In questi mesi, in un clima di economia di guerra e di fronte a un aumento del costo della vita sui generi di prima necessità che sfiora oramai il 20%, i bassi salari diventano sempre più come una pentola a pressione pronta ad esplodere.
Alcuni dati, quantomai impietosi, possono offrire una fotografia nitida delle condizioni drammatiche in cui oggi versano milioni di lavoratori:
– circa un terzo dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato percepisce un salario lordo al di sotto dei 9 euro all’ora, che al netto delle tasse significa circa 6 euro all’ora.
– l’11,7% dei lavoratori dipendenti (circa 2 milioni e mezzo) riceve un salario inferiore ai minimi contrattuali.
– numerosi CCNL di settore sono ancora oggi inchiodati su livelli retributivi da fame, pari o inferiori a 6 euro netti l’ora. Parliamo di settori che nel loro insieme interessano diversi milioni di lavoratori: turismo (7,48 euro lorde); cooperative nei servizi socio-assistenziali (7,18 euro); pubblici esercizi, ristorazione collettiva e commerciale e del turismo (minimo orario contrattuale pari a 7,28 euro, ma com’è noto, si tratta della categoria a più alto tasso di evasione fiscale e contributiva, nella quale la gran parte dei dipendenti sono assunti al nero o “al grigio”, cioè con contratti individuali-capestro); settore tessile e dell’abbigliamento (7,09 euro lorde); servizi socio-assistenziali (6,68 euro); imprese di pulizia e dei servizi integrati o dei multiservizi (6,52 euro orarie lorde, con un CCNL rinnovato solo a fine 2022, dopo oltre sette anni); vigilanza e dei servizi fiduciari (4,60 euro all’ora, scaduto dal 2015 e divenuto “celebre” per una serie di sentenze che ne hanno censurato l’importo, ritenuto al di sotto della soglia di povertà e di dignità umana).
– l’aumento vertiginoso dell’inflazione, e con essa del costo degli affitti e dei mutui sulla prima casa che ha falcidiato a tal punto i salari reali che Federcontribuenti ha segnalato come i valori Isee medi registrati alla fine del 2022 fossero crollati del 48% rispetto all’anno precedente.
In realtà la questione salariale in Italia non può essere affrontata senza ammettere che essa è il frutto di decenni di scelte sindacali e politiche a favore dei padroni, i quali oggi, di fronte ad una crisi epocale, dimostrano tutta la loro natura predatoria e ferocemente antiproletaria, e contro i quali occorre produrre quella mobilitazione sociale e di classe che in questi anni è mancata.
Il patto di concertazione firmato nel 1993 e attraverso il quale il governo Ciampi, con CGIL, Cisl e UIL, avevano certificato la politica dei bassi redditi, vendendolo come una pozione magica per “creare posti di lavoro”, oggi si dimostra per quello che era: un pacco-dono per i padroni destinato a sottrarre una massa abnorme di ricchezza ai salari per destinarla ai profitti, alle rendite e alla speculazione finanziaria.
L’ Italia, non lo scopriamo noi, è l’ unico paese a capitalismo avanzato nel quale vige un sostanziale blocco dei salari, al punto che il salario medio attuale è addirittura più basso di quello di trent’anni fa, in quanto l’ accordo del 1993, con l’abolizione definitiva della scala-mobile, impedisce o riduce al minimo gli aumenti salariali anche quando la congiuntura è favorevole, o quando l’inflazione viaggia a ritmi sostenuti.
In un tale contesto di attacco generale al lavoro dipendente si sono via via aggiunte le leggi approvate dai governi che si sono succeduti nei decenni ’90, ’00 e ’10, dalla legge Treu, al Jobs Act, che hanno destrutturato e precarizzato i rapporti di lavoro e legalizzato i licenziamenti indiscriminati, determinando un notevole indebolimento del peso e del potere contrattuale dei lavoratori. Nella stessa direzione vanno, da un lato, le cosiddette leggi sull’immigrazione (in realtà: contro i proletari immigrati), a partire dalla Bossi-Fini, che legano il permesso di soggiorno alla necessità di un contratto di lavoro, dall’altro le norme sulla rappresentanza (dagli accordi di luglio 1993 al famigerato Protocollo del 10 gennaio 2014) tese a garantire il monopolio a Cgil-Cisl-Uil e ad escludere ovunque il sindacalismo combattivo dai tavoli di trattativa. In un tale sistema, fondato sul ricatto e sullo strapotere padronale, i lavoratori sono di fatto obbligati a prestazioni di lavoro quasi schiaviste. Le lotte di questo decennio nei magazzini della logistica hanno svelato a chiunque abbia occhi per vedere un fatto inoppugnabile: in migliaia e migliaia di luoghi di lavoro i CCNL sono considerati dai padroni carta straccia, e a dispetto del loro valore di “legge” sul piano formale, anche il solo invocarne il rispetto e l’applicazione espone milioni di lavoratori alla rappresaglia del licenziamento.
È in questo quadro, fatto di ritmi infernali e spietata rincorsa alla riduzione dei “costi” (su tutti quelli per la sicurezza), che si spiegano le migliaia di morti sul lavoro ogni anno: morti che gridano vendetta soprattutto nei confronti di uno stato borghese tanto ipocrita nel piangere lacrime di coccodrillo per i casi più eclatanti, quanto complice dei padroni nel determinare le condizioni di questa mattanza.
