[ITALIA] Le tre piazze di sabato 25 febbraio, e le scelte che non è possibile aggirare

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Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della Tendenza internazionalista rivoluzionaria, già disponibile sul sito Il Pungolo Rosso (vedi qui):

Le tre piazze di sabato 25 febbraio, e le scelte che non è possibile aggirare

– TIR (Tendenza internazionalista rivoluzionaria)

Parlare – con riferimento al 25 febbraio – dell’esistenza di un movimento contro la guerra in Italia sarebbe esagerato, se per movimento si intende una mobilitazione di massa, solo in parte strutturata, che abbia una sua continuità nel tempo. In Italia nell’ultimo anno non c’è stato nulla che possa meritare questa qualifica. Si può solo parlare di tre differenti piazze: quelle pacifiste (o sedicenti tali); quella di Genova, chiamata dal Calp e dall’Usb; quelle di Milano, Bologna e Roma, chiamate dal SI Cobas a cui ha partecipato l’area politica che ha promosso il convegno del 16 ottobre, presente anche a Genova. Tre differenti piazze, i cui organizzatori prospettano sulla guerra in Ucraina linee d’azione non solo differenti, ma alternative tra loro.

Come in precedenza, anche nei giorni 24-25 febbraio le manifestazioni indette dai circuiti pacifisti – con l’eccezione di un loro limitato segmento – hanno espresso in modo talvolta sguaiato, talvolta accorto, uno schieramento di campo sostanzialmente pro-Ucraina, cioè pro-Nato. Lo fecero nel primo mese, mese e mezzo dall’invasione russa, e si sono ripetuti fino alla recente marcia notturna Perugia-Assisi nella quale il suo coordinatore, Flavio Lotti, aveva in bella mostra sul petto una coccarda ucraina. E nella quale nessuno ha neppure immaginato di replicare l’abbraccio tra una donna ucraina e una donna russa messo in scena dal papa mesi fa a Roma. Solo giovani con bandiere ucraine.

Lo stesso si dica per lo sponsor e primo organizzatore di queste manifestazioni: la Cgil di Landini. “La Cgil ripudia la guerra”, è il mantra landiniano. Senonché la sua lettura delle cause della guerra è sempre rigorosamente a senso unico. Sul banco degli imputati c’è solo ed esclusivamente la Russia di Putin. Il ripudio della guerra da un solo lato. E la Nato? Non pervenuta. La dirigenza Cgil si farebbe tagliare la lingua pur di non pronunciare questa parola, e anche le mani pur di non dire una sola sillaba contro la Nato. Quanto ai governi italiani e all’UE, invece di accusarli di aver fatto da decenni l’impossibile per mandare in rovina e soggiogare l’Ucraina e, di recente, perché si arrivasse alla guerra con la Russia, vengono chiamati in causa come dei “mediatori affidabili” (!?). Si chiede al lupo di farsi agnello, anzi: si presenta il lupo come fosse l’agnello. Nel frattempo si organizza a Firenze una bella adunata “pacifista” con ospite d’onore uno dei più assatanati bellicisti ucraini, il sindaco di Kiev Klitschko. Dovesse fallire come “mediatrice” l’UE, la Cgil ha una carta di riserva: l’Onu, che tuttavia non ha mai evitato una guerra. Anzi ne ha legittimate alcune tra le più terribili: la guerra di Corea (con quasi 3 milioni di morti), la prima guerra all’Iraq nel 1991, l’infame missione Restore Hope contro la popolazione somala nel 1992, la Bosnia-Erzegovina l’anno dopo, Haiti nel 1994… per non parlare delle sanzioni stragiste contro gli iracheni, costate la vita ad almeno mezzo milione di bambini.

