SOCIALISMO E COLONIALISMO

1 year ago 83

di Gilbert Achcar

Colonialismo/Imperialismo/Orientalismo

Testo apparso in Histoire globale des socialismes XIX-XXI secolo, sotto la direzione di Jean-Numa Ducange, Migraz Keucheyan e Stéphanie Roza, Parigi: Presses universitaires de France, 2021, pp. 109-122.

L’idea della condivisione sociale delle ricchezze, così come la sua pratica storica su scale diverse, sono molto anteriori all’apparizione del termine «socialismo» all’inizio del XIX secolo. L’Oriente in particolare l’ha conosciuta diversi secoli prima, soprattutto nell’espressione religiosa che era la forma mondialmente dominante delle utopie sociali fino al XVIII secolo. Gesù di Galilea, Mazdak di Persia o i Qarmati d’Arabia sono momenti importanti della storia globale dei socialismi fin dagli albori dell’umanità. Nato in Oriente, il cristianesimo ha svolto un ruolo determinante nella storia del socialismo europeo, sia sotto forma di collettivismi religiosi che hanno preceduto l’Illuminismo, come quello di Thomas Müntzer, in modo diretto o indiretto nella genesi dei diversi socialismi del XIX secolo.

La principale figura sotto la quale l’Oriente ha fatto la sua comparsa nelle dottrine socialiste europee del XIX secolo è tuttavia quella dei suoi rappresentanti per eccellenza in seno all’Occidente che erano gli ebrei, la cui immagine stereotipata li collegava al mondo della finanza che i socialisti odiano per definizione. Da Fourier a Blanqui e poi a Bakunin, è noto quanto i socialisti del XIX secolo – e in particolare i francesi tra loro – abbiano condiviso i pregiudizi antiebraici ereditati da una tradizione cristiana radicata nel Medioevo. Di questi ebrei, spesso designati con le denominazioni di ebrei e israeliti che li rimandano all’Oriente da cui sono considerati originari – quegli ebrei di cui Proudhon, in un momento di abiezione, scrisse nei suoi Quaderni nel 1847 che bisognava «rimandare questa razza in Asia, o sterminarla» – la nozione di antisemitismo, che cominciò a diffondersi verso la fine del XIX secolo ispirandosi alle elucubrazioni di Ernest Renan, stava per confermare l’assimilazione al dominio orientale dei dialetti semitici da cui sono nate le tre principali religioni abramitiche.

Il deplorevole bilancio sulla «questione ebraica» della maggior parte delle dottrine socialiste del XIX secolo è la prova, se ce ne fosse bisogno, che l’opposizione alla «plutocrazia» non implica affatto una rottura con l’insieme dell’episteme dominante. Questo è vero soprattutto per quanto riguarda i luoghi comuni sulle differenze che non coincidono con la distribuzione della ricchezza, come i pregiudizi sulla razza e il genere – o l’orientalismo, come manifestazione dell’etnocentrismo occidentale secondo l’accezione contemporanea del termine resa popolare da Edward Said e adottata in questo testo. L’odio verso gli ebrei era generalmente parte del disprezzo dell’Oriente, «l’altro» dell’Occidente per eccellenza.

Un approccio più generoso verso l’Oriente musulmano si trova tuttavia in Henri de Saint-Simon, quello dei «socialisti utopici» la cui posterità fu la più importante. Contro l’orientalista tipico che fu Volney, egli sosteneva nel 1808 che gli arabi costituivano «l’avanguardia dell’umanità» sul piano politico e scientifico dal VII al XII secolo. Da allora, l’Oriente musulmano era certamente caduto nella decadenza ed era stato sostituito dall’Europa nel ruolo d’avanguardia, ma Saint-Simon rimaneva convinto che le società non europee potessero progredire sulla strada tracciata dall’Europa, a condizione tuttavia che quest’ultima li guidasse nella loro transizione dallo «stadio teologico» allo «stadio positivo». Il suo Catechismo degli industriali (1824) riprende l’idea che «tutti i popoli della terra, sotto la protezione della Francia e dell’Inghilterra unite, si eleveranno successivamente e rapidamente in base allo stato della loro civiltà al regime industriale».

