Se non sei in grado di far star bene con te un “altro” animale, non prenderlo.

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Carabinieri, liberazione di cani da caccia segregati (Puglia, 2017)

Nel momento in cui pensiamo di vivere insieme a un altro animale, riflettiamo prima su un fondamentale presupposto: siamo in grado di farlo star bene?

Se non ne siamo sicuri, è meglio soprassedere.

E’ un fatto di buon senso, in primo luogo, ma anche la Corte di cassazione ha voluto ribadirlo.

La recente sentenza Cass. pen., Sez. III, 11 gennaio 2023, n. 537 ha ricordato che “l’ipotesi di reato di cui all’art. 727, secondo comma, cod. pen. non postula la necessaria ricorrenza di situazioni, quali la malnutrizione e il pessimo stato di salute degli animali, indispensabili per poterne qualificare la detenzione come incompatibile con la loro natura, ma al proposito rilevano tutte quelle condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione”, come da giurisprudenza costante (vds. Cass. pen., Sez. VII, 24 novembre 2015, n. 46560; Cass. pen., Sez. III, 19 dicembre 2012, n. 49298).

Gli altri animali non sono soprammobili.

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

Cane abbandonato

dalla Rivista telematica di diritto ambientale Lexambiente, 13 febbraio 2023

Cass. Sez. III n. 537 del 11 gennaio 2023 (UP 8 nov 2022)
Pres. Sarno Est. Reynaud Ric. Anastasi
Caccia e animali. Reato di cui all’art. 727, secondo comma, cod. pen.

L’ipotesi di reato di cui all’art. 727, secondo comma, cod. pen. non postula la necessaria ricorrenza di situazioni, quali la malnutrizione e il pessimo stato di salute degli animali, indispensabili per poterne qualificare la detenzione come incompatibile con la loro natura, ma al proposito rilevano tutte quelle condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione, compresi comportamenti colposi di abbandono e incuria.


RITENUTO IN FATTO


1. Con sentenza del 26 maggio 2022, il Tribunale di Catania, riqualificando il delitto di cui all’art. 544 ter cod. pen oggetto d’imputazione nella contravvenzione prevista dall’art. 727 cod. pen., per quanto qui interessa ha condannato Mariano Alessio Anastasi alla pena di 1.000 euro di ammenda per aver detenuto un cucciolo di cane di razza di circa tre mesi in condizioni incompatibili con la natura dell’animale e produttive di grandi sofferenze.

2. Avverso detta sentenza, a mezzo del difensore fiduciario l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo, con il primo motivo, il vizio di mancata valutazione di una prova decisiva con particolare riguardo al certificato di nascita del proprio figlio ed alla dichiarazione resa dal veterinario che evidenziava l’ottimo stato di salute dell’animale.
2.1. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta l’illogicità e/o la mancanza di motivazione con riguardo all’elemento oggettivo della produzione di gravi sofferenze, da intendersi quale lesione dell’integrità fisica dell’animale e, comunque, da desumersi da specifici elementi – nella specie non indicati – che dimostrino una sofferenza subita per un lasso di tempo rilevante.
2.2. Con il terzo motivo di ricorso si deduce l’erronea applicazione della legge penale con riguardo alla disposta confisca dell’animale, non riconducibile ai casi di confisca obbligatoria previsti dall’art. 240, secondo comma, cod. pen.


CONSIDERATO IN DIRITTO


1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile perché non deducibile in sede di legittimità e, comunque, perché manifestamente infondato.
1.1. Ed invero, la valutazione delle prove è operazione che rientra nell’esclusivo compito del giudice del merito salvo che un travisamento probatorio incrini la tenuta logica della decisione. Quest’ultimo vizio, tuttavia, non è invocabile quando il giudice valuti il contenuto della prova (dichiarativa o documentale) in modo ritenuto non corretto, ma quando nella motivazione si faccia uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si ometta la valutazione di una prova decisiva (Sez.  2, n. 27929 del 12/06/2019, Borriello, Rv. 276567; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499). Il vizio, peraltro, deve risultare dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati dal ricorrente, ed è ravvisabile ed efficace solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell’elemento frainteso o ignorato, ferma restando l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (Sez.  5, del 02/07/2019, S., Rv. 277758; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio e a., Rv. 258774).
1.2. Questi requisiti risultano all’evidenza non soddisfatti nel caso di specie, ciò che vale sia con riguardo alla lamentata omessa valutazione del certificato di nascita del figlio dell’imputato –  sottendendo la doglianza una alternativa ricostruzione del fatto incompatibile con il giudizio di legittimità – sia con riguardo alle dichiarazioni rese dal veterinario circa il buono stato di salute del cane, trattandosi di attestazione che la stessa sentenza effettua in base a quanto percepito dagli operanti (pag. 2) ma che, come subito si dirà, non rileva per l’integrazione del reato.

2. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
Diversamente da quanto opina il ricorrente, l’ipotesi di reato di cui all’art. 727, secondo comma, cod. pen. non postula la necessaria ricorrenza di situazioni, quali la malnutrizione e il pessimo stato di salute degli animali, indispensabili per poterne qualificare la detenzione come incompatibile con la loro natura, ma al proposito rilevano tutte quelle condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione (Sez. 7, n. 46560 del 10/07/2015, Francescangeli e a., Rv. 265267), compresi comportamenti colposi di abbandono e incuria (Sez. 3, n. 49298 del 22/11/2012, Tomat, Rv. 253882).
 Nel caso di specie, la sentenza impugnata – accertando che il fatto si era verificato in conformità alla descrizione contenuta nell’imputazione formulata con riguardo al delitto di cui all’art. 544 ter cod. pen. – attesta che il cucciolo era detenuto in un locale chiuso, scarsamente illuminato, in uno spazio angusto di un garage, chiuso da rete metallica in mezzo ad oggetti ingombranti (l’imputazione riferisce di un metro quadrato), con conseguente scarsa possibilità di movimento, in mezzo alle proprie deiezioni e senz’acqua per essere stata in quelle condizioni rovesciata la ciotola. Sulla base di tale ricostruzione, il giudice di merito ha ritenuto che sussistessero gli elementi costitutivi della contravvenzione, stante la detenzione dell’animale in condizioni incompatibili con la sua natura e produttive di gravi sofferenze. La valutazione di merito – reputa il Collegio – non può dirsi manifestamente illogica e non è quindi ulteriormente scrutinabile in sede di legittimità, né può qui ipotizzarsi, come fa il ricorrente, che “è probabile che il cucciolo fosse stato posto in quel luogo solo qualche ora prima dell’intervento dei carabinieri e che, dunque, nessuna sofferenza avesse patito”, trattandosi di alternativa ricostruzione del fatto, peraltro neppure fondata su concreti elementi di prova segnalati, che certamente non può essere dedotta in questa sede.

