Quando l’assassino ha il camice: gli angeli della morte

1 year ago 71

di Marianna Cuccuru

Con l’espressione, molto evocativa, “Angeli della morte” ci si riferisce a quella peculiare tipologia di killer seriali che agiscono in ambito sanitario, ai danni di coloro che dovrebbero beneficiare delle loro cure, pazienti o comunque soggetti da loro accuditi. Si tratta di assassini (possono essere sia medici sia infermieri) particolarmente subdoli e pericolosi, poiché spesso i loro delitti passano per morti naturali e non danno origine ad alcuna indagine. Le vittime rientrano spesso nel numero oscuro delle vittime di delitti non classificate come tali.

Il tossicologo forense Robert Forrest ha proposto una diversa definizione di questo tipo di crimini: CASK, Carer-Assisted Serial Killing, cioè omicidio seriale tra persona che cura e assistito, anche se la denominazione Angeli della Morte resta la più utilizzata. [1]

A livello statistico, essendo tra i più difficili da individuare, hanno spesso una carriera criminale molto lunga, con una media di vittime superiore a dieci. La loro vittimologia è del tutto peculiare: non c’è una ricerca complessa o una selezione casuale, ma una scelta in base ai pazienti a disposizione sul luogo di lavoro. Di solito, l’elemento che scatena sospetti e indagini è la grande e anomala quantità di morti improvvise nel medesimo reparto o un atteggiamento inconsueto da parte del medico o dell’infermiere assassino. I decessi sono causati da un eccesso di qualche sostanza, da soffocamento o da iniezioni d’aria atte a provocare un embolo.

In certi casi, vi sono ospedali in cui si è sospettata la presenza di una mano criminale dietro a una scia di morti fuori dal comune, ma senza riuscire a trovare prove o a individuare un colpevole, anche perché la richiesta di un’autopsia non è molto frequente. Un aspetto disturbante, presente anche nel delitto in ambito familiare, è il tradimento del rapporto di fiducia accudente-accudito, che normalmente appare come qualcosa di sacro e inviolabile. La professione sanitaria, inoltre, gode di grande stima e richiede molte competenze.

Tutti questi elementi vengono distorti per scopi criminali, per compiere delitti quasi perfetti, invisibili. Un’altra caratteristica ricorrente è l’ambivalenza di queste figure: spesso alternano una visione di sé “angelicata”, come di personaggi che donano la pace dopo una lunga sofferenza, definendo i loro atti una specie di eutanasia, a un aspetto più sadico, dato che è comunque presente il piacere di essere artefice della vita o della morte di una persona, che dà una sensazione di onnipotenza. Spesso il praticare “eutanasie” non richieste è semplicemente una giustificazione data al momento della scoperta dei crimini. Pur avendo molti punti in comune, non c’è sempre lo stesso movente dietro ai delitti. Ecco, di seguito, alcuni casi noti.

BEVERLEY ALLITT

L’infermiera inglese Beverley Allitt nasce nel 1968 nel Lincolnshire da una famiglia di condizioni modeste. È una ragazza problematica, con una bassissima autostima, non ha molto successo negli studi, ha problemi di peso e si sente poco amata. Le piacciono i bambini. I suoi primi lavoretti sono come baby-sitter per i figli del vicinato ed è molto apprezzata per il suo modo di fare. Non è altrettanto popolare con i suoi coetanei, da cui non si sente mai accettata, e non va molto d’accordo con gli adulti.

Subisce molti ricoveri per continui infortuni. Fratture, incidenti: ha spesso qualche arto fasciato. Col passare degli anni, la situazione non migliora: sente il resto del mondo distante da lei, estraneo, ostile. Al liceo inizia a conoscere delle ragazze, ma queste frequentazioni la portano in un ambiente di risse e alcool. Verso i diciotto anni frequenta un ragazzo, Steve, con cui ha un atteggiamento maltrattante e oppressivo.

Beverley è inaffidabile, aggressiva, bugiarda patologica. Crescendo, nasce in lei il desiderio di curare ed assistere gli altri e viene ammessa alla scuola per infermiere. In questo periodo di formazione divide un appartamento con altre aspiranti infermiere, che riferiranno di atteggiamenti sempre più strani messi in atto dalla Allitt, come un ossessivo interesse per le arti magiche, i fenomeni paranormali e l’eutanasia.

