Il Sahara diventa più verde.

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fiore nella sabbia

Si, sembra incredibile, ma il Deserto del Sahara sta diventando poco alla volta più verde.

In realtà, il clima del Sahara ha subito enormi variazioni tra umido e secco negli ultimi 100 mila anni a causa di un ciclo della durata di circa 41 mila anni nel quale l’inclinazione della Terra cambia tra 22° e 24,5°.

Attualmente, nel XXI secolo, il Sahara è in un periodo secco, ma le previsioni indicano un nuovo periodo umido fra circa 15 mila anni, più o meno nel 17.000 d.C.  

E’ il risultato di varie ricerche condotte negli ultimi anni (fra queste Contrasting fast and slow intertropical convergence zone migrations linked to delayed Southern Ocean warming, Wei Liu e Altri, su Nature Climate Change, 28 giugno 2024).

Non si tratta di cambiamenti indolori, soprattutto in rapporto ai cambiamenti climatici.

Proviamo a capirne i motivi.

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

da LifeGate, 17 settembre 2024

Perché si dice che il deserto del Sahara stia diventando verde.

Quest’anno un’intensificazione delle precipitazioni nella parte settentrionale della fascia tropicale che avvolge l’Africa ha reso più verde la parte di deserto del Sahara che confina col Sahel.

“Rigoglioso”, con ampie aree verdi che invadono la fascia meridionale di uno dei deserti più caldi e aridi del mondo. È così che appare il Sahara, nel nord del continente africano, in una foto satellitare scattata il 12 settembre 2024 dal satellite Modis della Nasa, l’agenzia spaziale degli Stati Uniti, e messa a confronto con lo stesso giorno di un anno fa. Questa descrizione fa immediatamente immaginare a qualcosa di positivo, anche in virtù dell’ormai famosa Grande muraglia verde, un progetto di ripristino di un’area degradata del Sahel, di cui tanto abbiamo sentito parlare in questi anni. Eppure, la notizia di un deserto meno arido e più “lussureggiante” nasconde un risvolto decisamente meno affascinante.

Nell’espansione di una vegetazione rigogliosa verso nord, che tracima la fascia tropicale africana per riversarsi sul deserto, si nascondono eventi meteorologici estremi che hanno colpito quest’anno alcuni stati dell’Africa occidentale e centrale. Le precipitazioni che hanno spinto a una “migrazione della zona di convergenza intertropicale” – come descritto da uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature climate change – non si sono verificate sottoforma di una piacevole pioggia che ha bagnato la sabbia facendola miracolosamente fiorire. No, queste precipitazioni si sono riversate a terra sotto forma di nubifragitempeste e alluvioni che hanno causato inondazioni e grossi danni alla popolazione e ai territori di Nigeria e Camerun, di Niger e Ciad, fino ad arrivare a colpire il suolo sudanese e libico.

Ma cos’è la zona di convergenza intertropicale? Si tratta di un’area in cui permane durante tutto l’anno uno stato di bassa pressione avvolgendo la Terra proprio sulla fascia equatoriale. Una sorta di “cintura” dove temperature elevate e umidità garantiscono piogge abbondanti, soprattutto sul continente africano, a seguito della convergenza, per l’appunto, di grandi masse d’aria tropicali. A seconda di come si sposta questa zona (Itcz, nell’acronimo inglese), si determinano anche stagioni più secche o più umide nelle aree da essa interessate.

Tunisia, Chott el Jerid

Quest’anno sembra che la Itcz abbia vissuto una migrazione considerevole verso nord con impatti evidenti sul clima tropicale e sulla società delle popolazioni interessate. Una migrazione che sembra determinata, come spesso in questi mesi, da due fattori fondamentali. Il primo è il passaggio da El Niño, che ha stravolto la temperatura media globale negli ultimi anni, a La Niña, che dovrebbe causare un raffrescamento delle acque superficiali oceaniche e quindi porre fine a un periodo che, per definizione, è più arido. L’altro, manco a dirlo, è il riscaldamento globale. L’aumento delle emissioni di CO2 e degli altri gas serra in atmosfera causato dall’utilizzo dei combustibili fossili e il conseguente aumento della temperatura media globale sembra spingere la Itcz più a nord e, secondo lo studio pubblicato su Nature climate change, questa migrazione dovrebbe diventare via via più frequente nel corso dei prossimi due decenni.

