuto conto della sua consistenza, delle caratteristiche costruttive e della suindicata funzione caratterizzante – non è un’opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo atteso che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del d.P.R. n. 380/2001, sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli «interventi di nuova costruzione», che determinano una «trasformazione edilizia e urbanistica del territorio»; ne consegue che una struttura leggera destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico, secondo la configurazione standard propria delle pergotende, non integra tali caratteristiche; 3) per poter configurare una struttura come “pergotenda”, occorre che la res principale sia costituita, da una tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell’unità abitativa, con la conseguenza che la struttura di supporto – per aversi realmente una pergotenda e non una costruzione edilizia necessitante di titolo abilitativo – deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario, per l’appunto, al sostegno e all’estensione della tenda; in altri termini, il sostegno della tenda deve consistere in elementi leggeri di sezione esigua, eventualmente imbullonati al suolo (purché facilmente disancorabili); 4) la tenda poi, per essere considerato elemento di una “pergotenda” (e non considerarsi una “nuova costruzione”), deve essere realizzata in un materiale retrattile, onde non presentare caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti, la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, proprio per il carattere retrattile della tenda, «(o)nde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie»; 5) inoltre, l’elemento di copertura e di chiusura deve essere costituito da una tenda di un materiale privo di quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o di tamponatura di una costruzione (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 1 luglio 2019, n. 4472; Consiglio di Stato, sez. II, 28 gennaio 2021, n. 840; T.a.r. per il Lazio, sede di Roma, sez. II quater, 22 dicembre 2017, n. 12632). In pratica «(l)a pergotenda consiste tipicamente in una struttura leggera, diretta precipuamente a soddisfare esigenze che, seppure non precarie, risultano funzionali (solo) a una migliore vivibilità degli spazi esterni di un’unità già esistente, tipo terrazzi e/o giardini, poiché essenzialmente finalizzate ad attuare una protezione dal sole e dagli agenti atmosferici» (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 25 gennaio 2017 n. 306; T.a.r. per il Lazio, sede di Roma, sez. II bis, 3 febbraio 2020, n. 1439).
7.7. Appare dunque chiaro che la struttura con cui si crea ex novo uno spazio chiuso stabilmente asservito ad un’attività commerciale preesistente ed al fine di soddisfare le esigenze non temporanee dell’impresa, non può definirsi “pergotenda”, non essendo la struttura funzionale (solo) a una migliore vivibilità degli spazi esterni di un’unità già esistente, tipo terrazzi e/o giardini. Non si tratta, nel caso di specie, di un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, bensì di un elemento che ha creato un nuovo spazio chiuso, che ha trasformato in modo permanente un suolo inedificato, inglobandone l’area e lo spazio libero sovrastante a servizio degli interessi commerciali delle ricorrenti. Come correttamente affermato dalla Corte di appello, «il manufatto (…) era destinato a risolvere una situazione di scarsità degli spazi nei quali svolgere fasi indispensabili dell’attività imprenditoriale svolta continuativamente in quel sito».
7.8. Si aggiunga che nel caso di specie, la struttura era coperta con materiale fisso in lamiera, il che esclude, strutturalmente, la possibilità di qualificare l’opera come “pergotenda”.
7.9. Le ricorrenti invocano la giurisprudenza della Corte di cassazione secondo cui la natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di spazi e superfici per le quali l’art. 20 legge Regione Sicilia 16 aprile 2003, n. 4, non richiede concessione e/o autorizzazione va intesa secondo un criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell’opera, e non funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell’uso, sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente previsti (Sez. 3, n. 8734 del 24/11/2022, dep. 2023, D’Accardi, Rv. 284202 – 01; Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, Gulizzi, Rv. 261156 – 01; Sez. 3, n. 16492 del 16/03/2010, Pennisi, Rv. 246771 – 01; Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007, Camarda, Rv. 237533 – 01).
