di Marco Cappadonia Mastrolorenzi
Chi frequenta i corsi e le pubblicazioni del CICAP conosce sicuramente i cosiddetti “oggetti fuori dal tempo”: quegli strani manufatti che, secondo alcuni, non dovrebbero trovarsi in un periodo temporale perché considerati fuori dalle tecnologie e dalle conoscenze di quella civiltà. Fu il criptozoologo Ivan Sanderson a battezzare questi oggetti “misteriosi” OOPArt, Out Of Place Artifacts («reperti fuori posto»).
Sanderson individuò vari reperti archeologici e paleontologici che, a suo modo di vedere, non potevano esistere nel periodo a cui si riferivano le datazioni ufficiali. Nacque così quella fascinazione per l’inconsueto che prese il nome di “archeologia del mistero”. Ma cosa dice la scienza su questi reperti “fuori posto”? Ad oggi, non sono state trovate prove per poter parlare di «fenomeni anacronistici» reali. Molti OOPArt sono stati datati con precisione e, dopo attenti studi scientifici, sono stati ritenuti del tutto coerenti con le conoscenze tecnologiche del periodo interessato. Qualcuno, tuttavia, potrebbe obiettare che vari reperti necessitano ancora di una risposta precisa e di una spiegazione scientifica. Questo può dipendere dal fatto che la descrizione di un reperto è talmente incompleta da rendere complicata un’analisi approfondita. In alcuni casi, poi, gli oggetti nemmeno esistono oppure, pur avendo i mezzi e le tecnologie per analizzarli, abbiamo notizie descrittive ma nessun oggetto reale da studiare. La maggior parte degli oggetti definiti “fuori tempo”, oramai, sono stati spiegati.
In questa sede si possono ricordare alcuni marchingegni, come la “macchina di Anticitera”, un meccanismo per il calcolo astronomico ritrovato in un relitto marittimo e risalente all’87 a.C., oppure la cosiddetta “batteria di Baghdad”, ritrovata durante alcuni scavi in una zona archeologica della civiltà Parta (248 a.C. e il 226 d.C). Di cosa si tratta? Una giara in ceramica contenente una sorta di guaina di metallo che avvolge un cilindro di ferro con un tappo in asfalto. Riempita di un liquido acido, avrebbe potuto produrre energia simile al sistema carbone-zinco? Sono state fatte varie ipotesi sul suo utilizzo, tra cui sul fatto che si trattasse di un caso, oppure si è pensato a un processo utilizzato per la placcatura dei pezzi di metallo come protezione dagli agenti ossidanti, al fine di conservare i rotoli di papiro.
Possiamo ricordare anche il “vaso di Dorchester”, ritenuto vecchio di 320 milioni di anni, ma si è in seguito scoperto che non avesse nulla di tanto antico (probabilmente una burla), così come le pietre di Ica in Perù che non risalivano a 66 milioni di anni fa, ma erano dei falsi costruiti dalla popolazione locale a scopi commerciali. Oppure ci sono l’elicottero e il carro armato incisi su un bassorilievo del Tempio di Abydos, una delle più antiche città dell’Alto Egitto. Con l’intervento degli addetti ai lavori si è capito che si tratta di immagini generate casualmente dalla sovrapposizione di più strati di simboli: esempio di pareidolia, ovvero di illusioni ottiche che tendono a ricondurre a forme note oggetti o segni dalla forma casuale.
O ancora: i famosi teschi di cristallo, attribuiti a civiltà precolombiane, rivelatisi poi dei clamorosi falsi fabbricati alla metà del XIX secolo. Possiamo ancora rammentare l’astronauta di Palenque (in Messico), una raffigurazione che si trova sul coperchio di un sarcofago contenente i resti del re Maya Pakal, rappresentato nel passaggio dalla vita alla morte. Per molto tempo c’è chi ha sostenuto che si trattasse di un astronauta proveniente da un altro pianeta o di un viaggiatore nel tempo che si trovava a bordo di un missile, scambiando, così, raffigurazioni religiose per oggetti fuori dal tempo.