Anche in questi anni, i suoi ricoveri sono molto frequenti, al punto che i medici sospettano che si faccia del male volontariamente. Ipotizzano che la donna soffra della Sindrome di Münchausen, che spinge una persona a provocarsi danni fisici tramite farmaci o autolesionismo per simulare una malattia. Questo comportamento risponde a un bisogno patologico di attenzioni, di cure e di affetto che di solito sono associati a una persona malata, con costante bisogno di cure.

Dopo un primo periodo di lavoro in ospedale con gli anziani, nel 1991 inizia a lavorare con i bambini, come ha sempre desiderato, nel Grantham and Kesteven Hospital. In reparto si trova protagonista di alcuni episodi insoliti: bambini appena nati che stanno improvvisamente male, rischiando l’arresto cardiaco o respiratorio. Solo Beverley intuisce quale sia la causa e suggerisce prontamente il rimedio farmacologico giusto. Diversi bambini molto piccoli scampano alla morte grazie al suo tempestivo intervento. Alcuni di essi però riportano disabilità o lesioni permanenti e in quattro casi perdono la vita. Il perenne coinvolgimento della Allitt in tutti questi casi, spesso sola con i piccoli malati, desta sospetti tra i colleghi. La sua freddezza risulta anomala, anche per un’infermiera abituata alla sofferenza.

Il 22 aprile 1991 Claire Peck, che ha appena quindici mesi e soffre di asma, durante una crisi viene ricoverata al Grantham. Quando si trova sola con Beverley, la bambina ha un paio di crisi respiratorie, ed è proprio l’infermiera a correre dal medico per avvertirlo. Alla seconda crisi, la bambina perde la vita. Questa volta l’ospedale decide di rivolgersi alla polizia. Quel reparto non aveva mai avuto tanti decessi e crisi gravi come in quei pochi mesi, per cui si ritiene opportuno indagare. Emergono anomalie nelle cartelle cliniche dei bambini che avevano rischiato la vita in precedenza, forse dovute a errori medici. La polizia manda degli agenti sotto copertura per raccogliere informazioni, ma non trova nulla di concreto. [2]

Dalle analisi del sangue di un altro bambino che aveva avuto una crisi in quel reparto si riscontra un insolito eccesso di insulina. Questo dato, sottovalutato in precedenza, viene ora interpretato come un tentato omicidio da parte di qualcuno del personale. In altri casi, si trova un eccesso di lidocaina o cloruro di potassio. Beverley, che ha accesso ai farmaci ed è sempre stata sola con le vittime, viene indagata e sospesa dal lavoro. Le crisi dei bambini si interrompono improvvisamente, ma cominciano a star male delle persone di una famiglia che la sta ospitando in casa dopo la sospensione.

La donna non ammette mai i suoi crimini, ma le prove sono molto pesanti: viene processata e condannata a tredici ergastoli nel 1993, per quattro morti e per lesioni gravi ad altri nove bambini. Oggi è detenuta in un ospedale psichiatrico. Sia durante le indagini che dopo la condanna ha continuato a farsi del male e a procurarsi sintomi delle malattie più svariate.

La Allitt rappresenta un raro caso di Münchausen per procura (SMP), in cui la persona affetta dalla sindrome infligge “sintomi” non solo a sé, ma anche a persone affidate alle sue cure, in questo caso i suoi pazienti. Il movente principale di Beverley è non tanto portare i bambini alla morte, ma farli stare male e salvarli in extremis per soddisfare il suo bisogno morboso di attenzioni, compiendo un atto apparentemente eroico e altruistico. Ruben De Luca associa a questo tipo di criminali la scissione tra Sé Curativo e Sé Distruttivo. [3]

HAROLD SHIPMAN

Il dottor Harold Shipman è uno stimato medico inglese, nato nel 1946 a Bestwood e laureato all’università di Leeds. Viene considerato dai colleghi una persona solitaria, arrogante e poco socievole, ma un grande professionista. Negli anni ‘70 ha avuto qualche problema al lavoro per via di una dipendenza da narcotici e tranquillanti, oltre che per aver falsificato prescrizioni, ma dopo una breve sospensione viene reintegrato. In seguito a un periodo di disintossicazione, si trasferisce con la moglie Primrose e i figli a Hyde, nel Cheshire. Qui sembra riuscire a mitigare il suo carattere scorbutico e diventa molto amato dai suoi pazienti a cui dedica tempo e attenzioni.