Il principale discepolo di Saint-Simon, Prosper Enfantin, detto «il Padre», s’innamorò dell’Oriente dove sperava di trovare «la Madre» («della razza ebraica», pensava), appoggiando così un’erotizzazione del rapporto Occidente/Oriente molto diffusa nel XIX secolo. Il terreno di predilezione del grande disegno dei sansimoniani fu l’Egitto: dopo aver tentato invano di guadagnare alla loro causa il Wali ottomano Mehmet Ali, essi si mossero a favore di un dominio franco-inglese diretto sul paese. La loro passione fu la costruzione di un canale nell’istmo di Suez, progetto di cui Ferdinand de Lesseps si attribuì la paternità esclusiva con loro grande disappunto. Il fallimento dell’ambizione egiziana spinse i sansimoniani a rivolgersi verso l’Algeria: fervente sostenitore della colonizzazione del paese da parte della Francia, Enfantin respinse tuttavia i massacri che vi avrebbero perpetrato le truppe francesi. Fedele all’idea di Saint-Simon di poter cambiare il mondo con la persuasione, aveva sognato nel 1840 di conquistare alle virtù dello spirito «positivo» francese l’insieme dell’Oriente musulmano sotto il dominio ottomano. Ma al di là delle sue eccentricità, la filosofia sansimoniana della storia è paradigmatica del pensiero coloniale di sinistra, adepto paternalista e ben pensante della «missione civilizzatrice» dell’Europa verso le popolazioni «barbare» del sud planetario.

Trasceso in riflessione filosofica, l’orientalismo – questa lettura essenzialista dell’Oriente spiegato da culture ritenute perenni, se non immutabili – non è in fondo che l’incarnazione dell’interpretazione idealistica della storia. Così si trova un’espressione compiuta nel culmine della filosofia idealista della storia incarnata da Hegel: le sue Lezioni sulla filosofia della storia (1821-1831) sono un compendio di stereotipi culturalisti, sia sull’Oriente che sull’Occidente del resto. Ne consegue che la condizione primaria del superamento dell’orientalismo, come di tutti gli essenzialismi, è una rottura epistemologica con la lettura della storia attraverso il prisma della cultura. Prima di terminare la sua rottura intellettuale con l’hegelianismo di sinistra, lo stesso giovane Marx, nonostante la sua ascendenza ebraica, aveva flirtato con i cliché essenzialisti antiebraici di Bruno Bauer nella sua critica di quest’ultimo.

Dalla sua scoperta con Engels dell’efficacia euristica dell’interpretazione materialistica della storia, che entrambi approfondirono redigendo L’ideologia tedesca nel 1846, è ai fattori materiali, e soprattutto a quelli economici, che i due amici attribuivano le differenze di sviluppo tra i paesi. Rimasero tuttavia prigionieri dell’episteme eurocentrico del loro tempo, attribuendo un ruolo storico progressista all’impresa coloniale europea. Secondo la loro idea non si trattava più di una «missione civilizzatrice» nel senso dell’educazione dei barbari, ma nel senso dell’espansione universale del modo di produzione capitalistico. Da questo punto di vista, il Manifesto comunista (1848) è un inno ai prodigi civilizzatori presumibilmente compiuti dalla borghesia, che «precipita nella civiltà fino alle nazioni più barbare [e] le costringe ad adottare ciò che si chiama civiltà» – quella borghesia che, come aveva sottomesso «la campagna alla città», sottometteva «i paesi barbari e semibarbari ai paesi civilizzati, le nazioni contadine alle nazioni borghesi, l’Oriente all’Occidente».