Del resto, nei suoi manifesti e appelli Europe for Peace si muove su questo tracciato ignorando anch’essa la funzione decisiva svolta dalla Nato e dall’UE nel produrre la guerra in Ucraina (per non dire di tutto il resto), anche se nei suoi testi si spinge fino ad “esigere che le nostre istituzioni assumano questa agenda di pace”. Ma se le parole non sono gettate lì a caso o solo per ingannare il pubblico, esigere da istituzioni quali gli stati imperialisti dell’UE di abbandonare la propria agenda di guerra, comporta di mettere in atto forme di lotta talmente potenti ed efficaci che le obblighino a farlo contro la loro volontà. Di armi del genere, però, non vediamo neppure l’ombra in nessuna delle iniziative dei circuiti pacifisti. Che anzi, tanto per dire, hanno disertato anche la proclamazione dello sciopero contro la guerra indetto lo scorso 2 dicembre dal sindacalismo di base – per modesto che esso fosse. Si crede forse di fermare i governi di Roma ed europei o i comandi della Nato pronti a devastare il mondo intero con le preghiere e le suppliche?

Abbiamo più volte dialogato con le piazze pacifiste, a cominciare dalle iniziative di febbraio scorso a Venezia e Padova. Sappiamo, quindi, che sono affollate, oltre che di avvoltoi e profittatori di professione, di lavoratori/lavoratrici e persone di buoni sentimenti, che nel proprio intimo ripudiano realmente la guerra come “strumento di risoluzione delle controversie”. Ma per mettersi di traverso a questa guerra e al tragico seguito di guerre a catena che apre, ci vuole una chiara visione delle cause di tutto ciò e la massima determinazione a battersi contro i signori della guerra, anzitutto quelli di ‘casa nostra’, Italia, UE, Nato – senza sconti per l’altro fronte. Registriamo invece che, a cominciare da Landini e dalla Cgil, più la dinamica bellica si espande e si acutizza, più si allenta la loro iniziativa. Ci fu un grosso impegno il 5 novembre per portare a Roma decine di migliaia di dimostranti, un grosso impegno che non è stato replicato per la ricorrenza del 24-25 febbraio. Perché? Un’ipotesi ce l’abbiamo: dopo le spontanee contestazioni a BaioLetta del 5 novembre, a fronte del crescente umore contrario all’invio delle armi al governo Zelensky, i culi di pietra della direzione Cgil non volevano rischiare il bis, magari allargato. Non vogliono dare fastidio al Pd e ai suoi cespugli, e neppure al governo Meloni, sperando di averne in cambio qualche mancia di ringraziamento. Ma senza la rottura della pace sociale e della solidarietà nazionale, lo stato e il governo italiano saranno fattori attivi di intensificazione e allargamento del conflitto bellico. Anzi, dei conflitti bellici: se solo si fa attenzione alle manovre e agli intrighi italiani nei Balcani, nell’Africa occidentale, in Libia, in Algeria. I manifestanti delle piazze pacifiste che non sono lì per mestiere, e quanti aspirano alla fine della guerra ma non sono ancora scesi in campo, dovranno fare i conti con questi duri dati di fatto. Che non sono aggirabili.

La seconda piazza è stata quella di Genova. L’ha lanciata l’appello del Calp “no alla guerra, no alle armi”, presto doppiato dalla decisione dell’Usb di indire uno sciopero dei porti per ragioni contrattuali (aumenti salariali e misure a tutela della salute) a cui legare anche il no alle armi. Soprattutto la prima chiamata ha suscitato attenzione e attrazione anche fuori Genova perché a sollecitare la ripresa della lotta contro la guerra era un gruppo di proletari combattivi. Su Contropiano, con un articolo di G. Marchetti, la Rete dei comunisti, regista politica della manifestazione di Genova, ne rivendica la riuscita dando numeri molto questionabili (sorvoliamo) e sostenendo, questo è di maggior rilievo, che con essa “il movimento contro la guerra cambia volto”: con “un grosso impegno organizzativo e un ingente dispiegamento di energie e di risorse” è nato a Genova “un primo abbozzo di movimento reale”. Vedremo se sarà così. Comunque sia, è lecito chiedersi: un “movimento reale” incardinato su quale posizione? La Rete indica con nettezza come obiettivo da perseguire un mondo “multipolare” in cui il bellicismo della Nato sia controbilanciato da “altri soggetti” che indicano un’“uscita diplomatica” dall’attuale situazione attraverso “percorsi di raffreddamento delle molteplici tensioni internazionali”. Non è nominata, ma il primo di tali soggetti non può essere che la Cina, gratificata addirittura in molti scritti di Contropiano di paese socialista. Inoltre, la rivendicazione di “una certa dose di spregiudicatezza” sembra un accenno in positivo a quei “soggetti” ultra-borghesi che dissentono dalle forniture di armi a Zelensky&Co., i Berlusconi, i Conte, i Salvini (che peraltro ne hanno approvate già una serie). Il contesto multipolare a cui mira la proposta della RdC di “rottura della gabbia euro-atlantica” non solo avvicinerebbe la pace, ma consentirebbe all’Italia così “liberata” di prendere il volo, come nazione sovrana, non più messa ai margini, discriminata sia nella Nato che nella UE. Per questo il “guerra alla guerra imperialista” della Rete suona alle nostre orecchie, in modo inequivocabile, così: guerra alla guerra della Nato a cui purtroppo l’Italia è subalterna, invece di scegliere l’altra parte, il blocco in formazione Russia-Cina, etc., che darebbe all’Italia maggiore libertà di movimento. Il movimento “contro la guerra” dovrebbe fare da portatore d’acqua a questa prospettiva strategica. Oppure a quella di Potere al popolo-Unione popolare, “lo spezzone politico più numeroso” presente a Genova, il cui “capo politico” De Magistris si lamenta anche lui della “subalternità dell’Europa, dei leader europei, della stessa Italia verso gli Stati Uniti” e indica come suo obiettivo una diversa UE, un’Europa “sociale” meno succube degli interessi statunitensi (sempre imperialista, o no?).