7.10. La facile rimovibilità dell’opera, affermano, depone a favore della sua precarietà strutturale.
7.11. Sennonché, l’invocata giurisprudenza si è formata sulla interpretazione dell’art. 20, legge reg. Sicilia, n. 4 del 2003, che disciplina unicamente la chiusura di terrazze di collegamento oppure di terrazze non superiori a metri quadrati 50 e/o la copertura di spazi interni con strutture precarie e la chiusura di verande o balconi con strutture precarie, fattispecie tutt’affatto diverse da quelle oggetto di odierna regiudicanda con conseguente inapplicabilità di tali principi.
7.12. Va piuttosto sottolineato che la stessa Regione Sicilia nel recepire gli artt. 6 e 6-bis d.P.R. n. 380 del 2001 ha comunque escluso dal regime dell’edilizia libera le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze non contingenti né temporanee (art. 3, lett. u, legge reg. Sicilia, n. 16 del 2016) escludendo, di conseguenza, la rilevanza del solo criterio strutturale al di fuori degli stretti limiti e casi indicati dall’art. 20, legge reg. Sicilia n. 4 del 2003, cit., nessuno dei quali – come detto – qui ricorrente.
8. Le considerazioni che precedono militano a favore della manifesta infondatezza del secondo motivo che postula la precarietà strutturale dell’opera e la sua assimilazione alle pergotende e ciò a prescindere dal fatto che una circolare amministrativa non costituisce fonte di diritto, non può modificare il testo di una norma di fonte primaria o secondaria e che, ai fini della applicazione della normativa antisismica, rilevano dati diversi da quelli che riguardano la conformità urbanistica dell’opera e la sua classificazione ai sensi dell’art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001.
9. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
9.1. Quanto al profilo dell’elemento soggettivo, è necessario distinguere la scusabilità dell’errore di diritto dalla buona fede nelle contravvenzioni.
9.2. Con riferimento alla scusabilità dell’errore di diritto, non si può prescindere da Corte cost., sent. n. 364 del 1988 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 cod. pen. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile. Secondo il Giudice delle leggi, il comma primo dell’art. 27 Cost. (“La responsabilità penale è personale”) – interpretato in relazione al comma terzo dello stesso articolo ed agli artt. 2, 3, commi primo e secondo, 73, comma terzo, e 25, comma secondo, Cost. – non soltanto richiede la “colpevolezza” dell’agente rispetto agli elementi più significativi della fattispecie tipica (e, cioè, una relazione psichica tra il soggetto e il fatto), ma anche la “effettiva possibilità di conoscere la legge penale” (e, cioè, un rapporto tra soggetto e legge), “possibilità” che rappresenta ulteriore necessario presupposto della “rimproverabilità” dell’agente e, dunque, della responsabilità penale. Consegue che l’art. 5 cod. pen., disconoscendo – secondo il diritto all’epoca vivente – ogni collegamento tra l’obbligo penalmente sanzionato e la sua “riconoscibilità” ed equiparando all’ignoranza evitabile della legge penale l’ignoranza non colpevole, e, pertanto, inevitabile, viola lo spirito dell’intera Costituzione ed i suoi essenziali principi ispiratori, che pongono la persona umana al vertice della scala dei valori. Pertanto, il suddetto art. 5 e’ costituzionalmente illegittimo – per contrasto con i parametri citati – nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile. Al fine di qualificare l’ignoranza della legge penale (o l’errore sul divieto) come inevitabile, occorre far riferimento a criteri oggettivi, cd. “puri” o “misti” (obiettiva oscurità del testo, gravi contrasti interpretativi giurisprudenziali, “assicurazioni erronee”, ecc.), tenendo conto, peraltro, di quelle particolari condizioni e conoscenze del singolo soggetto, tali da rendere l’ignoranza inescusabile, pur in presenza di un generalizzato errore sul divieto. Non può comunque ravvisarsi ignoranza inevitabile allorché l’agente si rappresenti la possibilità che il fatto sia antigiuridico, salva l’ipotesi di dubbio oggettivamente irrisolvibile (attinente, cioè, alla necessita’ di agire o non agire per evitare la sanzione). Deve, invece, di regola ritenersi che l’ignoranza sia inevitabile allorché l’assenza di dubbi sull’illiceità del fatto dipenda dalla personale non colpevole carenza di socializzazione del soggetto.
