IL LIBRO NERO DI GAZA

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Intervista ad Agnès Levallois*

Agnès Levallois, consulente specializzata in Medio Oriente e vicepresidente di iReMMO [Institute Research And Studies Mediterranean Moyen-Orient – Parigi], ha pubblicato lo scorso ottobre Il libro nero di Gaza (Threshold), il cui obiettivo principale sono i fatti. Basato su una raccolta di rapporti di organizzazioni internazionali, palestinesi e israeliane, questo libro offre una visione globale della drammatica situazione a Gaza, non solo dal 7 ottobre 2023, ma anche ben prima. Ogni capitolo esplora un tema specifico – il blocco, l’uso sproporzionato delle armi, il prendere di mira la popolazione civile – e si apre con l’analisi di un esperto in materia.

In chiusura, la testimonianza di Rami Abou Jamous, giornalista palestinese residente a Gaza, ci ricorda che dietro le statistiche ci sono vite umane. Se l’obiettivo principale di questo lavoro è trasmettere informazioni, la sua vera “ossessione”, secondo Levallois, è lottare contro l’invisibilità dei palestinesi.

D. Perché ha deciso di realizzare questo lavoro?

R. Di fronte agli avvenimenti di Gaza, l’allora direttore di Le Seuil ritenne essenziale documentare questa guerra, soprattutto perché si svolgeva sotto blocco, con il rischio che rimanesse interamente a porte chiuse. Detto questo, definire questo blocco inattaccabile non è del tutto esatto: sul posto sono presenti giornalisti palestinesi e, grazie al loro lavoro, le informazioni continuano a circolare, anche se operano in condizioni estremamente pericolose. Dall’inizio della guerra sono stati uccisi più di 180 giornalisti, questo prova che Israele cerca di impedire alla stampa di svolgere il proprio lavoro.

L’obiettivo principale di questo libro era documentare e raccogliere fatti basati sulle fonti disponibili, in particolare il lavoro dei giornalisti presenti sul posto e delle ONG attive nella regione, al fine di comprendere meglio la posta in gioco all’interno di Gaza. Volevamo evitare che Gaza rimanesse un “buco nero”, una situazione che già esisteva prima. È per questo motivo che il primo rapporto del libro si concentra sulla situazione a Gaza prima del 7 ottobre, per dimostrare che una politica di blocco e occupazione era già in atto.

D. Nell’introduzione, discute dell’invulnerabilità di Israele e spiega che, prima del 7 ottobre 2023, l’esercito e il governo israeliani concentravano i loro sforzi sulla Cisgiordania pur percependo, o sapendo, di essere militarmente superiori. Secondo lei, questo sentimento di invulnerabilità, si spiega con la portata degli attentati del 7 ottobre, insieme allo stupore che ne è seguito, sia in Israele che nella risposta militare, improntata all’idea di vendetta?

R. Israele, come sappiamo, è uno Stato coloniale e si percepisce sempre come il più forte, perché ha la forza di affrontare una popolazione colonizzata, la quale non ha gli stessi mezzi per difendersi. Sono convinta che la reazione di Israele dopo il 7 ottobre nasca da questo sentimento di impunità: “noi che siamo i più forti, noi che consideriamo questi palestinesi come animali umani, quindi subumani, perché sono un popolo colonizzato, beh non possiamo sopportare una cosa del genere”. La reazione è stata di sbalordimento nel rendersi conto che questa cosiddetta forza di Israele, costantemente ripetuta, era semplicemente crollata.

Ed è per questo che parlo di vendetta infinita, di sentimento di sete di vendetta, di follia omicida.

D. Questa guerra non è anche il desiderio di Israele di ricreare questo senso di invulnerabilità?

R. Ovviamente. E in questo vediamo chiaramente che per Netanyahu questa deterrenza deve essere ristabilita. E vado oltre. Penso che oggi farei un’introduzione al libro che andrebbe molto oltre, visto il deterioramento della situazione, con la guerra che si estende al Libano. In questo contesto, per Netanyahu, l’idea è dire a tutte le popolazioni attorno a Israele “vedete cosa sta succedendo (a Gaza), può succedere a voi, e lo stiamo facendo adesso in Libano, lo stiamo facendo a Gaza, in Cisgiordania, potremmo addirittura arrivare fino all’Iran”. L’obiettivo è paralizzare tutte le società della regione per 10, 15, 20 anni.