Tra gli anni ‘80 e ‘90 c’è un inspiegabile aumento di decessi tra le persone anziane della cittadina, soprattutto donne, tutte in cura da Harold. Ci sono elementi strani in quelle morti: le pazienti non erano particolarmente medicalizzate, non soffrivano di malattie terminali. Shipman firma un numero di certificati di morte molto più alto della normale media statistica in quella zona e preferisce lavorare senza infermieri, in solitaria.

Le prime segnalazioni ufficiali vengono da impresari di pompe funebri e dai colleghi del medico, ma inizialmente non hanno conseguenze. Il caso che porta alle prime indagini serie è quello di Kathleen Grundy, morta improvvisamente nel 1997, che lascia scritto nel suo diario il fatto che il suo medico curante le faceva domande sulla sua eredità. Inoltre, dal testamento della donna, scritto a macchina, emerge come unico erede proprio il dottor Shipman. La figlia della signora Grundy chiede che sia svolta l’autopsia sul corpo della madre e vengono rilevate tracce di diamorfina, composto che ha causato la morte della donna.

Il dottor Shipman viene arrestato il 7 settembre 1998, la sua licenza revocata e iniziano indagini accurate sulle morti delle sue pazienti nel corso degli anni. I risultati sono spaventosi: è impossibile un conteggio preciso, ma le vittime sono state stimate tra le 200 e le 350 persone. Numeri come questi farebbero entrare la figura del medico tra i serial killer più prolifici della storia recente. Shipman nega di aver mai assassinato qualcuno, mantiene un atteggiamento di superiorità durante il processo. La famiglia lo difende come un perseguitato dalla giustizia. Viene condannato per quindici delitti accertati, sempre messi in atto con la diamorfina o sostanze analoghe, prendendo un ergastolo per ogni vittima. Shipman si impicca in cella il 13 gennaio 2004.

Ma cosa lo ha spinto a diventare tra i più terribili Angeli della Morte mai esistiti? Durante il processo, indagando sul passato di Harold, emerge un evento particolarmente traumatico: a diciassette anni aveva assistito a lungo la madre malata di tumore, che doveva sopportare dolori atroci alleviati solo dalla quotidiana visita del medico, il quale le iniettava morfina per farla stare meglio.

La morte prematura della madre aveva lasciato Harold solo, sconcertato, con una feroce sensazione di impotenza e inutilità, forse con una forte rabbia nei confronti della stessa madre per averlo abbandonato, “costringendolo” ad assistere a tanta sofferenza senza poter fare nulla. Diversi psichiatri che hanno lavorato al caso Shipman parlano di un bisogno di rivivere il trauma subito, interpretando ogni volta non il ruolo del ragazzino impaurito, ma del medico che allevia le sofferenze. Indubbiamente, a volte, il delitto ha avuto anche un risvolto economico, ma il movente principale è la sensazione di avere un ruolo quasi divino nel gestire la vita e la morte dei pazienti. L’ossessione per il controllo sulla morte e sulla sofferenza è la chiave per comprendere l’agito di Shipman, che potrebbe aver iniziato a uccidere subito dopo la laurea, nel 1971. [4]

SONYA CALEFFI

Anche in Italia non sono mancati gli Angeli della Morte, come i recenti casi Cazzaniga, Angelo Stazzi o quello dell’infermiera Sonya Caleffi. [5] Sonya nasce a Como nel 1970. È figlia unica, la sua famiglia è apparentemente serena, ma lei è una bambina solitaria e introversa, anche se caratterizzata da un forte desiderio di aiutare gli altri. In adolescenza inizia a soffrire di depressione e di anoressia, non si sente amata e non si vede bella. Non ha grossi problemi a scuola, ma cerca di non farsi notare troppo, nonostante i sintomi del suo malessere siano evidenti. A quattordici anni perde la nonna per un tumore. Sonya è per questo spesso in ospedale ed è affascinata dalla figura delle infermiere che cercano di alleviare le sofferenze dell’anziana donna.

A ventitré anni ha un breve matrimonio, contratto per inseguire un’idea di libertà e fuga dalla famiglia più che per convinzione. L’unione, però, finisce a causa dei comportamenti violenti di lui. Pochi anni dopo, inizia una convivenza con un radiologo a Tavernerio. Nel frattempo, nel 1993, completa la formazione come infermiera presso l’ospedale Valduce di Como. Anche al lavoro il suo carattere è molto chiuso, fragile, diffidente: parla poco ed è insicura, spaventata dal mondo. È in cura psichiatrica all’insaputa dei colleghi, piange spesso e non riesce a condurre una vita sociale normale.

