«Se invece il long Covid non c’entrasse nulla con il Covid?» è la domanda posta in un articolo apparso su La Verità il 2 aprile 2023. Nel pezzo si parla infatti di una «ricerca norvegese pubblicata sulla prestigiosa rivista medica Jama: stessi sintomi tra chi si è infettato e chi invece non ha mai avuto il virus». Andando a leggere l’approfondimento a pagina 9 dell’edizione cartacea, si ipotizza che il long Covid fosse «uno spauracchio usato per portare i giovani negli hub […] Un’ipotesi è che giochi un ruolo lo stress da lockdown». Insomma si tratterebbe di una patologia causata dai provvedimenti imposti per contenere il dilagare dei contagi. Abbiamo letto lo studio in oggetto.
Per chi ha fretta:
- Uno studio norvegese dai risultati preliminari è stato distorto per sostenere che il long Covid non esiste.
- In realtà gli autori non negano affatto che i casi di long Covid possano essere collegati alla Covid-19, specialmente nei soggetti precedentemente ospedalizzati.
- I ricercatori, ammettendo i limiti del loro lavoro, suggeriscono che solo alcuni casi possano essere dovuti ad altri fattori legati alle limitazioni avvenute durante la pandemia, senza dimostrarlo.
Analisi
Come vedremo quanto suggerito realmente dai ricercatori norvegesi non corrisponde esattamente alla versione riportata da La Verità. Il loro lavoro – per come è stato svolto – non può essere considerato rilevante nel rovesciare quanto sappiamo del fenomeno.
Sono stati selezionati ben 78 potenziali fattori di rischio – spiega l’autore – per lo sviluppo dei temuti postumi del contagio da Sars-Cov-2 […] si è scoperto che i disturbi erano presenti nel 49% dei ragazzi infettati, ma anche nel 47% di quelli risultati sempre negativi. Ergo, non aveva granché a che vedere con il virus cinese.
Vengono riportati anche alcuni virgolettati tratti dallo studio in oggetto, dove per Post–COVID-19 Condition (Pcc) si intende il long Covid:
La Pcc non era associata a marcatori biologici specifici dell’infezione virale, ma alla gravità iniziale dei sintomi e a fattori psicologici. [la dicitura dell’OMS, Ndr] comprende qualunque sintomo ricorra come postumo del Covid acuto, non richiede la persistenza del sintomo dall’evento infettivo e non identifica una disabilità significativa.
I limiti della ricerca
Lo studio si basa sui risultati raccolti da alcune centinaia di giovani positivi e un gruppo ancor più ridotto di soggetti negativi come gruppo di controllo. Riguarda persone non ospedalizzate, ovvero quelle che (stando a come spiegano gli stessi ricercatori) mediamente ci aspettiamo abbiano meno probabilità di sviluppare i sintomi del long Covid. «Il basso numero di individui nel gruppo di controllo ha ridotto il potere statistico», ammettono gli stessi ricercatori.
Ma i limiti non finiscono qui. Non sembra infatti che i volontari siano stati reclutati con tutti i crismi. Leggiamo cosa riportano gli stessi autori in merito (il grassetto è nostro):
Una limitazione alla validità esterna, condivisa con studi simili su individui non ospedalizzati, è che il nostro studio era soggetto a bias di autoselezione. Non possiamo escludere che il nostro campione fosse distorto rispetto a ciò che abbiamo descritto come fattori di stress indiretti, ovvero che gli individui che hanno scelto di arruolarsi nel gruppo di controllo presentassero più sintomi rispetto alla popolazione di base. Inoltre, non è chiaro fino a che punto i risultati del presente studio siano applicabili a quelli con COVID-19 acuto più grave, poiché i sintomi persistenti sembrano essere più comuni e sono stati trovati associati ad altri fattori di rischio nei pazienti ospedalizzati. Inoltre, il presente studio ha incluso solo i giovani, con la grande maggioranza infettati dalla variante Alpha di SARS-CoV-2, quindi la generalizzabilità a gruppi di età più avanzata e ad altre varianti virali è incerta.
Tutta colpa dei lockdown?
Per quanto riguarda la possibilità che il long Covid sia un fenomeno “psicosomatico”, ovvero, dovuto alle restrizioni del lockdown, La Verità sembra esagerare nel riportare i suggerimenti dei ricercatori, che andrebbero letti nella loro interezza. Ecco cosa scrivono nelle conclusioni del paper:
Questi risultati suggeriscono che i fattori spesso etichettati come psicosociali dovrebbero essere considerati fattori di rischio per i sintomi persistenti. Ciò non implica che il PCC sia “tutto nella mente” o che la condizione abbia un’eziologia psicologica omogenea.
Conclusioni
Come spesso accade un singolo studio di scarsa rilevanza rispetto al resto della letteratura scientifica è stato preso e usato per diffondere informazioni esagerate anche rispetto a quanto riportato dagli stessi autori e senza tener conto dei limiti che loro stesso hanno riportato.
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