Ecco perché noi della Tir abbiamo visto nella piazza di Genova due facce: da un lato la chiamata dei portuali del Calp contro i traffici d’armi e la guerra a cui dare risposta; dall’altro la prospettiva politica (o le prospettive politiche ispiratrici) degli organizzatori, da criticare in quanto “sovraniste”, cioè social-nazionaliste. Contro l’invio delle armi al governo Zelensky, contro la Nato – fin qui ci siamo, è banale; ma mai in modo chiaro, esplicito, frontale contro il primo nemico che è in “casa nostra”, il capitalismo imperialista italiano, mai assunto come socio fondatore e parte integrante sia della UE che della Nato, contro cui concentrare la nostra battaglia. Il primo nemico appare sempre esterno ai confini nazionali. E mai nulla contro il massacro in corso degli ucraini (borghesi? tutti nazisti?) ad opera della Russia iper-capitalista (o no?); quella Russia che con Putin ha rivendicato ancora nel suo discorso del 21 febbraio, attraverso le parole del ministro zarista Pjotr Arkadjevic Stolypin, “un diritto supremo storico: il diritto della Russia ad essere forte”. Sempre pronti al sospetto, se non al disprezzo, invece, verso ciò che si muove a livello proletario e sociale nei paesi del campo anti-occidentale, Russia, Cina, Iran, etc. Un’attitudine, una scelta di campo che nulla ha a che vedere con l’internazionalismo proletario, con l’insegna “proletari di tutti i paesi unitevi”, sostituita da un’altra prospettiva incompatibile con essa: “nemici, avversari e concorrenti degli Stati Uniti (e della Germania) uniamoci, al di là delle classi, e costruiamo insieme un mondo (capitalistico) multipolare”.

