Dopo lunghi mesi di precipitazioni scarsissime, sono cadute piogge fin troppo abbondanti, innescando anche fenomeni alluvionali come avvenuto in Romagna.
Ma questa abbondanza di piogge ha invertito la rotta della scarsità idrica nel nostro Paese?
Per rispondere, è utile fare ricorso all’indice di stress idrico che misura il rapporto tra prelievi idrici totali e disponibilità di acqua dolce (superficiale e sotterranea) in un dato territorio, indicando se questi sono in equilibrio, o se la bilancia rischia di pendere dalla parte sbagliata.
Il calo delle nostre riserve idriche
Confrontando la risorsa idrica rinnovabile disponibile in media nel trentennio 1951-1980 con quella dell’ultimo trentennio (1991-2020), si nota che l’Italia ha perso il 13% della sua risorsa idrica, pari a 19 miliardi di metri cubi di acqua: poco meno del volume dell’intero Lago di Garda e circa due terzi di tutta l’acqua che ogni anno viene prelevata dall’ambiente per sostenere le attività umane.
Un calo che interessa in maniera variabile le diverse aree del nostro Paese, ma che inequivocabilmente si lega a fenomeni climatici di lungo periodo: precipitazioni minori o più concentrate, incremento delle temperature medie con conseguente aumento dell’evaporazione, riduzione della risorsa rappresentata da neve e ghiacci. Un ulteriore segno dei cambiamenti climatici, causati principalmente dallo sfruttamento dei combustibili fossili.
Lo stress idrico nel nostro Paese: meno acqua, prelievi eccessivi
Confrontando la disponibilità idrica media degli ultimi 30 anni con i prelievi medi degli ultimi cinque, il bacino del Po risulta l’area italiana con un maggiore livello di stress idrico, quasi doppio rispetto a zone storicamente considerate più a rischio come il Sud Italia o le grandi isole.
Un quadro inaspettato per la terra che ospita i più grandi fiumi e laghi italiani, che si spiega considerando i prelievi idrici destinati alle attività umane: più della metà della quota nazionale è infatti concentrata nel distretto padano, dove circa il 70% dell’acqua serve all’agricoltura.
La questione valica però i confini regionali: anche a livello nazionale oltre la metà dei 30 miliardi di metri cubi prelevati è destinata all’agricoltura (56%), ma se due terzi di quest’acqua sono utilizzati proprio nel Bacino del Po, è perché qui si concentra la produzione agricola e zootecnica di tutta Italia, con colture che richiedono molta acqua, come il mais destinato a diventare mangime. Il livello di stress idrico di quel territorio, così come la sua tutela, devono quindi essere affrontati in modo sistemico a livello nazionale.
Acqua per il cibo o per i mangimi animali?
È naturale che l’agricoltura rappresenti l’uso prioritario (e più abbondante) di acqua, poiché da essa dipende anche la nostra sicurezza alimentare. Ma è possibile individuare delle soluzioni per alleggerire la pressione di questo settore sulle risorse idriche?
La prima esigenza è quella conoscitiva: l’acqua utilizzata in agricoltura non viene “registrata” annualmente come quella distribuita tramite gli acquedotti, per cui è estremamente difficile ricostruire le modalità con cui viene utilizzata.
Secondo le stime più aggiornate, un terzo dell’acqua usata per irrigare le nostre coltivazioni serve a produrre mangimi per la filiera zootecnica: tra le coltivazioni che in Italia richiedono più acqua, troviamo infatti il riso, il mais e le foraggere, le ultime due delle quali principalmente destinate agli allevamenti intensivi italiani, pur coprendo appena un quarto del loro fabbisogno.
Questo avviene perché il numero dei capi allevati e i livelli di consumo di prodotti di origine animale sono troppo elevati e richiedono quindi una quantità di risorse (acqua in primis) eccessiva per l’attuale, e soprattutto futura, disponibilità.
Senza acqua e suolo, non c’è cibo
Secondo Stefano Tersigni, primo ricercatore ISTAT, lo stress idrico rappresenta un fattore di rischio in più nel favorire la desertificazione in Italia: «Il modello agricolo che si è sviluppato negli ultimi 50 anni non è più adeguato alle risorse oggi disponibili, perché utilizza troppe risorse ed è poco resiliente ai cambiamenti climatici». Secondo l’esperto, bisogna «modificare i sistemi d’irrigazione e adottarne di più efficienti, ma anche orientare le scelte verso coltivazioni e modelli agricoli meno idroesigenti».
È dunque necessario pianificare un uso efficiente della risorsa idrica nel settore agricolo, a partire da una riduzione delle produzioni a più elevato consumo d’acqua, come quelle legate al sistema degli allevamenti intensivi. Per favorire la conservazione e l’infiltrazione di questa preziosa risorsa, è inoltre urgente ripristinare la salute dei suoli, attraverso misure come la messa a riposo dei terreni e l’aumento di aree naturali all’interno delle aree agricole, funzionali non solo alla tutela della biodiversità ma anche alla ritenzione idrica.
D’altronde, i dati mostrano chiaramente che senza una trasformazione del nostro sistema agricolo in chiave agroecologica, che parta dall’affrontare l’agricoltura e la zootecnia intensive, nessuna soluzione che ambisca ad aumentare la disponibilità idrica potrà essere sufficiente. Già oggi si stima che circa il 20% del territorio italiano rischia di diventare incoltivabile: la posta in gioco è dunque la nostra sicurezza alimentare e produrre e consumare meno carne è un prezzo equo da pagare per costruire un sistema agroalimentare in equilibrio con le nostre risorse idriche.