In Italia, complice anche la crisi energetica, si è tornati a parlare di nucleare: una tecnologia, secondo la premier Giorgia Meloni, «può cambiare le carte in tavola» e dare una grossa mano al nostro Paese nella produzione di energia. Uno dei tanti nodi legati al nucleare è però quello dello smistamento delle scorie. Tema annoso per l’Italia che, dopo decenni, è ancora alle prese con la gestione di quelle prodotte fino alla fine degli anni Ottanta (quando ci fu lo stop alle centrali nostrane).
La storia è lunghissima ed è legata principalmente al fatto che ad oggi nel nostro Paese, che continua a produrre rifiuti radioattivi a bassa attività, non esiste un deposito nazionale. Ovvero un sito in cui trattare e stoccare le scorie vecchie e nuove.
Già dagli anni Sessanta l’Italia ha preso accordi con il Regno Unito prima e con la Francia poi (nel 2006) per far gestire il tutto a loro in cambio di denaro. Dei veri e propri accordi commerciali. Dal 2001 ad oggi il nostro Paese, secondo le stime, dovrebbe aver speso circa 1,2 miliardi di euro. Contratti a vita? No, anzi. All’interno di questi accordi con Parigi e Londra è presente anche un altro punto chiave: l’Italia dovrebbe far rientrare le proprie scorie entro il 2025. Da qui la necessità di trovare, o meglio realizzare, un deposito nazionale dei rifiuti radioattivi.
Differenze
Ma andiamo per gradi. Non sono solo le centrali nucleari a produrre le famose scorie. Sono infatti diversi i centri in Italia che attualmente producono o detengono rifiuti radioattivi e provvedono al loro trattamento e stoccaggio. I più numerosi sul territorio nazionale sono i centri di medicina nucleare, fra cui gli ospedali.
Queste strutture trattengono la maggior parte dei rifiuti radioattivi che producono fino al loro completo decadimento, per poi smaltirli come rifiuti convenzionali. La restante parte viene conferita agli operatori del sistema di raccolta e gestione dei rifiuti radioattivi sanitari e industriali, che provvedono al loro stoccaggio nei propri depositi temporanei in attesa, previo trattamento e condizionamento, del conferimento appunto al deposito nazionale.
Il deposito temporaneo, come suggerisce il nome, è una struttura che ha il compito di accogliere i rifiuti per un un determinato periodo di tempo, in attesa del loro trasferimento in un deposito nazionale nel quale stoccarli in via definitiva. Si tratta di impianti già esistenti sul nostro territorio che devono essere ammodernati e dotati di tutti i sistemi di sicurezza previsti dalla normativa.
Il Deposito Nazionale, che al momento nel nostro Paese non esiste, sarebbe un unico sito nel quale confluirebbero tutti i rifiuti radioattivi dell’Italia. Nello specifico un deposito geologico di profondità tale da poter stoccare sia i rifiuti radioattivi prodotti oggi sia quelli ad alta attività ovvero quelli prodotti fino alla fine degli anni Ottanta.
Mappa
Tra le principali strutture in cui si producono e/o si stoccano rifiuti radioattivi in Italia oggi ci sono le quattro centrali nucleari rimaste in esercizio fino alla fine degli anni Ottanta e ora in fase di smantellamento (il processo di decommisioning è gestito da Sogin, società interamente controllata dal Ministero dell’Economia): i quattro siti si trovano a Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta).
A questi si aggiungono quattro impianti del ciclo del combustibile, anch’essi in via di smantellamento (sempre in carico a Sogin insieme ad Enea): Eurex di Saluggia (Vercelli), Itrec di Rotondella (Matera), Ipu e Opec a Casaccia (Roma) e Fn di Bosco Marengo (Alessandria). Poi ancora: il reattore di ricerca a Ispra (Varese). Poi ci sono sette centri di ricerca nucleare: l’Enea a Casaccia, il Ccr di Ispra, il deposito Avogadro a Saluggia, il LivaNova anche questo a Saluggia, il Centro energia e studi nucleari Enrico Fermi a Milano, l’Università di Pavia e l’Università di Palermo. Infine i centri del servizio integrato di gestione dei rifiuti in esercizio: Nucleco a Casaccia, Campoverde a Milano, Protex a Forlì e Cemerad (non più attivo) a Taranto.
La regione che ospita la quantità maggiore di rifiuti radioattivi è il Lazio, con 9.591 metri cubi (il 30,78% del totale nazionale), seguita da Lombardia (6.462 mc: il 20,74%), Piemonte (5.923 mc: il 19,01%), Basilicata (3.857 mc: il 12,38%), Campania (2.495 mc: il 8,01%), Emilia Romagna (1.167 mc, il 3,74%), Toscana (1.038 mc: il 3,33%) e Puglia (625 mc: il 2,01%).
I 51 siti
Il 99% del combustibile nucleare irraggiato – cioè allontanato dal reattore nucleare dove è avvenuta la fissione – proveniente dalle quattro centrali nucleari nazionali dismesse non si trova più in Italia, ma in Francia e in Gran Bretagna. Nel 2025 però, stando agli attuali accordi, dovrebbero tornare nel nostro Paese ed essere stoccato in una o più strutture ad hoc. Da qui la necessità di individuare un sito in cui far sorgere il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, richiesto anche – particolare non da poco – dalle norme dell’Unione Europea. Compito non facile per il Governo.
Già nel 2003 l’allora premier Silvio Berlusconi fu infatti costretto a fare marcia indietro sulla discarica a Scanzano Jonico, in Basilicata, dopo la rivolta dell’intera regione. Alzata di scudi che questa volta c’è stata da parte di altre regioni e comuni che potrebbero essere coinvolti. Nessuno insomma avrebbe intenzione di far sorgere il deposito nazionale sul proprio territorio.
«Tutti i giorni produciamo scorie nucleari a bassa e media intensità. In questo momento abbiamo 30 e più siti di stoccaggio. La cosa bella sarebbe ridurli a uno. Altrimenti, uno al Nord, uno al Centro e uno al Sud. È una valutazione da fare», ha dichiarato il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, a margine di una convegno di Confindustria a Roma lo scorso settembre. «Sul deposito geologico», quello per le scorie ad alta radioattività, provenienti dalle centrali dismesse, «possono esserci soluzioni diverse. Possiamo anche lasciarle in Francia, facendo pagare noi e i nostri figli a vita», ha aggiunto il ministro.
Intanto la Sogin, la società pubblica per lo smantellamento delle vecchie centrali, ha individuato 51 aree in Italia (la maggior parte – 21 – nel Lazio) dove si potrebbe costruire il deposito. Ma nessuno dei Comuni interessati ha detto sì. Anzi, i municipi hanno tutti rilanciato la palla vero il ministro Pichetto, che ha precisato che «va avanti la procedura di Valutazione di impatto ambientale sui 51 siti», quelli individuati nella Carta nazionale delle aree idonee (Cnai) preparata dalla Sogin.
La mappa individua 51 siti in 6 regioni: Basilicata, Puglia, Lazio, Piemonte, Sardegna, Sicilia. «Su quella valutiamo». Insomma, valutazioni in corso. Ma il problema andrà risolto al più presto. Anche se non si deciderà di tornare a produrre energia nucleare sul nostro territorio. Figuriamoci in caso contrario.