La guerra in Europa è ritornata in gran stile un anno fa.
A Est, non tanto lontano, fra Russia e Ucraina. Per ora.
Come immaginato, non è finita e non finirà presto.
Morte, sciagure, tragedie senza fine per milioni di persone, poveri figli di Dio e di nessuno.
E non s’intravvedono uomini di pace all’orizzonte.
Stefano Deliperi, Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)
A.N.S.A., 23 febbraio 2023
Ucraina: la guerra un anno dopo. Il 24 febbraio 2022 l’invasione.
Sono trascorsi 12 mesi di morte, distruzioni, atrocità ed escalation. E non si vede la fine. (Alessandro Logroscino)
I sogni, a volte, possono morire anche prima dell’alba.
La notte fra il 23 e il 24 febbraio di un anno fa, quando il mondo ha saputo che sì, la Russia di Vladimir Putin aveva davvero scatenato un’invasione vecchia maniera su larga scala in Ucraina, è morto ciò che restava del sogno – o del miraggio – dei cantori della fine della storia.
Da allora sono trascorsi 12 mesi di morte, distruzioni, atrocità ed escalation; e di quella guerra – ribattezzata in principio “operazione militare speciale” nella neolingua orwelliana del Cremlino – non si vede la fine. Se non nella prospettiva (o nelle velleità) di una qualche resa incondizionata del fronte nemico che nessuno, a rigor di logica fattuale e auspici a parte, riesce a spiegare come sia possibile pensare di ottenere evitando di dover giocare prima o poi a dadi con lo spettro di un’apocalisse nucleare.
Qualcosa che l’immaginario collettivo mainstream dell’Occidente aveva sotterrato fra le vaghe memorie degli incubi degli anni ’50 e ’60 del XX secolo almeno a partire dalla stagione suggellata dai proclami di vittoria per l’epilogo della Guerra Fredda all’ombra dell’ammainabandiera sovietico. Epilogo scambiato da molti per una vittoria militare vera, rivendicato come la pretesa di un che di definitivo. Ma in realtà mai consolidato in nulla di condiviso fra i vincitori dichiarati e i presunti sconfitti. E in fin dei conti foriero di malintesi pericolosi. In un quadro di sentimenti assai diversi fra ovest ed est del mondo (intesi come spazi sia geografici sia culturali o di mentalità) dinanzi ai progetti di “nuovo ordine mondiale democratico”: evocati dagli uni con le semplificazioni di un autocompiacimento baldanzoso; dagli altri tra recriminazioni, frustrazione, regressioni autoritarie, sospetti a tratti ossessivi. Un panorama di cui oggi restano le scorie, innaffiate dal sangue dei campi di battaglia dell’Ucraina in un panorama che fa sfumare in secondo piano persino gli incubi freschissimi dell’epocale pandemia planetaria da Covid. E le macerie di troppe illusioni.
In Occidente le illusioni alimentate dalla convinzione che la Guerra Fredda potesse essere archiviata ancora una volta come una “war to end all wars”, secondo l’infausta retorica wilsoniana (ripresa da H.G. Wells e tragico inganno del primo conflitto mondiale): “una guerra per mettere fine a tutte le guerre” destinata a partorire come per volere del fato la pace sotto dettatura della democrazia liberale. In Oriente quelle di chi, come Putin, logorato da quasi 25 anni di potere autocratico, ha scommesso infine tutto su un preteso diritto di regolare al dunque i conti geopolitici a costo di sfidare alla fondamenta i principi della legge internazionale; aggrappandosi magari al wishful thinking di riuscire a far implodere le contraddizioni interne ad un asse Usa-Europa che per ora si è semmai compattato.
La storia, in ogni caso, sembra aver girato pagina di nuovo. E solo il tempo potrà dire se verso qualcosa di meno peggio dei sinistri scenari odierni dopo una lunga parentesi di violenza, o verso un terrificante buco nero. Nell’attesa, a pagare il prezzo più alto continuano a essere gli ucraini: protagonisti nei loro confini d’una resistenza coraggiosa in questi mesi, superiore alle aspettative di Mosca e non solo; ma al contempo pedine d’una partita a scacchi (se non ancora d’uno scontro diretto) che li sovrasta in dimensione globale.
La sintesi di quest’anno 1 è una trama di lacrime e sangue, di bombardamenti e mobilitazioni, di denunce di crimini bellici efferati e bollettini di propaganda inevitabili in un contesto di guerra nel quale – come è arcinoto – prima vittima è sempre la verità: macinata dalla macchina della propaganda degli aggressori, e qualche volta pure dagli aggrediti, tra disinformazione, istinto di sopravvivenza, pressione sulla trincea interna, tentativi di condizionamenti incrociati con Paesi amici. Una trama disegnata nelle prime settimane dall’azzardo di un’invasione su più fronti; poi dall’avanzata russa fermata alle porte di Kiev (e macchiata fin da subito, fallimento o diversione che fosse, da brutali atti di ferocia come a Bucha); dalla presa di Mariupol fra le devastazioni dell’Azovstal; dalla sorprendente controffensiva ucraina a Kherson; dall’escalation missilistica del generale Surovikin su infrastrutture strategiche anche civili; dalla parallela escalation degli aiuti militari degli alleati Nato alle forze del presidente Volodymyr Zelensky; e dalla transizione da una strategia militare in parte di manovra a una guerra di attrito inesorabile (nelle intenzioni di Mosca) come 80 o 100 anni fa.
