Riceviamo e pubblichiamo questo cotnributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Riprendiamo da La Bottega del Barbieri questa sobria nota di Eric Salerno, autore di uno studio serio, molto documentato sul genocidio commesso dal colonialismo italiano liberale e fascista in Libia (un vero genocidio – non come quello che si imputò alla piccola Jugoslavia ai danni dei kosovari per distruggerla). Lo spunto per tornare su questo crimine gli è stato fornito da quel che ha scritto nei giorni scorsi il Corriere della sera in occasione della recente devastazione di Derna e dal ricordo di un discorso di La Russa, l’attuale seconda carica dello stato. Il foglio storico della borghesia italiana e uno degli eredi del neofascismo concordano nel sostenere senza pudore la diversità del colonialismo italiano, fondatore in Libia di “fattorie modello” e portatore di “amicizia” con i libici. Salerno gli ricorda gli italianissimi “campi di concentramento modello” per gli “amici” libici, anticipazione di quelli per gli ebrei, campi di concentramento modello di cui nessuno parla, così come nessuno parla dei lager italiani per jugoslavi studiati da Alessandra Kersevan.
Redazione Il Pungolo Rosso
Dieci, forse ventimila morti a Derna, cittadina sulla costa orientale della Libia, non distante dall’Egitto e da quel confine che le truppe italiane fasciste segnarono con un chilometrico reticolato di filo spinato per impedire ai ribelli libici di rifugiarsi dopo aver cercato di contrastare l’avanzata italiana.
I soccorsi, raccontano le cronache di queste ore, faticano ad arrivare tra i centri abitati delle «Montagne verdi, la zona agricola più ricca della Libia – leggo sul Corriere della Sera – dove la colonizzazione italiana poco meno di un secolo fa aveva costruito fattorie modello». Fattorie modello e anche… campi di concentramento modello. Esempi di strutture, nella loro semplicità ed efficacia, che furono poi copiate in altri luoghi, in altri paesi dove la repressione collettiva delle popolazioni, o di una parte di esse, era o sarebbe stata all’ordine del giorno.
Non credevo che il ricordo di quella impresa architettonica fosse ancora impressa nella popolazione della zona o nel resto della Cirenaica ma proprio la settimana scorsa – la settimana prima della tragedia che si è abbattuta su Derna – sono stato contattato da un professore dell’Università della vicina Tobruk. Mi chiedeva di partecipare a un incontro tra studiosi e soprattutto studenti per parlare dei campi di concentramento fascisti in Libia. E di quante furono le vittime della conquista italiana.
La prima edizione di Genocidio in Libia uscì nel 1979 e costrinse molti italiani a fare i conti con il passato coloniale del nostro paese. Nell’ultima edizione (Manifesto-Libri) ampliata con il frutto di nuove ricerche, mostrai anche come il passato, talvolta, viene sacrificato sull’altare della convenienza.
«Se non fosse tragico – scrissi – farebbe sorridere lo scambio di convenevoli tra l’allora presidente del Consiglio nazionale di transizione (appoggiato dall’Italia subito dopo la guerra della Nato e la morte di Gheddafi, e che rappresenta una parte della Libia di oggi) Mustafa Abdel Jalil e il ministro della difesa Ignazio La Russa l’8 ottobre 2011, durante le celebrazioni a Tripoli del centenario dell’assalto italiano alla Libia. «Quella del colonialismo italiano – dichiarò Jalil e leggiamo nella cronaca de il manifesto – fu per la Libia un’era di sviluppo. Infatti, il colonialismo italiano portò strade e palazzi ancora oggi bellissimi a Tripoli, Derna, Bengasi; portò sviluppo agricolo, leggi giuste e processi giusti: i libici questo lo sanno benissimo».
Questa “rilettura storica” fu molto apprezzata dal ministro La Russa: «La storia coloniale europea la conosciamo bene, anche con le sue ombre, però l’Italia ha lasciato un segno di amicizia».
Cominciai ad occuparmi dei comportamenti dell’Italia in Libia quando il 7 ottobre 1975, ascoltai il leader libico pronunciare un atto d’accusa al nostro Paese. «Ciò che l’Italia ha commesso nella località di el Agheila rappresenta oggi una lezione storica per l’umanità e un tragico esempio di aggressione, brutalità e barbarie. Esso rispecchia l’arroganza dei forti quando aggrediscono i popoli poveri e deboli».
La Libia con quasi 1.8 milioni di chilometri quadrati è il quarto Paese per superficie dell’Africa. E le ombre del colonialismo, per citare l’attuale presidente del Senato italiano, erano grandi abbastanza da coprire buona parte del territorio. Ci sono quasi 400 chilometri da Derna a Soluch, passando a sud di Bengasi. L’ultima volta che ci sono stato affioravano ancora dalla sabbia del deserto le ossa dei libici morti nel campo di concentramento. Altre tre ore di autostrada per sostare sulla spiaggia non lontano dai resti del campo di El-Agheila, dove venivano internati i ribelli più pericolosi e dove furono registrati il maggior numero di morti.
Parlare di cifre è praticamente impossibile. Molte ricerche furono fatte inutilmente negli archivi dei ministeri italiani che in qualche modo potevano sapere. Ma è credibile, e per difetto, la cifra di 80mila vittime.
La storia della conquista italiana del Paese nordafricano è lunga e complicata. La prima fase fu la sconfitta dell’impero Ottomano. Fu invasa Tripoli. Fra il 1911 e il 1912 ci fu una campagna di deportazioni collettive. La maggior parte di quelli di Tripoli finirono nelle colonie penali di Ustica e nelle Tremiti; quelli da Bengasi, Derna e Homs finirono a Gaeta e Favignana, in pratica colonie penali, soggetti al domicilio coatto. Una misura amministrativa e strumento «preventivo» per l’ordine pubblico che era in vigore in Italia dal 1863. Molti non sono mai tornati alle loro case in Libia.
(*) in “bottega” cfr «Genocidio in Libia» di Eric Salerno ma vale meditare anche su questa Scor-data: 27 settembre 1911 e sulle vicende (il passato che non passa) legate a Omar al-Mukhtar, “Il leone del deserto”: per esempio vedi Monica Macchi: «Il ribelle Omar e il boia di Affile» e Gheddafi, i nazisti, un leone, i film censurati e noi
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