9.3. Vale la pena sottolineare questo passaggio: non può comunque ravvisarsi ignoranza inevitabile allorché l’agente si rappresenti la possibilità che il fatto sia antigiuridico, salva l’ipotesi di dubbio oggettivamente irrisolvibile (attinente, cioè, alla necessità di agire o non agire per evitare la sanzione).
9.4. Tale principio è stato ripreso da Sez. U, n. 16153 del 18/01/2024, Clemente, Rv. 286241 – 02, che ha ribadito che l’incertezza derivante da contrastanti orientamenti giurisprudenziali nell’interpretazione e nell’applicazione di una norma non abilita, da sola, ad invocare la condizione soggettiva d’ignoranza inevitabile della legge penale, atteso che il dubbio circa la liceità o meno di una condotta, ontologicamente inidoneo ad escludere la consapevolezza dell’illiceità della medesima, deve indurre l’agente ad un atteggiamento di cautela, fino all’astensione dall’azione (nello stesso senso, Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, Incardona, Rv. 269074 – 01; Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011, De Masi, Rv. 252197 – 01; Sez. 6, n. 6991 del 25/01/2011, Sirignano, Rv. 249451 – 01; Sez. 3, n. 28397 del 16/04/2004, Giordano, Rv. 229060 – 01, secondo cui la esclusione di colpevolezza per errore di diritto dipendente da ignoranza inevitabile della legge penale può essere giustificata da un complessivo e pacifico orientamento giurisprudenziale che abbia indotto nell’agente la ragionevole conclusione della correttezza della propria interpretazione normativa; ma in caso di giurisprudenza non conforme o di oscurità del dettato normativo sulla regola di condotta da seguire non è possibile invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile, atteso che in caso di dubbio si determina l’obbligo di astensione dall’intervento e dell’espletamento di qualsiasi utile accertamento per conseguire la corretta conoscenza della legislazione vigente in materia).
9.5. Prima ancora, Sez. U, n. 8154 del 10/06/1994, Calzetta, Rv. 197885 – 01, all’indomani della pronuncia del Giudice delle leggi, aveva ritenuto di stabilire quali fossero i limiti della inevitabilità dell’ignoranza incolpevole affermando che per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una “culpa levis” nello svolgimento dell’indagine giuridica. Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto.
9.6. Più in generale, con riferimento alla buona fede nelle contravvenzioni, è stato più volte affermato il principio secondo il quale la cosiddetta “buona fede” è configurabile ove la mancata coscienza dell’illiceità del fatto derivi non dall’ignoranza dalla legge, ma da un elemento positivo e cioè da una circostanza che induce nella convinzione della sua liceità, come un provvedimento dell’autorità amministrativa, una precedente giurisprudenza assolutoria o contraddittoria, una equivoca formulazione del testo della norma (Sez. 3, n. 29080 del 19/03/2015, Palau, Rv. 264184 – 01; Sez. 3, n. 49910 del 04/11/2009, Cangialosi, Rv. 245863 – 01; Sez. 3, n. 172 del 06/11/2007, Picconi, Rv. 238600 – 01; Sez. 3, n. 4951 del 17/12/1999, Del Cuore, Rv. 216561 – 01; Sez. 3, n. 8860 del 01/07/1993, Lelli, Rv. 197013 – 01; Sez. 3, n. 2336 del 31/01/1992, Santori, Rv. 189453 – 01).
9.7. È stata così esclusa la rilevanza, ai fini della scusabilità dell’errore, del “fatto negativo”, quale la mancata rilevazione, da parte degli organi di vigilanza e controllo, di irregolarità da sanare (Sez. 3, n. 42021 del 18/07/2014, Paris, Rv. 260657 – 01; Sez. 3, n. 11170 del 03/10/1984, Borchietto, Rv. 167115 – 01).