3. Il terzo motivo di ricorso, nei limiti di cui infra, è invece fondato.
3.1. Questa Corte, sia pur quali obiter dicta, ha talora affermato che l’ipotesi di confisca obbligatoria di cui all’art. 240, secondo comma, n. 2, cod. pen. – nella specie richiamata nel dispositivo della sentenza – può attagliarsi anche alla contravvenzione in esame (cfr., in motivazione, Sez. 3, n. 16480 del 14/11/2019, dep. 2020, Niero, Rv. 278914; Sez. 4, n. 18167 del 31/01/2017, Arneodo, Rv. 269805). Reputa, tuttavia, il Collegio, che la conclusione debba essere attentamente verificata in relazione al singolo caso che viene in rilievo e non sia necessariamente predicabile con riguardo a qualsiasi ipotesi di detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze.
Occorre infatti considerare, per quanto qui interessa, che la citata disposizione prevede la confisca obbligatoria «delle cose..la detenzione delle quali costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna», salvo che la cosa appartenga a persona estranea all’illecito e che la detenzione possa essere consentita mediante autorizzazione amministrativa (art. 240, terzo comma, cod. pen.).
Anche a voler fare applicazione della più lata interpretazione della disposizione in parola, che individua un nesso tra la detenzione della cosa e l’autore del reato, ad avviso del Collegio la stessa non può tuttavia sorreggere la confisca disposta nel caso di specie.
 3.2. A tal proposito, invero, si è ad es. detto che la confisca del danaro, il cui possesso ingiustificato integra il reato previsto dall’art. 708 cod. pen., è obbligatoria e deve essere necessariamente ordinata, ai sensi degli artt. 240, comma secondo, cod. pen., argomentandosi la conclusione sul rilievo che la criminosità e la pericolosità che impongono la confisca non costituiscono un carattere della cosa in sé, ma derivano dalla relazione fra questa e l’agente, per cui, quand’anche la cosa non possa definirsi, come nel caso del danaro, intrinsecamente criminosa, deve essere comunque applicata la misura di sicurezza patrimoniale tutte le volte che la sua detenzione da parte dell’agente, al quale dovrebbe essere restituita, costituisce reato (Sez. U, n. 2 del 13/01/1995, La Cava, Rv. 200512, nella cui motivazione si afferma che una diversa conclusione determinerebbe una situazione assurda, perché si imporrebbe la restituzione all’agente di cose di cui egli non ha giustificato la provenienza e la cui detenzione, costituente per il passato reato, verrebbe per il futuro ad essere legittimata proprio dal provvedimento giudiziale di restituzione).
Nel caso deciso dalla richiamata pronuncia – indubbiamente particolare – la più ampia interpretazione data alla disposizione si giustifica in considerazione del fatto che con riferimento all’imputato la detenzione della res costituisce, sempre e comunque, reato.
Diverso è il caso in cui il reato è integrato non già dalla mera detenzione della cosa da parte di una certa persona, bensì – come nell’ipotesi che ha originato la contestazione qui sub iudice – da una detenzione che avvenga con modalità illecite ma che, da parte del medesimo soggetto, ben potrebbe avvenire con modalità del tutto lecite. L’automatismo che consegue all’applicazione dell’art. 240, secondo comma, n. 2, cod. pen. – che, si badi, trova applicazione «anche se non è stata pronunciata condanna» – non si attaglia, dunque, all’ipotesi in esame.
Come esattamente osserva il ricorrente, del resto, qualora la misura di sicurezza di carattere generale legittimasse in ogni caso la confisca degli animali oggetto di condotte illecite penalmente punite, non sarebbe stata necessaria la previsione della speciale ipotesi di confisca obbligatoria contenuta nell’art. 544 sexies cod. pen., introdotto dalla l. 20 luglio 2004, n. 189. Essa trova applicazione – peraltro, nel solo caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta – unicamente per le più gravi ipotesi delittuose concernenti l’offesa al sentimento per gli animali. Il fatto che la legge n. 189/2004, la quale, pure, ha riformulato anche la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 727 cod. pen., non abbia esteso a quest’ultima l’ablazione obbligatoria è un significativo indice della volontà del legislatore di riservare l’indefettibilità della misura di sicurezza alle più gravi condotte illecite previste in materia e, considerato anche il principio di tassatività stabilito dall’art. 199 cod. pen., non si può pertanto estenderla – ciò che avverrebbe in forza di analogia – al caso qui in esame.
3.2. In relazione a quest’ultimo, può dunque venire in rilievo soltanto l’ipotesi di confisca facoltativa prevista dall’art. 240, primo comma, cod. pen., rientrando l’animale oggetto dell’illecita detenzione prevista dall’art. 727, secondo comma, cod. pen. nel lato concetto di “cosa che servì o fu destinata alla commissione del reato”. La discrezionale valutazione che il giudice di merito è al proposito chiamato a compiere, peraltro, appare funzionale ad accertare, caso per caso, se l’ablazione si giustifichi in quell’ottica di prevenzione speciale connessa alla misura di sicurezza. Ed invero, in tema di confisca facoltativa ai sensi dell’art. 240, comma primo, cod. pen., la motivazione del provvedimento non può essere basata sul solo rapporto di asservimento del bene rispetto al reato, ma deve anche riguardare la circostanza che il reo, secondo l’id quod plerumque accidit, reitererebbe l’attività punibile se restasse nel possesso della res, in quanto la misura, per la sua natura cautelare, tende a prevenire la commissione di nuovi reati (Sez. 3, n. 10091 del 16/01/2020, Marigliano, Rv. 278406). Nel caso di specie, del resto – come correttamente si evidenzia in ricorso – si dovrebbe tenere conto del fatto che il cane, sequestrato ma lasciato in custodia al ricorrente, è stato da questo detenuto, e cresciuto, per diversi anni prima che fosse resa la sentenza qui impugnata.

4. Limitatamente alla disposta confisca, quest’ultima va pertanto annullata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Catania, in diversa persona fisica.
Il ricorso, complessivamente infondato quanto ai primi due motivi, va invece nel resto rigettato, con conseguente irrevocabilità dell’affermazione di penale responsabilità e della condanna alla pena di legge.


P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla confisca con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Catania, in diversa persona fisica.
Rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso l’8 novembre 2022.

Gatto (Felis catus)

(foto Carabinieri, da mailing list animalista, S.D., archivio GrIG)

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