Cambia diversi luoghi di lavoro, senza che emerga mai una reale motivazione. Nel 2003 è impiegata all’ospedale Sant’Anna di Como e in quel periodo si verificano otto decessi. Nel 2004 inizia a lavorare a Lecco, all’ospedale Manzoni. Aumentano improvvisamente le morti dei pazienti, uomini e donne anziani, tutti nel reparto di Sonya.

Quando la signora Maria Cristina viene ricoverata per una bronchite, la Caleffi è di turno. La figlia della donna nota qualcosa di strano: l’infermiera la fa uscire dalla stanza della madre in modo brusco, mentre si avvicina alla paziente con un’enorme siringa. Poco dopo, la signora Maria Cristina è morta. L’infermiera, glaciale, esce dalla stanza coperta di sangue. Sembra un arresto cardiaco, ma ci sono molti dubbi: viene disposta l’autopsia, durante la quale vengono trovate molte bolle di aria anomale che hanno provocato un’embolia gassosa. Forse un errore medico o forse un atto volontario, un omicidio spietato. Solo Sonya Caleffi può essere responsabile del gesto. Si indaga sia al Manzoni che al Sant’Anna, emergono in tutto diciotto decessi sospetti.

Le indagini spingono Sonya, piantonata in psichiatria nello stesso ospedale in cui ha lavorato, a una confessione piena di cinque omicidi e fanno emergere un passato più difficile di quanto si credesse. La donna racconta di un padre affettuoso, ma spesso via per lavoro, di una madre casalinga profondamente depressa che parlava spesso della possibilità di morire, dicendo frasi come “Cosa ci sto a fare al mondo?”, che vedeva la morte come una liberazione. Ci sono, poi, i noti disturbi alimentari mai del tutto risolti, nemmeno dalla terapia psichiatrica. Sonya racconta di una violenza sessuale da parte del nonno di un amico durante l’infanzia e della costante paura di perdere la madre, di tentativi di suicidio (attuati anche con iniezioni di aria), di richieste di attenzioni. In casa sua, molti testi con la morte e l’eutanasia come argomenti principali, un’incuria generale molto evidente, segno chiaro di una grave depressione. [6]

La Caleffi non soffre, come Beverley Allitt, di Münchausen per procura, ma ha alcuni elementi in comune con la collega inglese: afferma di aver agito d’impulso, non per uccidere, ma solo per attirare attenzioni su di sé, per essere percepita come capace e di valore agli occhi degli altri. Uccidere è un modo per essere vista, riconosciuta anche da se stessa, per superare la fragilità estrema del suo io. Anche in questo caso c’è un dualismo di fondo: nella Caleffi si alternano momenti di idealizzazione di sé ad altri di totale svalutazione in cui si sente brutta, grassa, inutile, incapace. Lei stessa afferma che “esistono due Sonya”.

Nel 2005 ritratta ogni sua confessione, affermando la sua innocenza. Dice di non ricordare i delitti, di aver confessato indotta dalla polizia e in stato confusionale. In questa fase, somiglia sia alla Allitt che al dottor Shipman: nessuno dei tre riesce a fronteggiare le proprie responsabilità, il Sé Curante prende il sopravvento: per il Sé Distruttivo non c’è più spazio, sarebbe troppo devastante. Sonya viene condannata con rito abbreviato a vent’anni di reclusione per cinque delitti, scontando parte della pena in un OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario, attuale REMS). Uscirà dopo quattordici anni, nel 2018. [7]

Note

  • [1] V. Mastronardi, R. De Luca, I serial killer, Newton Compton, Roma 2008, pp. 678-680.
  • [2] Ibidem.
  • [3] R. De Luca, Serial killer, Newton Compton, Roma 2021, pp. 441-460.
  • [4] B. Innes, Serial killer, White Star Editore, Malta 2006, pp. 378-382.
  • [5] www.ilsecoloXIX.it, 31 marzo 2016.
  • [6] V. Mastronardi, R. De Luca, Serial killer, Newton Compton, Roma 2008, pp. 713-724.
  • [7] www.ilgiorno.it, 11 luglio 2018.
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