In secondo luogo, la stessa abolizione del reddito di cittadinanza portata avanti “orgogliosamente” dal governo Meloni, più che mai governo dei padroni, rappresenta anch’essa un tassello tutto funzionale a comporre un mondo del lavoro fatto di ricatti, super-sfruttamento e bassi salari.
I contratti nazionali, dunque, hanno perso ormai da anni la loro efficacia quale strumento utile ad adeguare il salario al costo della vita.
Nel mentre Cgil-Cisl-Uil non muovono un dito neanche per ottenere un adeguamento minimo delle retribuzioni tabellari, al sindacalismo classista e combattivo (a cui è quasi sempre preclusa “a prescindere” la partecipazione alla contrattazione nazionale) per strappare concreti aumenti salariali non resta che affidarsi alla contrattazione di secondo livello. Nei luoghi di lavoro e nelle categorie in cui si esprime una più alta conflittualità operaia, essa consente un aumento anche significativo dei livelli salariali rispetto al CCNL (si vedano gli accordi nazionali “Fedit” strappati dal SI Cobas nelle filiere SDA, GLS e BRT) e quindi di aggirare, grazie al peso e al protagonismo dei lavoratori, l’ignobile monopolio della rappresentanza garantito alla triplice confederale; d’altro lato si tratta, però, di un’arma a doppio taglio, in quanto gli aumenti (in larga parte erogati sotto forma di premio di risultato) vengono ancorati a indici economici di “produttività” difficilmente verificabili e controllabili dai lavoratori, e ciò ne vanifica in parte il risultato soprattutto in quelle aziende e in quei magazzini in cui non vi è tra i lavoratori una forza sufficiente per far sì che gli aumenti siano garantiti a prescindere dai livelli di produttività (cioè di un aumento dello sfruttamento).
L’ aumento generalizzato dei salari, allora, diventa un obiettivo fondamentale, che se accompagnato dalla richiesta di un salario minimo, può diventare una spinta per una mobilitazione più generale.
È possibile uscire dalla prigione concertativa e provare a rottamare uno strumento oramai obsoleto di contrattazione (utile solo a garantire una rendita di posizione alle burocrazie di Cgil-Cisl-Uil) per liberare positivamente le condizioni e la forza negoziale dei lavoratori e delle lavoratrici.
Le mobilitazioni della logistica, settore nel quale le lotte radicali e al di fuori del sistema sindacale tradizionale hanno imposto forti aumenti salariali (e in cui non a caso lo stato, il governo hanno risposto con una violenza poliziesca inaudita, come dimostrano le immagini di quanto successo in questi giorni ai lavoratori di Mondo Convenienza e i teoremi giudiziari ancora in corso), devono diventare sempre più un esempio da generalizzare, e non al contrario un’”isola felice” circondata e assediata da un mare di super-sfruttamento e di salari da fame.
Il capitale, da sempre, considera la forza lavoro come una sorta di prodotto usa e getta, tanto che persino il rischio di morte o la morte stessa dei lavoratori vengono considerati un prezzo accettabile sull’altare del profitto, ed è noto come la precarietà sia oramai un dato certo e vantaggioso per questo sistema.
Per questo, come SI Cobas, abbiamo deciso di convocare due scioperi nazionali: il primo il 22 settembre nel settore della logistica, e il 20 ottobre uno sciopero generale insieme ad altri sindacati di base, per tutte le categorie.
Tali iniziative hanno l’obbiettivo di legare a doppio filo il tema salariale a quello dell’opposizione di classe alla guerra e al governo Meloni, poiché riteniamo che in un quadro come quello attuale, segnato da una sempre più marcata precipitazione delle tensioni inter-imperialiste e da una corsa senza precedenti al riarmo su scala globale, ogni battaglia che limiti il proprio perimetro nei confini nazionali e/o strettamente sindacali sia inevitabilmente condannata alla sconfitta. Per questo, in continuità con lo spirito e i contenuti dell’assemblea dell’11 giugno a Milano contro la guerra in Ucraina e contro tutte le guerre del capitale, stiamo lavorando, insieme alle altre forze promotrici dell’assemblea e agli altri organismi già impegnati in questa direzione, alla costruzione di due manifestazioni fuori alle basi militari di Coltano e di Ghedi, per rilanciare la mobilitazione contro la guerra e denunciare la vergogna dell’aumento delle spese militari, e su tutto il colpo di mano sull’utilizzo dei fondi del PNRR per acquistare o produrre armi da inviare in Ucraina.
La battaglia sul salario non può viaggiare su binari separati rispetto alla necessità sempre più stringente di costruire un grande movimento contro la guerra, che non si faccia irretire né da tentazioni campiste né, tantomeno, da ambiguità nella denuncia del carattere guerrafondaio del governo Meloni e dell’intero schieramento occidentale Usa-Ue-Nato. Non sono in gioco né resistenze, né antichi fasti “socialisti” da rinverdire; al contrario c’è da mettere in campo un movimento reale che rivendichi lavoro, salario, tutela ambientale, sanità pubblica, servizi sociali per i proletari. E che per questo non può che essere solidale con tutti i lavoratori che pagano con le loro vite il prezzo della guerra e irriducibilmente antagonista ai piani di riarmo.
Tiziano Loreti e Peppe D’Alesio (Esecutivo nazionale SI Cobas)
L'articolo [ITALIA] Costruire lo sciopero generale: contro guerra e governo Meloni, per forti aumenti salariali e tutele sui luoghi di lavoro proviene da "TOCCANO UNO TOCCANO TUTTI".