La scelta delle parole

2 months ago 345

Un lettore ci ha fatto notare una cosa di cui noi siamo a conoscenza da tempo, ma che riteniamo vada spiegata più a fondo di quanto normalmente facciamo.

Sto parlando dell’uso – intenzionale da parte di certi soggetti – di specifiche parole. Parole che dirigono la narrazione, la “inquadrano“, che servono in qualche maniera a manipolare le aspettative del lettore nei confronti dell’articolo che si appresta a leggere. Parole che bastano e avanzano a disinformare.

Per chiarirci, oggi useremo l’esempio che ci è stato mostrato dal nostro attento lettore, tramite l’uso della parola “ammette”.

3000 morti: Pfizer ammette con freddezza il dramma dei danneggiati

Anthony Fauci ammette: “Regole covid sono inventate”/ “Non c’è nessuno studio su mascherine e distanziamento”

Ammette, terza persona presente indicativo del verbo ammettere, da Treccani:

Riconoscere, consentire: ail proprio erroreadi aver tortoain giudizio le proprie responsabilitàala buona fede dell’avversarioammetto che sia così.

Pfizer e Fauci hanno riconosciuto degli errori? No, nessuno dei due ha riconosciuto alcunché, eppure ci sono legioni di persone convinte che l’abbiano fatto, il tutto grazie all’uso della parola “ammettere” nei titoli e negli articoli di cui vi abbiamo portato due esempi.

I giornalisti, quando professionisti, dovrebbero dosare le parole nella maniera corretta, evitando facili sensazionalismi, e invece, anche grazie a redazioni e editori che giocano moltissimo sull’uso di titoli ad effetto (a volte con articoli che invece non hanno nulla di particolarmente sensazionalista), è un fiorire di ammissioni che in realtà ammissioni non erano. L’etica, nel selezionare le parole, dovrebbe venire prima di tutto, ma qui i giornalisti sono chiaramente consapevoli del potere delle parole che scelgono di usare, e le usano apposta proprio in virtù di questo, quando invece dovrebbero avere cura per l’integrità dell’informazione.

Nei due casi specifici i titoli avrebbero potuto essere diversi, se gli autori avessero voluto raccontare fatti e non fare leva sul sensazionalismo.

Ad esempio si sarebbe potuto titolare:

Il rapporto Pfizer evidenzia come nelle segnalazioni spontanee di reazioni al vaccino si siano registrate 3000 morti, andrà verificato se correlate alla vaccinazione

O ancora:

Fauci nella sua deposizione ha spiegato che non è stato lui a decidere le linee guida imposte sul distanziamento

Ovviamente titoli così fatti attirano meno lettori.

Purtroppo questo modus operandi legato al sensazionalismo nel nostro Paese ha preso sempre più piede. Quante volte abbiamo dovuto mostrarvi come da titoli anglofoni che utilizzavano termini come allegedly o supposedly (che spiegano fin da subito che quanto riportato non è stato verificato), si passasse in Italia al presente indicativo, senza alcuna espressione che facesse capire al lettore che ci si stava limitando a riportare ciò che è stato detto da qualcun altro, senza verifica alcuna. Questo lo fanno anche testate nazionali, di quelle a cui il lettore medio è solito affidarsi, non giornaletti locali di scarsa rilevanza.

Solo quando i giornalisti per primi torneranno a informare usando etica e responsabilità potremo sperare di uscire da questo tunnel di disinformazione e sensazionalismo.

L’uso di termini che permettono la manipolazione dei fatti non solo distorce la realtà, ma rischia anche di minare la fiducia dei lettori nei confronti dei media. Media che volenti o nolenti sono la principale fonte d’informazioni per la popolazione.

Speriamo sempre di vedere l’Ordine dei Giornalisti finalmente cominciare a punire chi sfrutta questo modo di fare informazione, anche senza che ci sia bisogno di volta in volta di segnalare i casi. Purtroppo pur esistendo un codice deontologico al momento ognuno fa come gli pare.

maicolengel at butac punto it

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