9.8. Nel caso di specie non ricorre alcuna delle condizioni che rendono scusabile l’errore o legittimano comunque la buona fede delle ricorrenti.
9.9. Ed invero: a) la giurisprudenza della Corte di cassazione ha univocamente interpretato l’art. 20 legge reg. Sicilia n. 4 del 2003, nei termini sopra indicati chiaramente non applicabili al caso di specie; b) l’opera non risponde in alcun modo alla definizione di “pergotenda” costantemente elaborata dal Giudice amministrativo nazionale e siciliano nella sua massima composizione; c) la circolare interpretativa dell’Ufficio del Genio civile di Trapani, Regione Sicilia, faceva riferimento alle “pergotende”; d) la sentenza del Tribunale di Trapani che aveva assolto un’altra persona in situazione analoga è stata pronunciata almeno tre anni dopo l’accertamento dell’odierno fatto e non è certo di per sé idonea a costituire il convincimento della liceità della condotta, quanto, semmai, a insinuarne un irrilevante dubbio; e) le ricorrenti per ribadire l’esistenza della pergotenda hanno (mal) dedotto un inesistente travisamento delle prove.
9.10. A questi argomenti deve aggiungersene un altro: il committente dei lavori è costituito garante ex lege della conformità dell’opera alla normativa urbanistica e alle previsioni di piano (art. 29, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001). Ciò comporta uno specifico dovere di diligenza ed un onere di informazione richiesti in misura di gran lunga maggiore rispetto al comune cittadino dovendo, l’autore dell’abuso, dimostrare di aver fatto tutto il possibile per conformare il proprio comportamento alle disposizioni di legge, prova che nel caso di specie non è stata non solo fornita, ma nemmeno dedotta.
10. Il sesto motivo è generico e manifestamente infondato.
10.1. La Corte di appello ha negato l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto avuto riguardo: a) all’entità dell’opera; b) alla pluralità delle violazioni (evidente l’errore materiale contenuto nella sentenza che invece di far riferimento alla normativa urbanistico-edilizia ha fatto riferimento a quella paesaggistica, in aggiunta, ovviamente, a quella che disciplina l’edilizia in zona sismica); c) alla circostanza che sia stata realizzata su suolo pubblico comunque non dato in concessione.
10.2. Si tratta di motivazione non sindacabile in questa sede, di certo non mediante la sollecitazione di una inammissibile rivalutazione degli indici fattuali dai quali la Corte territoriale ha escluso la esiguità del danno (o del pericolo di danno) agli interessi urbanistico-edilizi-sismici gravanti sull’area.
10.3. Le ricorrenti insistono nel proporre l’argomento della precarietà strutturale dell’opera, della leggerezza del materiale utilizzato, dell’insussistenza del pericolo sismico, delle ridotte dimensioni dell’opera, della occupazione limitata, nel tempo e nello spazio, di un’area pubblica. Aggiungono, poi, con deduzioni fattuali ed argomenti assolutamente nuovi, che l’area occupata solo in parte era abusiva (siccome quella occupata dal chiosco non esauriva l’intera superficie data in concessione) e sottolineano la natura episodica del fatto.
10.4. Nessuno di questi argomenti prova la manifesta illogicità del ragionamento della Corte di appello.
10.5. Le caratteristiche costruttive dell’opera non rendono di per sé esiguo il danno (o il pericolo di danno) urbanistico, l’insussistenza del pericolo urbanistico costituisce postulato assolutamente privo di fondamento, non è vero che il fatto aveva natura episodica essendo stata l’opera realizzata a servizio permanente di un’attività imprenditoriale, con conseguente abusivo asservimento di un’area pubblica alle esigenze di un’attività privata (peraltro la deduzione difensiva contrasta con quanto dedotto a sostegno dell’ultimo motivo, ove si sostiene la realizzazione dell’opera addirittura dal 2017). Inoltre, a distanza di quasi un anno dall’accertamento dell’abuso, l’opera non era stata ancora smantellata, a riprova della persistente (e tutt’altro che esigua) lesione degli interessi pubblici gravanti sull’area.
