Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Da giorni lo stato sionista e il Pentagono stanno intensificando all’impazzata le loro operazioni belliche fuori dalla Palestina, colpendo in Siria, in Libano, in Yemen, in Iraq. Quanto al massacro in Iran presso la tomba di Souleimani, da un lato viene da pensare che dietro un attentato del genere ci siano la mano del Mossad o della Cia, dall’altro non lo si può dare per scontato perché non sembra che gli Stati Uniti vogliano spingere l’Iran ad entrare in guerra contro Israele (dopo che Khamenei lo aveva apertamente escluso). In ogni caso, come registra lo stesso New York Times, “Il Medio Oriente si sta avvicinando sempre più all’orlo di una guerra regionale”. Contemporaneamente emerge alla luce del sole che il governo Netanyahu sta trattando con la Repubblica democratica del Congo, con il Ruanda, con il Ciad e con altri stati arabi perché accolgano i quasi due milioni di palestinesi che Israele intende a tutti i costi cacciare dalla loro terra di Gaza. E in maniera provocatoria ministri sionisti dichiaratamente fascisti come Ben-Gvir e Smotrich presentano questa nuova, gigantesca pulizia etnica come un’azione “umanitaria”.
Più d’uno vede in questa intensificazione ed espansione delle operazioni belliche una generica follìa. Noi no. Le consideriamo la risposta inevitabile del campo imperialista israelo-occidentale alla formidabile resistenza dei combattenti palestinesi e dell’intero popolo palestinese. Formidabile non è un termine retorico. Una risposta inevitabile perché, dopo avere perso le due guerre contro la resistenza libanese nel 2000 e nel 2006; dopo avere subìto il 7 ottobre un colpo esiziale per il prestigio militare e politico degli apparati bellici di Israele; i capi sionisti e i loro protettori non possono permettersi, agli occhi di un mondo che ha sempre meno paura della loro deterrenza, di ammettere una nuova sconfitta per mano di un fronte guerrigliero palestinese che continua a battersi e a provocargli ingenti perdite nonostante la devastazione di Gaza, e nonostante che gli aiuti militari esterni siano davvero molto limitati.
Una risposta inevitabile anche perché l’asse della guerra Israele-Stati Uniti-Unione europea non ha alcuna credibile soluzione politica da spacciare anche solo come diversivo rispetto alla prospettiva montante, e apertamente rivendicata dai sionisti, di una nuova Nakba. Riportare a Gaza sui carri armati israeliani il cadavere di Abu Mazen o il doppiopetto dell’ex-funzionario della Banca mondiale e del Fmi Salam Fayyad, appartiene al genere dell’umorismo sarcastico. Appare la carta della disperazione di potenze imperialiste che ancora blaterano di democrazie-contro-autocrazie mentre pretendono di insediare ovunque propri governi fantocci odiati dalle popolazioni e da queste ripudiati perfino nelle urne.
Ciò che sta accadendo sull’altro fronte mondiale di guerra, in Ucraina, conferma in pieno che – seppur tra duri contrasti di interessi interni ai singoli paesi e tra stati – la linea che sta affermandosi progressivamente è quella all’espansione della guerra nel territorio russo. In questo caso, per il fronte occidentale, la guerra per il Donbass è già perduta, e tutte le previsioni sul crollo della Russia sono state ridicolizzate dagli eventi. Ma non c’è alcuna soluzione politica in vista, per un motivo semplice: non esistono le basi per nessun tipo di accordo duraturo. Potrebbe mai la Russia, dopo l’ingente sforzo bellico a cui si è sottoposta, mettere in discussione lo statuto della Crimea e delle aree del Donbass che sono state ormai ufficialmente integrate nella Federazione russa? E così, almeno fin che resta in carica l’amministrazione Biden, l’unica prospettiva realistica in campo è quella anticipata dalla Polonia e dagli ultimi atti del moribondo Zelensky: schierare gli F-16 ai confini con la Russia, iniziare a colpire la popolazione civile delle città russe con missili a lunga gittata e bombardieri NATO di ultima generazione.
Su tutti e due i fronti, Palestina e Ucraina, l’Unione europea della von der Leyen, nota incaricata d’affari dell’industria bellica tedesca oggi in grandissimo spolvero, non fa che assecondare sia il genocidio dei palestinesi in corso a Gaza, sia il macello di soldati ucraini e russi in Ucraina. Con il governo Meloni allineato alle scelte più aggressivamente belliciste, al solito modo italiano del “qui lo faccio e qui lo nego”, dove ciò che conta davvero è il fare, ovvero inviare di continuo informazioni e armi a Kiev, collaborare in tutti i modi e i settori con lo stato di Israele fino all’invio di mezzi militari nel mar Rosso, spacciare h24 russofobìa e islamofobìa a dosi da cavallo.
Dati questi ultimissimi sviluppi delle guerre in Palestina e in Ucraina, è più necessario che mai rilanciare la mobilitazione di massa che da qualche settimana in Europa sta invece rinculando, mentre rimane vivissima in Cisgiordania, Giordania, Libano, Yemen (qui soprattutto con dimostrazioni di enorme potenza). Non a caso sono questi i soli luoghi da cui provengono effettivi aiuti alla resistenza palestinese con una serie di attività di disturbo all’IDF e ai traffici di armi e di merci dello stato sionista e dei suoi protettori, protagoniste le “forze della resistenza” per lo più di matrice islamista.