Rony Brauman, nella sua prefazione, ricorda il fatto che per le cancellerie occidentali, prima del 7 ottobre, si trattava di un “periodo calmo”, vale a dire un periodo durante il quale non si sono registrate vittime israeliane. Non sarebbe rilevante contestualizzare ulteriormente la cosa? In effetti, molti hanno affermato che nei mesi precedenti gli attacchi del 7 ottobre avevano la sensazione che qualcosa stesse per accadere. Si pensava che probabilmente sarebbe arrivato dalla Cisgiordania, dove bilancio delle vittime palestinesi era in quel periodo senza precedenti dalla seconda Intifada.

Prima del 7 ottobre, per gli israeliani, Gaza non esisteva più. C’era la barriera di sicurezza, nella cui costruzione erano stati investiti un miliardo di dollari. Si sentivano sicuri perché, secondo loro, i palestinesi, considerati subumani, erano incapaci di fare qualsiasi cosa. Quindi sono stati confinati in questa prigione a cielo aperto, dietro la barriera, con mezzi di controllo rafforzati. Era, in un certo senso, un modo per sentirsi in pace.

Quando si guardano i cosiddetti “allarmi” (riguardanti l’attacco del 7 ottobre), si potrebbe pensare che alcuni agenti dell’intelligence abbiano visto cose sospette, ma questa informazione è stata ignorata. Penso che per questo governo in particolare fosse inimmaginabile che una tale minaccia provenisse da Gaza. Si è concentrato sulla Cisgiordania.

Per i leader israeliani, i palestinesi non sono esseri umani sullo stesso piano degli israeliani. Questa è la natura stessa di ogni potenza coloniale, che mantiene un sentimento di superiorità così forte da non percepire nemmeno la realtà che è davanti ai suoi occhi.

D. Da anni assistiamo agli sforzi di Israele per dimenticare la questione palestinese. In che modo questa guerra contribuisce alla strategia di cancellarla e quindi, in definitiva, al desiderio di eliminare il popolo palestinese?

R. Penso, e so che è difficile dirlo senza mezzi termini, che il 7 ottobre sia stata l’occasione per questo governo di far scomparire una volta per tutte la questione palestinese. Lo abbiamo visto con la reazione dei ministri di estrema destra, che hanno subito giocato e cercato di sfruttare questo momento drammatico e mostruoso. Ciò si traduce in un obiettivo chiaro: utilizzare gli attentati del 7 ottobre come pretesto per eliminare i palestinesi. Uno dei ministri di Netanyahu lo ha detto chiaramente: “Stiamo finendo il lavoro del ‘48”. È chiaro, nitido e preciso. Nonostante tutto, queste osservazioni non provocano alcuna reazione.

D. Nel libro si pubblicano rapporti che contengono dati spesso descritti dai media come “quelli di Hamas”. Cosa ne pensa di questa definizione?

R. Questo libro si basa, ma non solo, sui dati forniti dal Ministero della Salute della Striscia di Gaza, territorio controllato da Hamas, facendo leva su un fatto che trovo molto rilevante: durante i precedenti conflitti nella Striscia di Gaza, nel 2008-2009 e nel 2014 in particolare, le cifre comunicate da questo ministero sono sempre state confermate dalle indagini successive, quando queste hanno potuto svolgersi, in particolare dall’ONU. Inoltre, i dati trasmessi sono spesso sottostimati. È importante chiarirlo per chi se lo chiede: questi dati riguardano solo le persone identificate e dichiarate morte nelle strutture sanitarie. Ciò significa che le migliaia di persone scomparse, molte delle quali probabilmente morte e le vittime ancora sotto le macerie, non sono incluse.

Quando Netanyahu dice che di certo non ci sono 43mila morti, e che questo è ovviamente esagerato, in realtà è il contrario. Quando si parla con i soldati, in particolare Guillaume Ancel, spiega che data la potenza delle bombe e l’intensità dei bombardamenti, è ovvio che il numero delle vittime deve essere moltiplicato per 3 o 4.

Ecco perché, durante i dibattiti ai quali prendo parte, non lascio mai passare questa questione e ci torno sistematicamente, perché sono stanca di questa idea secondo la quale un’informazione proveniente da Hamas non sarebbe automaticamente credibile, giudizio che si radica nella mente di così tante persone. Parlo di indecenza quando si tratta di questa battaglia di cifre, e sottolineo questo termine, perché è profondamente indecente cavillare su questi dati quando l’entità del danno e della catastrofe è lampante.