Sullo sfondo di un innalzamento della posta per gli attori in campo fino alla sopravvivenza stessa di leadership, territori e Stati che minaccia i margini d’un qualsiasi compromesso futuro.
Mentre la “terza guerra mondiale a pezzi” evocata a suo tempo da papa Francesco sembra trasformarsi nella profezia di uno spaventoso mosaico in via di composizione, cullata da scampoli di narrativa a fumetti che – dalla politica, ai media, a frotte d’ignari avventori del bar sport dei social – paiono talora rompere gli argini di ogni tabù. Tanto da indurre gli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists, custodi di una certa idea di disarmo e pacifismo sempre più fuori moda, a spostare le lancette del loro orologio dell’Armageddon (il Doomsday Clock) da 100 a 90 secondi “alla mezzanotte”: mai così vicino, dal 1947 in avanti, alla buia ora X di un potenziale olocausto dell’umanità.
La Transnistria sospesa tra Chisinau e Mosca.
1.500 soldati russi e armi nella striscia di terra moldava.
L’ultima mossa che arriva dal Cremlino è la revoca del decreto del 2012 in cui si metteva tra gli obiettivi la “soluzione del problema della Transnistria” basandosi “sul rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale” della Moldavia.
Così, il rischio di uno scontro aumenta e una striscia di terra grande 3 volte e mezzo l’area di Roma potrebbe diventare determinante nella guerra tra Russia e Ucraina.
L’autoproclamata repubblica di Transnistria si trova all’interno dei confini della Moldavia, lungo la frontiera con l’Ucraina sud-occidentale. Nel 1990 il Paese si dichiarò indipendente in modo unilaterale con un referendum che ottenne quasi il 90% delle preferenze: era il preludio della guerra. Le autorità di Tiraspol rivendicavano di essere il vero Stato moldavo e quando, nel 1991, la Moldavia divenne indipendente dall’Unione Sovietica, inserendo tra i suoi possedimenti anche il territorio della repubblica separatista, lo scontro ci mise poco a divampare. Il conflitto scoppiò nei primi mesi del 1992: Tiraspol, con il determinante aiuto dei russi, sconfisse presto Chisinau. Il cessate il fuoco venne mediato da Mosca, con la conseguente formazione di forze di peacekeeping con contingenti misti di Moldavia, Russia e Transnistria. La tregua raggiunta nel luglio del 1992 stabilì de facto non solo la separazione dei due Paesi, ma anche la permanenza di 1.500 soldati russi nella base militare del villaggio di Cobasna. Qui sono immagazzinate armi che potrebbero rivelarsi fondamentali in un eventuale attacco verso la Moldavia. O verso l’Ucraina..
Nonostante la vicinanza con Mosca, la repubblica separatista non confina direttamente con il territorio sotto il controllo del Cremlino e le sue relazioni con la Moldavia hanno trovato un punto di equilibrio, soprattutto a seguito di tre avvenimenti. Primo, la sconfitta alle elezioni del 2011 del candidato filo-russo Anatoly Kaminsky che, in accordo con il Cremlino, sosteneva un percorso di indipendenza sia dalla Russia sia dalla Moldavia. Poi, dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014, la richiesta di Tiraspol di essere integrata nella Federazione Russa, rifiutata da quest’ultima. Infine, l’elezione alla presidenza di Vadim Krasnoselsky, votato per la prima volta nel 2016 e riconfermato nel 2021. Questi fatti hanno in parte avvicinato la Transnistria alla Moldavia e all’Ue. I cittadini hanno quasi tutta la doppia (o tripla) cittadinanza, essendo la popolazione divisa quasi equamente tra ucraini, moldavi e russi, e possono attraversare il confine con la Moldavia. Anche dal punto di vista economico la relazione rimane forte: circa il 70% dell’export di Tiraspol si dirige verso l’Ue grazie agli accordi tra Bruxelles e Chisinau (Dcfta).
Questo non significa che Mosca abbia perso tutta la sua influenza sull’area: dalla Russia arriva la maggior parte delle rimesse e il Paese ha un ruolo centrale nella fornitura di energia elettrica e di gas. Ma Mosca non ha mai riconosciuto l’indipendenza della Transnistria: la strategia del Cremlino prevedeva il reintegro della regione nella Moldavia, uno status speciale per la repubblica separatista e il mantenimento della presenza militare russa nel Paese. Una soluzione ovviamente rifiutata da Chisinau. Dopo l’allarme sul possibile attacco di Mosca alla Moldavia, lanciato dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky e confermato dalla presidente europeista moldava Maia Sandu, i recenti avvenimenti aumentano il rischio di uno scontro.
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