Ma le conseguenze sono evidenti già ora. In Ciad, un paese che si trova in bilico tra la Itcz e il Sahara, tra metà luglio e inizio settembre cadono tra i due e i tre centimetri di pioggia. Quest’anno, invece, nello stesso periodo è caduta una quantità d’acqua compresa tra gli 8 e i 20 centimetri causando inondazioni devastanti con quasi 1,5 milioni di persone colpite e 340 morti. Stessa sorte subita dal Sudan a fine agosto, con almeno 132 morti e più di 12mila abitazioni distrutte, e dalla Nigeria dove in questi giorni la situazione è decisamente fuori controllo. Nello stato di Borno, nel nordest del paese, le inondazioni sono state definite dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) come le peggiori degli ultimi trent’anni, segnando la vita di centinaia di migliaia di persone. Ad oggi sono decine di migliaia le bambine e i bambini senza accesso all’acqua pulita e all’assistenza sanitaria, secondo quanto riportato dalla ong Save the children. Ovviamente non stanno andando a scuola e molti di loro non hanno neanche più un tetto sotto cui ripararsi. “La situazione qui è terribile. Metà della città è stata sommersa e le strade non sono percorribili”, ha affermato Chachu Tadicha, vicedirettore di Save the Children in Nigeria e responsabile delle operazioni umanitarie e che attualmente si trova a Maiduguri, nel cuore dell’area colpita.

La migrazione della zona di convergenza intertropicale è qualcosa che ha bisogno di essere studiata in modo approfondito e accurato. E che sicuramente trova la sua origine in diversi fattori, incluso il riscaldamento globale, come anticipato. Così come andranno studiati gli effetti di tale fenomeno nel lungo periodo, così da evitare facili paragoni o – peggio – conclusioni sul progetto di un corridoio verde, come quello della Grande muraglia lungo il Sahel, partito più di quindici anni fa e che, al contrario, ha come scopo quello di arginare l’avanzata del deserto verso sud, grazie al ripristino e alla coltivazione di circa cento milioni di ettari di terreno.

Ma cos’è la zona di convergenza intertropicale? Si tratta di un’area in cui permane durante tutto l’anno uno stato di bassa pressione avvolgendo la Terra proprio sulla fascia equatoriale. Una sorta di “cintura” dove temperature elevate e umidità garantiscono piogge abbondanti, soprattutto sul continente africano, a seguito della convergenza, per l’appunto, di grandi masse d’aria tropicali. A seconda di come si sposta questa zona (Itcz, nell’acronimo inglese), si determinano anche stagioni più secche o più umide nelle aree da essa interessate.

Quest’anno sembra che la Itcz abbia vissuto una migrazione considerevole verso nord con impatti evidenti sul clima tropicale e sulla società delle popolazioni interessate. Una migrazione che sembra determinata, come spesso in questi mesi, da due fattori fondamentali. Il primo è il passaggio da El Niño, che ha stravolto la temperatura media globale negli ultimi anni, a La Niña, che dovrebbe causare un raffrescamento delle acque superficiali oceaniche e quindi porre fine a un periodo che, per definizione, è più arido. L’altro, manco a dirlo, è il riscaldamento globale. L’aumento delle emissioni di CO2 e degli altri gas serra in atmosfera causato dall’utilizzo dei combustibili fossili e il conseguente aumento della temperatura media globale sembra spingere la Itcz più a nord e, secondo lo studio pubblicato su Nature climate change, questa migrazione dovrebbe diventare via via più frequente nel corso dei prossimi due decenni.

da Meteored Italia, 31 dicembre 2023

Il deserto del Sahara una volta era una verde savana migliaia di anni fa.  (Karen Teixeira)

Il deserto del Sahara una volta era una savana verde circa 11mila anni fa, con la presenza di elefanti e giraffe! La ricerca spiega perché.

Ti è mai passato per la mente che il deserto del Sahara fosse una savana verde? Ma recentemente, un team di ricercatori ha sviluppato un modello climatico che simula gli effetti della circolazione atmosferica sul Sahara e l’impatto della vegetazione sulle precipitazioni.