D. Sono numerose le organizzazioni e i media citati nel libro la cui legittimità e credibilità sono sotto attacco, sia in Israele che in alcuni Paesi occidentali. Qual è la sua opinione su questo fenomeno?

R. Penso che sia assolutamente drammatico. Ma questo fa parte, come sempre, della stessa strategia israeliana. Quando ci sono critiche, qualsiasi siano, comprese quelle dell’ONU, dovrebbero essere bandite, puntando sempre sul registro dell’antisemitismo.

Il fatto che Netanyahu abbia potuto dire dal podio dell’ONU che questa organizzazione era una “palude antisemita” e questo non ha provocato alcuna reazione… Questa frase mi perseguita. Lo trovo assolutamente drammatico. Quando un capo di governo può dire questo dal palco dell’ONU, l’organizzazione più universale la cui missione è mantenere la pace e la sicurezza internazionale, e non succede nulla, perché dovrebbe fermarsi? È una guerra contro tutti, contro tutto ciò che non sostiene Israele incondizionatamente.

Ciò significa che oggi Israele opera in base all’idea che finché non supportiamo il 300% di ciò che fa, siamo antisemiti e, di conseguenza, delegittimati. Ma quanto durerà? Fino a quando tutti accetteranno questo ricatto?

D. Come vede il futuro? Quali scenari prevede?

R. Quello che vedo è uno scenario in cui, nella Striscia di Gaza, Israele sembra voler riprodurre ciò che ha tentato di fare negli anni ’70 e ’80. L’idea sarebbe quella di riprendere il controllo mettendo da parte l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite responsabile dell’aiuto ai rifugiati palestinesi, facendo appello ad imprenditori privati ​​palestinesi che lavorino con gli israeliani. Questi ultimi sarebbero quindi dei collaborazionisti, il che consentirebbe a Israele di controllare completamente gli aiuti umanitari, spostando le merci dentro e fuori secondo i suoi interessi di sicurezza. Ciò creerebbe una classe di palestinesi che alla fine non durerà a lungo prima di essere eliminata, come avvenne all’epoca.

Ho l’impressione che Israele stia utilizzando ricette già utilizzate in passato, come nel 1982 in Libano, dove cercò di escludere l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Ma da allora, in Libano, con Hezbollah, la storia è diversa (alludendo all’ironia della situazione). Nel 2003, anche se non è stato direttamente Israele, gli americani hanno tentato un “cambio di regime” in Iraq… Penso che Israele stia riprendendo tutte queste soluzioni occidentali, ma che tuttavia sono fallite e hanno prodotto disastri senza precedenti, in particolare con l’emergere di Daesh.

D. Infine, nel contesto attuale, l’unico scenario possibile è lo scenario peggiore, perché Israele cerca di controllare tutto: la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, il Libano, persino alcune aree della Siria. In definitiva, il suo lavoro non costituisce anche una prova per il futuro di ciò che sta accadendo a Gaza?

R. In modo efficace. Per me, l’obiettivo era documentare la situazione in modo che nessuno potesse dire di non sapere, perché lo sappiamo. E se cerchiamo tutte le informazioni, nonostante il blocco, restano accessibili. La cosa peggiore di questo lavoro, secondo me, è che alla fine tutti gli elementi sono già conosciuti. La cosa terribile è vedere tutto messo insieme, questa catena di fatti… I fatti ci sono tutti.

Spero che per i palestinesi questo lavoro non sia banale. Inoltre, ho voluto che ogni capitolo finisse con una testimonianza di Rami Abou Jamous, un giornalista palestinese che vive a Gaza. La mia ossessione in questo libro è denunciare l’invisibilità dei palestinesi… Ogni volta sono solo numeri, e ne ho abbastanza. L’idea era di dare nomi e volti a questi numeri. Per questo ho voluto concludere ogni capitolo con questa testimonianza di Rami, per ricordarci che ci sono palestinesi, esseri umani, che vivono lì.

*Intervista ad Agnès Levallois, vicepresidente dell’Istituto di ricerche e studi sul Medio Oriente Mediterraneo (iReMMO) e consulente specializzata in Medio Oriente raccolta da Insaf Rezagui e Nitzan Perelman.

Tratto da: www.yaani.fr 

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