Perché lo sviluppo delle fonti rinnovabili distribuite non si è trasformato in un movimento di massa e anzi incontra spesso tanto ostilità nel nostro Paese?
Quali sono le differenze con altri Paesi europei che, al contrario, registrano esperienze positive e qual è il ruolo che (non) hanno giocato le associazioni ambientaliste, dei consumatori e del terzo settore in Italia?
Infine, come le Comunità energetiche potranno avere un ruolo rilevante nel migliorare il livello di accettabilità sociale degli impianti a fonti rinnovabili, se non addirittura accendere l’entusiasmo della società civile in Italia?
Di questo si è discusso nel corso del convegno “Accettabilità sociale di rinnovabili e infrastrutture energetiche: come coinvolgere la cittadinanza”, organizzato a Padova il 27 aprile dal Centro Studi di Economia e Tecnica dell’Energia Giorgio Levi Cases.
Energia e fonti rinnovabili in Italia: il ruolo della società civile organizzata dagli anni ‘90
Con l’eccezione del forte movimento di opinione che ha dato origine al referendum sul nucleare, secondo Giorgio Osti, del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università degli studi di Padova, che abbiamo intervistato a margine del convegno, “il movimento ambientalista è rimasto piuttosto tiepido sul tema dell’energia; non si è particolarmente mobilitato a riguardo se non, più recentemente e indirettamente, per le campagne sul cambiamento climatico; peraltro la parte più conservatrice si è esposta anche contro le rinnovabili, in particolare l’eolico”.
“Dal punto di vista delle organizzazioni dei consumatori – continua Osti – è più rilevante che i beni siano accessibili, abbiano un prezzo basso, considerando l’energia più che altro da un punto economico”.
Neppure quello che Osti chiama il “movimento per l’installazione dei pannelli fotovoltaici a livello domestico”, che grazie al Conto Energia ha consentito l’installazione di quasi un milione di impianti fotovoltaici, ha creato le condizioni della mobilitazione sociale che non è solo protesta nelle piazze, ma anche organizzazione e attivismo strategico.
Per attivismo strategico Osti intende l’esistenza di un’organizzazione che fa delle scelte, che le mette in pratica, cerca mezzi in modo efficiente dal punto di vista organizzativo. “Ad esempio in passato – spiega – abbiamo avuto la rivoluzione industriale e quella dei consumi di massa che hanno prodotto non solo beni a basso costo per tanti, ma anche il fenomeno sindacale, da un lato, e le cooperative di consumo, dall’altro”.
Sul fronte energetico la filiera della produzione di energia da fonti fossili “richiedeva grandi investimenti, con un rilievo geopolitico e geostrategico molto rilevante, appannaggio di grandi organizzazioni private e pubbliche che hanno determinato una situazione nella quale la società civile è rimasta schiacciata tra Stato e mercato; le reazioni sociali a questo strapotere dei grandi gruppi energetici, pubblici o privati, sono state tiepide”.
Questa dinamica che ha riguardato le fossili ha avuto caratteristiche abbastanza simili in tutta Europa. Tuttavia, negli altri Paesi europei da oltre dieci anni qualcosa si è mosso: sono nate centinaia di Comunità energetiche partecipate da cittadini, imprese e Pubbliche amministrazioni, che hanno portato in molti casi alla (ri)municipalizzazione dei servizi energetici.
La (ri)municipalizzazione è il ritorno alla proprietà pubblica dei servizi e la creazione di nuovi servizi per i cittadini. La ricerca di Trans National Institute ha identificato oltre 1.408 casi di (ri)municipalizzazioni di successo che hanno coinvolto più di 2.400 città in 58 paesi in tutto il mondo (vedi L’energia fuori dalle logiche di mercato: democrazia e (ri)municipalizzazione).
“Qualche segnale arriva dal nord Europa – ricorda Osti – in particolare dalla Germania nella quale si sono create molte cooperative energetiche e in taluni casi cordate di cooperative hanno tentato di riacquisire le ex municipalizzate dell’energia che erano in mano a grandi imprese private. Tentativi che hanno avuto più successo nei piccoli centri urbani, al contrario di quanto accaduto a Berlino dove la cordata delle cooperative non è riuscita a vincere il bando di aggiudicazione del servizio elettrico locale”.