Tutto tace, invece, sul fronte dei reazionari regimi arabi. Nessuno dei quali si è azzardato a compiere il minimo atto di boicottaggio dell’economia e dell’esercito di Israele. Anche sul fronte dei Brics non si muove quasi nulla. L’iniziativa più rumorosa è stata quella meramente propagandistica presa dal Sud Africa: presentare denuncia contro Israele per genocidio alla Corte internazionale di giustizia delle Nazioni unite, che ci metterà anni e anni a pronunciarsi. Quanto alla Russia, il suo silenzio è ermetico. Le conferenza stampa e i ripetuti discorsi di Putin si occupano solo e soltanto di Ucraina (e forse era rivolta proprio ai piani alti di Mosca la stoccata di Abu Obaida, il portavoce delle Brigate al-Qassam di Gaza, quando ha parlato di “sionisti dell’ovest e dell’est”). Non ne parliamo della Cina. Sfogliate il China Daily e vi servirà la lente d’ingrandimento per trovare nelle più fonde pagine interne qualche articoletto su Gaza. I potenti buro-capitalisti di Pechino attendono che il cadavere del nemico (gli Stati Uniti) passi davanti a loro, sono pazienti perché il tempo è sicuramente dalla loro parte. Intanto, però, ad ammucchiarsi a decine di migliaia sono i cadaveri di donne, bambini e combattenti palestinesi…
Quanto al mondo occidentale, per una volta siamo d’accordo con Gilbert Achcar (*) quando nota che “l’unico luogo [del mondo occidentale] in cui si è registrato un vero sviluppo positivo sono gli Stati Uniti. È paradossale dirlo, ma è negli Stati Uniti che abbiamo assistito a un avanzamento nella comprensione della causa palestinese, anche tra gli ebrei americani. E questo è molto incoraggiante. Ci sono persino sondaggi sorprendenti che mostrano che la maggioranza dei democratici è contraria all’aumento degli aiuti militari a Israele, per esempio. Questo non sarebbe successo solo pochi anni fa. Quindi, c’è un vero e proprio cambiamento. E forse, alla fine, questo avrà ripercussioni sulla società israeliana, che è molto, molto sensibile, ovviamente, a ciò che accade negli Stati Uniti.” In questi mesi migliaia di giovani ebrei hanno manifestato a sostegno dei palestinesi, dentro e fuori le università – sono parte di quell’altra America da cui noi internazionalisti ci aspettiamo molto. E finalmente anche all’interno del movimento sindacale nord americano c’è chi, come il presidente del principale sindacato dei lavoratori delle poste, Mark Dimonstein, dichiaratosi “ebreo antisionista”, ha preso posizione contro Israele per i palestinesi chiedendo l’immediato cessate il fuoco a Gaza. La campagna scatenata a suon di centinaia di migliaia di dollari dai circoli sionisti del partito democratico per impedire la rielezione della deputata democratica di origini palestinesi Tashida Tlaib e la simpatia che la Tlaib sta riscuotendo tra i più giovani, è un altro indice di quanto stia incidendo anche negli Stati Uniti la fermezza della resistenza palestinese.
Non sottovalutiamo certo né l’ampiezza della mobilitazione in alcuni paesi europei, in primo luogo il Regno Unito e la Francia, né la radicalità politica dello sciopero per la Palestina del 17 novembre e delle manifestazioni pro-Palestina in Italia di cui siamo stati, come TIR e SI Cobas, promotori e parte integrante. Ma il sommovimento in corso nel mondo degli ebrei statunitensi e le prime prese di posizione anti-sioniste nel movimento sindacale americano, da sempre più che sciovinista, hanno una speciale importanza – che dovrebbero cogliere tutti i sostenitori della causa palestinese nel mondo, a cominciare dagli stessi palestinesi. La mostruosa macchina bellica sionista non potrà cadere solo dall’esterno, dovrà essere corrosa anche dalla dissidenza e dall’opposizione interna. Lo stesso vale per la mega-macchina bellica yankee.
L’accanimento sterminista con cui lo stato di Israele continua a colpire a Gaza e il continuo allargamento dell’aggressione ai paesi vicini può indurre a credere che nulla può fermare l’asse Israele/Stati Uniti/UE, ed in particolare che le dimostrazioni di piazza sono inutili. Questa furia distruttiva non è un’espressione di forza. Rivela, invece, la rabbia di chi vede fallire i propri obiettivi, e non ha altra scelta se non quella di innalzare il livello di deterrenza. La popolazione di Gaza non andrà via da Gaza, nonostante la tragedia in atto! La resistenza palestinese non si arrende. E noi qui, spronati da questa fermezza (sumud), siamo chiamati a intensificare le nostre iniziative di lotta, a mordere di più gli interessi economici e i traffici militari degli architetti della guerra e del genocidio.
L'articolo [INTERNAZIONALISMO] Lo sfrenato bellicismo di Israele, Stati Uniti e Unione europea ci chiama all’azione proviene da "TOCCANO UNO TOCCANO TUTTI".