Finalmente (agosto 2023) è arrivata la raccomandazione dell’UNESCO affinché Venezia venga inserita nella lista del “Patrimonio mondiale in pericolo”.
La motivazione: “non sarebbero state adottate misure sufficienti per contrastare il deterioramento del sito dovuto in particolare al ‘turismo di massa’ e ai cambiamenti climatici”.
Ma quanta ipocrisia, da parte del Presidente della Regione Veneto Luca Zaia, nel relazionarsi al richiamo dell’Unesco su Venezia e sugli effetti del turismo di massa, quasi lui contasse come il due di coppe quando la briscola è bastoni in una partita politica in cui da le carte da quasi vent’anni.
E quanta parzialità, superficialità, quasi accondiscendenza nel racconto mediatico di quello che il turismo di massa sta arrecando e potrà arrecare all’ambiente, non solo a Venezia, ma in tutte le località di richiamo del Veneto.
E quanta apatica indifferenza nel fideistico corpus elettorale del Presidente Zaia verso gli effetti di un nuovo capitolo del libro veneto sulla mercificazione delle risorse ambientali e storiche ereditate (Venezia, le Dolomiti) e sull’uso, consumo e gestione delle risorse naturali (cementificazione del suolo, inquinamento dell’aria delle città venete, inquinamento delle acque sotterranee e di superficie per residui di pesticidi e di Pfas).
L’ultimo capitolo del libro veneto sulla mercificazione delle risorse naturali, ambientali e storiche ereditate si intitola turismo industriale.
La turistificazione industriale è un processo poliedrico (ambientale, politico, economico, culturale) portato avanti nel tempo, in più fasi e con più atti legislativi, accompagnati immancabilmente dal linguaggio della propaganda.
Lo scopo finale di tale processo, a mio giudizio, è quello di usare il turismo industriale come una consistente leva economica che venga in soccorso dello scricchiolante modello economico del Nord-Est che, tra l’altro, ha capannonizzato e ingrigito il paesaggio, la terra e la campagna veneta.
In questo percorso di mercificazione delle risorse la valorizzazione turistica si sta rivelando una valorizzazione monetaria, commerciale di singoli luoghi, esaltati da cartoline mediatiche prodotte anch’esse a livello industriale da influencer e media e usate come specchietto per le allodole per nascondere la scomparsa del paesaggio veneto nella sua dimensione propriamente paesaggistica, sempre più degradato e cementificato.
Venezia è un caso emblematico delle conseguenze ambientali e antropologiche del turismo di massa: un turismo industriale a cui viene affidato il compito di aumentare il PVL (Prodotto Veneto Lordo) messo in crisi dagli effetti della globalizzazione.
Una strategia amministrativa e politica di cortissimo respiro, infiocchettata da gigantesche operazioni di marketing territoriale, che fa fuori l’essenza valoriale, ecologica, naturalistica, storica, antropologica dei beni cosiddetti turistici.
Non è un caso che in Regione Veneto la sezione “Strategia Regionale della Biodiversità e dei Parchi” sia finita sotto la Direzione Turismo: una forzatura istituzionale di senso e di significato, tipica di una politica arrogante e autoreferenziale, non incalzata da una efficace contro narrazione del sistema veneto.
E non c’è solo Venezia in questo tritatutto industriale dei beni turistici.
Rispetto alla soverchiante urbanizzazione pedonale e marittima di Venezia cosa sta accadendo in altri siti Unesco della Regione?
Cosa si sta facendo e cosa sta facendo l’Unesco per non arrivare alla situazione limite di Venezia?
Ad esempio, perché gli effetti sugli habitat faunistici e vegetazionali, in conseguenza dell’organizzazione di un evento sportivo globale, planetario, come lo sono le XXV Olimpiadi Invernali, non sono ancora stati oggetto di alcun richiamo da parte dell’Unesco?
Un evento la cui traduzione operativa, urbanistica e logistica sul territorio alle pendici delle Tofane ha già comportato e sta comportando la creazione di nuove piste, l’allungamento e rimodellamento con allargamento di quelle esistenti (anche in versanti soggetti a valanghe), la creazione di bacini idrici per l’innevamento artificiale, la creazione di nuovi impianti di risalita, di nuovi parcheggi, di nuove strade di accesso e raccordi fra piste da sci e fra strade di collegamento, la riduzione di superfici boscate, il taglio di centinaia di alberi, la riduzione di superfici a prato o a pascolo: tutte “azioni” che hanno già determinato un consumo di suolo di circa 40 ettari, a cui si vorrebbe (le “intenzioni”) aggiungere la costruzione di una anacronistica pista da bob a spese anche di un lariceto secolare.
E cosa potrà accadere in un prossimo futuro in un altro sito dichiarato Patrimonio dell’Umanità: le Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene.