In Italia le Comunità locali hanno avuto finora una scarsa capacità propositiva, più spesso di opposizione alle rinnovabili, impedendo ad esempio lo sviluppo dell’eolico offshore, soprattutto per ragioni turistiche, e dei grandi impianti fotovoltaici. Vedremo cosa succederà in altri progetti, come l’agrivoltaico. Sappiamo però che c’è una forte opposizione su questa applicazione, come sul mini-idroelettrico.
Le Comunità energetiche rinnovabili
In estrema sintesi, dice Osti, “da un lato abbiamo una protesta irriducibile senza margini di dialogo e dall’altro qualche piccola iniziativa della società civile in campo energetico. Manca però una mediazione che abbia la capacità di fare delle proposte in positivo. Ci dovremmo chiedere se esista un terzo settore per l’energia”.
Se le Comunità energetiche possono essere lo strumento in grado di organizzare la società civile per avviare iniziative in ambito energetico, è allora utile capire quali soggetti potrebbero assumere il compito di mediatori.
Un ruolo lo avranno sicuramente le cooperative energetiche storiche e quelle di più recente costituzione, che già hanno strutturato un loro modello di business, ma che dovranno giocoforza adeguarlo al nuovo modello definito dalla normativa (vedi Evoluzione delle comunità energetiche: riusciranno i cittadini a essere protagonisti?).
Una risposta potrebbe quindi arrivare dal mondo cooperativo. Legacoop ha strutturato una proposta piuttosto articolata (vedi RESPIRA: la piattaforma di servizi per creare comunità energetiche in forma cooperativa) grazie alla quale, attraverso Coopfond, si propone di cofinanziare analisi di fattibilità per la realizzazione di CER in forma cooperativa. La partnership è completata da Banca Etica, per il finanziamento degli impianti, dalla piattaforma di crowdfunding Ecomill, specializzata nella raccolta di capitale equity, e da un gruppo di cooperative che hanno il ruolo di partner tecnici.
Tutti questi attori si stanno tutti mobilitando per sostenere la nascita di comunità energetiche (quando la normativa nazionale sarà completata) ed è probabile che abbiano un certo riscontro di partecipazione. Dovranno però fare i conti con la concorrenza di enti privati e utility pubbliche, anch’esse mobilitate sui progetti di comunità energetiche.
“Il terreno di azione è vastissimo – conferma Osti – e oltre alla durata delle iniziative il vero banco di prova sarà se e come le comunità energetiche prenderanno una piega solidaristica oppure prettamente commerciale in una logica di convenienza economica. Su questo la partita è incerta”.
Resistono comunque altri ostacoli importanti alla realizzazione di Comunità energetiche, oltre alla mancanza di un quadro normativo e finanziario stabile.
Come diceva Lucia Ruggeri dell’Università di Camerino “il principale ostacolo è la mancanza di metodo per la progettazione di lungo periodo nelle Amministrazioni Locali, che faticheranno persino a cogliere l’opportunità dei fondi resi disponibili dal Pnrr per identificare in maniera puntuale i bisogni dei loro territori e rivitalizzarli a partire dalla transizione energetica”.
Non vanno messi poi in secondo piano l’individualismo e la conflittualità tipica della nostra società.
Secondo Ruggeri, “il ricorso a strumenti alternativi per risolvere le liti sembra quanto mai opportuno: un mediatore che componga e prevenga i conflitti e soprattutto faciliti la comunicazione potrebbe essere una buona garanzia per una prolungata durata della comunità energetica. È necessario ripristinare la forte tradizione di uso collettivo delle risorse offerte dalla natura, tipica delle nostre aree; ciò potrebbe essere una garanzia per lo sviluppo e il buon funzionamento delle moderne comunità energetiche, puntando appunto su un senso di appartenenza e di condivisione” (vedi Come abbattere le barriere per costruire Comunità Energetiche sostenibili).