Un altro oggetto particolare è il cosiddetto “geode di Coso”, scoperto all’inizio degli anni Sessanta del Novecento a Coso Junction, in California, da tre ricercatori di pietre rare. In seguito si è scoperto che si trattava di una roccia argillosa – quindi non un geode (roccia magmatica rivestita di cristalli) – contenente una candela da motore a scoppio degli anni Venti del Novecento (una Champion). Uno scherzo ben congegnato che si risolse definitivamente nel 1999. Ma questo particolare oggetto è poi andato perduto.
Esiste un genere narrativo che rappresenta la versione letteraria degli OOPArt. È lo «steampunk» (da steam = vapore): indica la narrativa fantastica o fantascientifica in cui si racconta di tecnologie anacronistiche inserite in contesti storici del passato, come può essere l’Ottocento vittoriano inglese dei romanzi di Arthur Conan Doyle o di George Wells, che nel 1895 pubblicò «The Time Machine». Un precursore di questo genere fu lo scrittore francese Jules Verne con i romanzi «Viaggio al centro della Terra», «Dalla Terra alla luna», «Ventimila leghe sotto i mari» e «Robur il conquistatore».
Nei testi steampunk troviamo strumentazioni azionate dall’energia a vapore o elettrica, computer meccanici in grado di fare mirabilie, congegni a orologeria: si immagina come sarebbe stato il passato se il futuro fosse arrivato nel Medioevo o in un periodo storico che precede la contemporaneità (ma c’è interesse anche per la robotica e le nanotecnologie). Il termine steampunk fu reso noto dallo scrittore statunitense Kevin Wayne Jeter nel 1987 con il romanzo «Le macchine infernali». Il lemma nasce in realtà da una costola del «Cyberpunk», ovvero dal genere letterario che si concentra sulla pericolosità dell’uso senza limiti di certe tecnologie, proiettate in un futuro alternativo e improbabile. «Le macchine infernali», per esempio, può essere considerato il capolavoro di genere: la storia si svolge nella Londra dell’Ottocento, dove vive il protagonista George Dower che eredita il negozio di suo padre. Una strana bottega di ordigni meccanici che nessuno sa precisamente a cosa servano.
Un altro romanzo di successo è la «La macchina della realtà» del 1990, scritto da William Gibson e Bruce Sterling. Racconta storie che attingono a un periodo vittoriano alternativo, dove lo scienziato visionario Charles Babbage costruisce un avanzato computer meccanico, anticipando così di un centinaio di anni la rivoluzione informatica. Occorre ricordare anche lo scrittore Paul Di Filippo, che alla metà degli anni Novanta pubblica una trilogia steampunk: «Vittoria», «Il feticcio rubato» e «Walt e Emily», in cui si immagina, rispettivamente, che la regina Vittoria sia sostituita da un clone, i mostri ideati dallo scrittore Howard Lovecraft invadano il Massachusetts, e gli scrittori Walt Whitman e Emily Dickinson vivano una storia d’amore travolgente.
Abbiamo poi grandi esempi nel mondo del cinema, come nella pellicola «La leggenda degli uomini straordinari», un adattamento della serie fumettistica di Alan Moore e Kevin O’Neill dal titolo «La Lega degli Straordinari Gentlemen». Esiste anche un filone western («Wild Wild West» del 1999) e, prima ancora, la mitica trilogia di «Ritorno al Futuro». Altri titoli noti sono «The Time Machine» del 2002, «Van Helsing» del 2004, «The Prestige» del 2006, «Sherlock Holmes» del 2009, «I Tre Moschettieri» del 2011, «Macchine Mortali» del 2018 e l’elenco potrebbe continuare. Non mancano i fumetti come «Batman», «Paperinik», «Topolino», i manga, la musica, le serie televisive (come «Carnival Row»).
Bibliografia
- https://www.cicap.org/n/articolo.php?id=102187
- S. Bagnasco, A. Ferrero, B. Mautino, “Sulla scena del mistero. Guida scientifica all’analisi dei fenomeni inspiegabili”, Sironi
- M. Polidoro, “Gli enigmi della storia”, Piemme
- M.C. Mastrolorenzi, “Stasera al Giardino di Boboli”, C1V
Immagine: una pietra di Ica, foto di Brattarb, da Wikimedia Commons, licenza CC BY-SA 3.0