Cosa c’è di diverso, rispetto al sovraffollamento antropico fuori controllo di Venezia, in un’area vitivinicola già soggetta a importanti fenomeni di erosione per quello che potrà accadere a seguito di mega operazioni di marketing territoriale che possono portare ad un aumento del flusso turistico dagli attuali 400.000 visitatori al loro raddoppio in 5 anni?
Non bisogna essere dei geni per comprendere la compromissione urbanistica e ambientale che comporterebbero nuove infrastrutturazioni (strade, parcheggi, nuove strutture ricettive, ecc.) in un’area collinare e boschiva, relativamente ridotta e idrogeologicamente fragile. Certo, la consapevolezza sulle caratteristiche dei luoghi che si amministrano nasce dalla conoscenza della loro geografi”.
Una consapevolezza che chi amministra la Regione non può acquisire solo attraverso un debordante presenzialismo sui social e alle sagre, facendosi immortalare per l’ennesimo brindisi con le bollicine.
In un’area, quella del Prosecco, in cui l’espansione imperialistica della Glera e l’uso intensivo della chimica di sintesi avevano già fatto vacillare la decisione dell’Unesco circa l’esito positivo della candidatura a Patrimonio dell’Umanità.
Un’indecisione che l’Unesco ha risolto stilando 14 prescrizioni su cui però non sembra minimamente preoccupata di vigilare.
Cosa c’è di diverso, nella sostanza e non nella forma, rispetto a Venezia?
Forse i tempi in cui potrà materializzarsi una situazione off limits come quella di Venezia?
Cosa c’è di diverso, da non meritare un richiamo dell’Unesco, nelle leggi regionali del Veneto che riguardano i siti Patrimonio dell’Umanità presenti in regione?
Leggi regionali che consentono, in un caso, nell’area delle Colline del Prosecco, di urbanizzare l’area agricola dei vigneti ampliando, a scopo ricettivo, fino a 120 metri cubi le vecchie casere e, nell’altro caso, nell’area delle Dolomiti, dì costruire, parificandole ai rifugi alpini, delle strutture ricettive di lusso (le chiamano “stanze panoramiche”) oltre i 1600 metri di altitudine.
Il turismo industriale modello balneare non è sostenibile, tanto meno nelle aree Unesco, perché provoca l’asfissia culturale, ambientale, economica e antropologica dei siti.
Alla valorizzazione turistica dei luoghi vanno posti dei limiti invalicabili che riguardano la loro conservazione, manutenzione e la gestione controllata e contingentata dei flussi (si tratti di Venezia, delle Dolomiti, delle Colline del Prosecco).
Va fermata ulteriore urbanizzazione, ulteriore cementificazione.
Va fermata la folle corsa pubblicitaria del marketing territoriale social tenendo conto della capacità di assorbimento antropico del luogo pubblicizzato e del suo contesto paesaggistico-ambientale e, soprattutto, della qualità di vita dei residenti.
La valorizzazione turistica dei luoghi naturali o storico-artistici non può essere oggetto di ulteriori pianificazioni infrastrutturali e di business che potrebbero abbassare il pregio naturalistico, storico-artistico, estetico e attrattivo dei luoghi e compromettere il tessuto antropologico delle comunità residenti: è sempre una questione di “limiti”, un concetto difficile da assimilare, ma drammaticamente vitale per la sopravvivenza degli ecosistemi, della stessa economia dei luoghi nel lungo periodo, dei sistemi di vita delle popolazioni locali.
Non si riflette abbastanza sugli effetti del turismo di massa sul precario equilibrio antropologico delle comunità che vivono nei siti turistici: il dramma turistico di Venezia è lì a ricordarcelo.
E sono aspetti essenziali da inglobare nella nostra visione di un futuro per questi luoghi che non possono essere assimilati a delle zone industriali a cielo aperto in funzione del PVL (Prodotto Veneto Lordo).
La risorsa turismo in certi luoghi va maneggiata con cura, va centellinata e può dare il suo contributo all’economia dei territori, ma non può degenerare in un turismo di massa indifferente alla capacità di assorbimento antropico, alla tutela dei paesaggi e alla salvaguardia dello spirito identitario delle comunità interessate dai flussi turistici.
Rispetto ai fatturati del turismo modello balneare, che compromettono nel medio-lungo periodo la risorsa ambientale, la gestione controllata dei flussi turistici quasi certamente avrà dei ritorni economici più contenuti (e sostenibili nel tempo), ma potrebbe anche rendere fertile un terreno su cui attecchiscono nuovi desideri/aspirazioni di appartenenza alle comunità e assecondare così, unitamente a misure di incentivazione economica e sociale, un processo di ripopolamento residenziale, sia del centro storico di Venezia e sia delle aree interne del Veneto (i borghi e i paesi di montagna e di collina) che stanno vivendo una fase di lento spopolamento.
Dante Schiavon, socio GrIG – Veneto
(foto M.F., D.S., S.D., archivio GrIG)