10.6. Va pertanto ribadito il principio di diritto (del quale la Corte di appello ha fatto buon governo) secondo il quale, ai fini della applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la consistenza dell’intervento abusivo – data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive – costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la destinazione dell’immobile, l’incidenza sul carico urbanistico, l’eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l’impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più disposizioni, l’eventuale collegamento dell’opera abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall’amministrazione competente, le modalità di esecuzione dell’intervento (Sez. 3, n. 19111 del 10/03/2016, Rv. 266586 – 01, che ha escluso la ricorrenza della speciale causa di non punibilità nel caso di concorrente violazione di legge urbanistica, antisismica e in materia di conglomerato in cemento armato; nello stesso senso, già Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, Rv. 265450 – 01).
10.7. Nel caso di specie, come detto, l’opera era stata abusivamente realizzata in violazione della normativa urbanistica e antisismica, su suolo pubblico, a permanente servizio dell’attività di impresa, e a distanza di un anno dall’accertamento non era stata ancora rimossa (ad onta della sua facile amovibilità).
11. L’ultimo motivo è inammissibile perché si fonda su deduzioni di fatto non devolute in appello (con conseguente manifesta infondatezza della denunziata mancanza di motivazione).
11.1. I reati sono stati accertati il 7 dicembre 2018; la sentenza impugnata è stata pronunciata il 27 settembre 2023, ben prima del termine di prescrizione quinquennale del reato, termine che, tenuto conto dei 64 giorni di sospensione dell’attività giudiziaria per effetto dell’emergenza COVID (dal 09/03/2020 all’11/05/2020, ai sensi dell’art. 83, comma 2, d.l. n. 18 del 2020, conv. con modificazioni dalla legge n. 27 del 2020, come modificato dall’art. 36, comma 1, d.l. n. 23 del 2020, conv. con modificazioni dalla legge n. 40 del 2020), è maturato il 9 febbraio 2024.
11.2. Le ricorrenti deducono che l’opera è stata realizzata in epoca anteriore alla data dell’accertamento del fatto e, in particolare, tra il 17 giugno 2017 e la fine del mese di ottobre 2018. Ciò, affermano, è desumibile dalle immagini estrapolate da Google Earth (prodotte dal Pubblico ministero all’udienza dell’8 ottobre 2020), dalle loro stesse dichiarazioni e da quelle del testimone Giacalone Paolo.
11.3. Si tratta, come detto, di allegazioni fattuali non ammesse in sede di legittimità perché mai devolute in appello pur avendo potuto esserle perché, a prender per buona la deduzione difensiva, il reato si sarebbe prescritto già nel mese di agosto 2022 (se fosse vero che l’opera risale addirittura al giugno 2017) e dunque prima della proposizione dell’appello.
11.4. La deduzione difensiva sconta anche una evidente contraddizione intrinseca poiché la sua collocazione nel periodo 31 ottobre/1 novembre 2018 (in vista del periodo della festività di tutti i santi e della commemorazione dei defunti) sposta il termine prescrizionale ad epoca successiva all’odierna pronuncia, sicché non si vede su quale argomento la Corte di appello avrebbe dovuto motivare.
12. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi (che osta alla rilevazione della prescrizione maturata dopo la sentenza impugnata) consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., essendo essa ascrivibile a colpa delle ricorrenti (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente nella misura di € 3.000,00. Il Collegio intende in tal modo esercitare la facoltà, introdotta dall’art. 1, comma 64, legge n. 103 del 2017, di aumentare, oltre il massimo edittale, la sanzione prevista dall’art. 616 cod. proc. pen. in caso di inammissibilità del ricorso considerate le ragioni della inammissibilità stessa come sopra indicate.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 12/09/2024.
(foto da Pugliain.net, S.D., archivio GrIG)