Sennonché, date le ferree regole che reggono il capitalismo, lo sconquasso, mille volte benvenuto!, del vecchio ordine mondiale a stelle e strisce in corso da tempo non può che coincidere con un feroce scontro globale, anche bellico, tra le potenze del capitale declinanti e quelle ascendenti. Chi isola la guerra in Ucraina dal processo globale è un cialtrone, o un baro. La spartizione di fatto dell’Ucraina somiglia sempre più, maledettamente, alla spartizione della Polonia tra la Germania nazista e l’Unione sovietica (senza soviet) – quella realmente sovietica, lo ricordiamo ai leninisti distratti, pur di affrettare la rivoluzione in Germania e oltre, cedette territorio russo, e quanto!, anziché arraffarne. E riconobbe il diritto alla autodeterminazione nazionale degli ucraini, anziché derubricare l’Ucraina a creazione artificiale dei bolscevichi, come ha fatto Putin e il codazzo di suoi ammiratori “di sinistra”. Nel concretizzarsi, già in corso, del provvisorio multipolarismo, la sola posizione di classe per profittare a nostro vantaggio delle acutissime contraddizioni inter-capitalistiche, e della incapacità dei grandi stati del capitale di regolarle diversamente che con la guerra, è lavorare all’unità degli sfruttati e degli oppressi di tutto il mondo contro la classe dei capitalisti di tutto il mondo. Nel caso della guerra in Ucraina perseguire la sconfitta del “nostro” governo, del “nostro” stato, del “nostro” fronte imperialista dando la solidarietà ai fratelli di classe e di lotta che, nell’altro campo, si battono contro i loro sfruttatori e i loro governi. Anche in questo caso i lavoratori ed i compagni che hanno manifestato a Genova si trovano di fronte a scelte non aggirabili: contro tutte le guerre del capitale e delle grandi potenze capitalistiche, o solo contro le guerre della Nato? Per l’unità di classe tra i proletari di tutto il mondo, di Occidente e Oriente, del Nord e del Sud, o per un fronte inter-classista sotto la guida dei grandi stati capitalistici anti-occidentali? Anticapitalisti rivoluzionari o antiamericani nazionalisti/europeisti? Comunisti o italiani/europei? Una terza via non c’è.

Potrà non piacere a Tizio o a Caio, affari loro, ma la prospettiva internazionalista per cui ci battiamo è stata assai più presente nelle piazze chiamate dal SI Cobas e da altri organismi a Milano, Bologna, Roma (e con le caratteristiche di un presidio, a Venezia). In particolare nella piazza di Milano spiccava la corposa presenza di proletari immigrati che sono stati in prima fila in un forte ciclo di lotte operaie della logistica e hanno vissuto in esse anche una certa maturazione della propria coscienza politica, specie contro le guerre, il cui orrore in molti hanno dovuto sperimentare di persona – a differenza della grandissima parte dei lavoratori italiani ed europei. In un suo comunicato il SI Cobas ha rivendicato orgogliosamente lo sforzo compiuto da anni in questa direzione, anche se a nessuno può sfuggire che il lavoro ancora da fare è, in tutti i campi, enorme: “Pur in assenza ancora di quella mobilitazione generalizzata e di massa contro la guerra, di cui ci sarebbe assoluto bisogno, la nostra organizzazione ha ancora una volta dimostrato che il protagonismo dei lavoratori in lotta può e dev’essere un solido punto di riferimento per l’insieme di coloro che intendono opporsi coerentemente alla guerra, alla corsa al riarmo e all’economia di guerra imposta dal governo Meloni: un punto di riferimento che, operando sul terreno della difesa degli interessi immediati e concreti della parte più avanzata della classe, si pone nella prospettiva della ricomposizione di un movimento reale che sia capace di mettere all’ordine del giorno il superamento di quel sistema capitalistico che è la vera e l’unica causa delle guerre, dell’oppressione e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo”.

In effetti la messa in moto di settori combattivi della classe lavoratrice è essenziale per la formazione di un movimento di massa contro la guerra che ancora non c’è in Italia. Ed è altrettanto essenziale il protagonismo dei lavoratori per sé, non come donatori di sangue per i “propri” padroni, la “propria” nazione, o i “propri” portavoce aspiranti ai seggi in parlamento. Per dialogare con i manifestanti delle altre piazze del 25, che non sono affatto alternativi tra loro allo stesso modo in cui lo sono invece le prospettive del pacifismo filo-Nato, del social-nazionalismo, dell’internazionalismo proletario. Per sviluppare una mobilitazione contro la guerra in Ucraina e tutte le guerre del capitale di ben altra ampiezza di quella attuale, proiettandoci verso la massa tuttora passiva – ciò che non siamo riusciti a fare neppure in questa circostanza. Per ricomporre l’unità di classe su posizioni autonome, indipendenti da ogni frazione borghese, del grande come del piccolo capitale, sia interna che internazionale. Per il “superamento del capitalismo”, un sistema sociale decrepito, non certo per la sua ristrutturazione in senso multipolare. Per tessere legami con tutte le forze per le quali l’internazionalismo rivoluzionario, la rivoluzione sociale internazionale, è tutto.

2 marzo

Tendenza internazionalista rivoluzionaria

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