Riesci a immaginare che un tempo il deserto del Sahara fosse una savana?

L’altopiano algerino del Tassili N’Ajjer è il parco nazionale più grande dell’Africa e, tra le sue vaste formazioni di arenaria, si trova forse il museo d’arte più grande del mondo. Qui sono esposti più di 15mila incisioni e dipinti, alcuni risalenti fino a 11mila anni fa, che rappresentano un documento etnologico e climatologico unico.

È interessante notare che queste immagini non raffigurano il paesaggio arido! Raffigurano invece una savana molto vivace abitata da elefanti, giraffe, rinoceronti e ippopotami.

Tale arte rupestre costituisce un’importante testimonianza delle condizioni ambientali del passato prevalenti nel Sahara, il più grande deserto caldo. Le incisioni sono datate da 6 a 11 mila anni fa, forse chiamato il Sahara Verde o il periodo umido del Nord Africa. E le prove climatologiche esistenti indicano che durante questo periodo il Sahara aveva ecosistemi di savana boscosa e numerosi fiumi e laghi, dove oggi si trovano Libia, Niger e Ciad.

Giraffa (Giraffa reticolata)

Ma questo rinverdimento, cioè il “rinverdimento” del Sahara, non è avvenuto una volta sola. Utilizzando i sedimenti marini, i ricercatori hanno identificato che questo processo si verifica circa ogni 21.000 anni negli ultimi otto milioni di anni, fornendo corridoi di vegetazione che influenzano la crescita, la distribuzione e l’evoluzione delle specie.

Queste aree verdi avrebbero richiesto una riorganizzazione su larga scala del sistema atmosferico per portare le piogge in questa regione arida. Ma la maggior parte dei modelli climatici non è stata in grado di simulare accuratamente la circolazione atmosferica sul Sahara e gli impatti della vegetazione sulle precipitazioni. Ma dopo tutto, cosa c’è dietro questo processo?

La relazione con i cambiamenti nell’orbita terrestre

Ciò è stato causato dai cambiamenti nella precessione orbitale della Terra, cioè da una leggera oscillazione del pianeta durante la rotazione, che avvicina l’emisfero settentrionale (HN) al Sole durante i mesi estivi. Il cambiamento provoca estati più calde in HN e l’aria più calda è in grado di trattenere più umidità, il che ha intensificato la forza del sistema monsonico dell’Africa occidentale e spostato la fascia pluviale africana verso nord.

A causa delle influenze gravitazionali della Luna e degli altri pianeti del sistema solare, l’orbita della Terra attorno al Sole non è costante, poiché presenta variazioni cicliche su scale temporali di diverse migliaia di anni. Questi cicli orbitali sono chiamati cicli di Milankovitch e influenzano la quantità di energia che la Terra riceve dal sole.

In cicli di 100mila anni, la forma dell’orbita terrestre, detta eccentricità, varia da circolare a ovale, e in 41mila anni varia l’inclinazione dell’asse terrestre (obliquità). Cicli di eccentricità e obliquità sono responsabili delle ere glaciali degli ultimi 2,4 milioni di anni.

Il Sahara funziona come una porta responsabile del controllo della dispersione delle specie tra il nord e l’Africa sub-sahariana, all’interno e all’esterno del continente. Il cancello era aperto quando il Sahara era ricoperto di foreste e chiuso quando prevalevano i deserti. Questi risultati rivelano la sensibilità del Sahara all’orbita della Terra attorno al Sole, oltre a dimostrare che le calotte glaciali alle alte latitudini potrebbero aver limitato la dispersione delle specie durante i periodi glaciali degli ultimi 800mila anni.

Il perfezionamento dei modelli climatici potrebbe, in futuro, essere in grado di identificare come il riscaldamento globale influenzerà le precipitazioni e la vegetazione nel Sahara, oltre alle sue implicazioni per la società.

Riferimento della notizia

Edward Armstrong. The Sahara Desert used to be a green savannah – new research explains why. The Conversation. Disponível em: <https://theconversation.com/the-sahara-desert-used-to-be-a-green-savannah-new-research-explains-why-216555> Acesso em 20 Dez 2023.

cerchi nella sabbia

(foto P.F., C.B., S.D., archivio GrIG )

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