IL PERENNE FUGGIRE

1 year ago 60

di Domenico Quirico

Ritirarsi. Anzi no: fuggire scappare darsela a gambe. Svelti… svelti…! prima che accada l’irreparabile, la trappola si chiuda. L’orribile parola incombe: allarme rosso, evacuazione dei concittadini, in ogni modo in elicottero aereo in bus sui camion a piedi. E’ diventata un capitolo della storia dell’Occidente, una tecnica militare da studiare nelle accademie, un rito, un codice di condotta da imparare a memoria perché prima o poi succederà a chi di noi occidentali vive e lavora in luoghi pericolosi. Già: da un po’ di tempo scappiamo sempre. Una volta anche nelle mischie più confuse, rivoluzioni golpe sommosse, dove orde di avventurieri irrequieti cercavano la guerra, il bottino, il disordine, le ambasciate occidentali restavano orgogliosamente aperte, funzionanti, bandiere al vento: chi avrebbe osato attaccare l’America la Francia l’Inghilterra?  Li proteggeva il mito della nostra forza invincibile, la paura della punizione. I quartieri delle legazioni occidentali erano isole di sicurezza nel mare tempestoso di guerre e insurrezioni; di più, l’unico rifugio per chi, sconfitto o braccato, doveva cercare di evitare il linciaggio, il sommario plotone di esecuzione o il lampione riservato all’impiccato.

A far scuola fu Saigon: le lugubri giornate di aprile, l’ultimatum dei viet all’ambasciatore Martin, avete 24 ore per andarvene, un veterano vietcong, Cong Thanh, guidava la sua divisione verso la città del potere, quartiere dopo quartiere piccole battaglie feroci, conosceva le strade aveva partecipato alla offensiva del Tet nel 1968, questa volta non si sarebbe ritirato. Gli uomini della Cia nella sala controllo ascoltavano muti, umiliati, tra sibili e fischi le richieste di aiuto che arrivavano da tutto il Vietnam: ho combattuto con voi, per voi… salvateci… Al largo la settima flotta con le sue sei portaerei incrociava a simboleggiare la impotenza del gigante. I caccia gettati negli hangar per far posto agli elicotteri che portavano via i fuggiaschi…

Poi ci fu Kabul, l’aeroporto del caos. Trenta anni dopo lo stesso copione.

Ormai bisogna sempre esser pronti, il kit del fuggiasco occidentale, lo zainetto leggero con l’indispensabile, meglio dormire già vestiti, il telefonino sempre acceso, sperando disperatamente che continui a funzionare, imparare a memoria le parole d’ordine: quando si andrà, i luoghi di raccolta, come non richiamare l’attenzione di miliziani e saccheggiatori. Si sente fischiar l’odio per le strade come l’acqua su un focolare rovente. L’occidentale è sempre un buon sfogo. Alle ambasciate intanto ore febbrili: applicare i codici di emergenza, distruggere i cifrari, rendere illeggibili i documenti con nomi di informatori, testimoni, collaboratori locali: se manca il tempo bruciar tutto nel cortile a dispetto delle aiuole fiorite e dell’erba tagliata a mano. Ultimo atto: la bandiera. Un soldato sale sul tetto, si ammaina, la ripiega con cura, l’ambasciatore la prende in custodia. Si va.

Ognuno ha i suoi metodi per portar via i connazionali, si è visto anche a Khartoum, l’Occidente qui si divide. Gli americani preferiscono il blitz, cinematografico, spettacolare: le immancabili squadre speciali che scendono dagli elicotteri, prendono possesso del terreno attorno all’ambasciata, i civili si imbarcano. Ci si ritira ma non bisogna replicare crude immagini che lasciano il segno, alludono alla sconfitta. Anzi: meglio che non si veda nulla. Un breve comunicato della Casa Bianca: operazione riuscita grande efficienza operativa magnifico lavoro.

Altri si rassegnano ad odissee più complicate: convogli di mezzi con sigle ben riconoscibili dell’Onu o di organizzazioni umanitarie sperando che per combattenti e miliziani indigeni significhino ancora neutralità e non una occasione per dar la caccia agli occidentali. Oppure ci cerca l’accordo con una delle parti in conflitto, quella che controlla ad esempio l’aeroporto o la parte di città e territorio da attraversare. Si contratta, qualche volta si paga. Si rischia di esser di esser manipolati. Ad esempio a Karthum il golpista, Hemetti, specialista in neppur troppo remote pulizie etniche, adesso manda tweet per rivendicare il merito della incolumità degli italiani, paese, dice lui, che gli è amicissimo. Se è falso sarebbe doveroso smentire. Se è vero è ancor peggio, perché bisogna spiegare. O forse si pensa che poiché è andata bene nessuno ci baderà?   

A Khartum niente caos con i locali che cercano disperatamente un imbarco, che si affollano attorno ai muri delle nostre ambasciate sperando che l’arca come ai tempi del diluvio lasci uno spiraglio anche a chi non ha il passaporto dai colori giusti, a chi non ha il diritto di esser salvato. Nessuna raffica di mitra su donne e bambini che fanno ressa intontiti dalla paura chiedendo di non lasciarli in mano ai nemici.

Aerei ed elicotteri si levano in volo, un ultimo sguardo alla città in guerra su cui si ammassa un cielo immobile, poi il deserto in ondulazioni gialle su cui si dipanano come rettili silenziosi interminabili ghirigori di piste e sentieri. Dall’alto non si distinguono le file dei sudanesi che scappano anche loro, a piedi, su auto sgangherate, camion stracolmi. Fine, un altro capitolo si chiude. Nelle ambasciate rimaste deserte, le stanze piene di carta, la burocratica traccia delle ritirate entrano i miliziani, si saccheggia, si porta via si gettano le cose inutili dalle finestre. Poi arriveranno i poveri, quelli senza kalashnikov per raccogliere ciò che resta. Loro son capaci di ricavare qualcosa di utile anche dagli scarti, dai rottami.

In Sudan son rimasti a rappresentare l’occidente i medici di Emergency e i missionari comboniani e salesiani. Dopo i secoli in cui gli occidentali sono venuti qui a portar via coloro che sono venuti a offrire, a dare. E forse anche in questo c’è una lezione.

Il Sudan diventa terra proibita, un altro posto del mondo in cui non abbiamo saputo affrontare la nuova violenza del ventunesimo secolo: dove la distinzione tra guerra, violazione dei diritti umani, predazione e fanatismo si è diluita e spenta. Poi scopriremo che il vincitore in fondo era meglio dello sconfitto, seppur entrambi conseguenze dello stesso sudiciume, ovvero corruzione e lotta per il potere. Tra qualche tempo riapriremo l’ambasciata. E forse la spiegazione di questo nostro fuggire perenne è tutta lì.

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