La civiltà e la barbarie qui non sono più attributi culturali: ciò che distingue l’Occidente dall’Oriente per Marx ed Engels non è una capacità intellettuale superiore, ma una differenza di posizionamento sulla scala storica dello sviluppo borghese. Come, per Saint-Simon, l’Europa non aveva fatto che succedere agli arabi ponendosi «all’avanguardia dell’umanità» sotto il profilo dello spirito scientifico, agli occhi di Marx ed Engels, ponendosi all’avanguardia dello sviluppo economico in quanto spazio in cui il moderno modo di produzione capitalistico aveva preso il suo slancio. Ciò assegnava alla borghesia europea il compito di diffondere la civiltà industriale nel resto del mondo.

Come la subordinazione delle campagne alle città in Europa stessa, la subordinazione delle nazioni barbare alle nazioni civilizzate e dell’Oriente all’Occidente non poteva avvenire senza brutalità. Da buoni materialisti, Marx ed Engels sapevano che la violenza è «l’ostetrica» del potenziale di progresso che racchiude ogni società, come la definirà più tardi Marx nel Capitale (1867). Pensavano quindi che, alla luce della storia, la brutalità dell’espansione imperiale dell’Europa in Oriente e in Africa, come quella dei suoi germogli dall’altra parte dell’Atlantico, fosse il prezzo da pagare per il compimento della sua missione di progresso. Insomma, il fine civilizzatore dell’espansione europea giustificava i mezzi barbari ai quali essa ricorreva.

Questa prospettiva escatologica fu espressa in modo molto caratteristico nei confronti dell’Oriente da Marx ed Engels all’inizio del loro comune itinerario intellettuale. L’articolo sull’Algeria pubblicato da Engels su The Northern Star nel 1848 ne è un esempio sorprendente. «Anche se il modo in cui la guerra è stata condotta da soldati brutali come Bugeaud è assai condannabile, la conquista dell’Algeria è un fatto importante e propizio al progresso della civiltà», riteneva il giovane Engels. La stessa prospettiva si ritrova in Marx nel suo famoso articolo del 1853 sull’India. Mentre si lamentava della sorte delle vittime indigene del dominio coloniale britannico, metteva in guardia i lettori contro ogni tentazione romantica di idealizzare l’India precoloniale, invitandoli a «Non dimenticare che queste idilliache comunità di villaggio, nonostante il loro aspetto innocuo, sono sempre state una solida base del dispotismo orientale». La sua conclusione giungeva a quella di Engels sull’Algeria: «qualunque fossero i crimini dell’Inghilterra, essa fu uno strumento inconscio della storia» sconvolgendo la società indiana.

Una volta avvenuta la rottura epistemologica con l’idealismo hegeliano, Marx ed Engels avevano anche rotto con l’orientalismo come spiegazione culturalista della storia. Ma questa rottura non poteva bastare a liberarli dagli stereotipi orientalistici dominanti nel campo europeo gnoseologico e mediatico che era il loro, e che si ritrova a profusione nei commenti del loro primo decennio di collaborazione, in particolare sulla Turchia ottomana e l’India. Per liberarsi di questi stereotipi non basta, infatti, attribuirne la genesi a fattori materiali. Il «dispotismo orientale» era d’altronde determinato dalle condizioni climatiche e geografiche dello stesso Montesquieu. Finché Marx ed Engels rimanevano dipendenti dall’episteme europeo del loro tempo, limitati dal loro accesso esclusivo a fonti che ne facevano parte, continuavano ad aderire in parte alla prospettiva orientalista. Il loro eurocentrismo poteva assumere la forma di un riconoscimento del ruolo storico progressista del capitalismo, ma sottoscrivevano il mito della «missione civilizzatrice» del dominio europeo.

Essi dovevano ancora completare la loro rottura epistemologica con l’idealismo storico con una rottura con l’episteme del dominio europeo. Avendo sposato il punto di vista del proletariato nel suo rapporto con il capitale, restava loro da separarsi dai pregiudizi etnocentrici dominanti nel loro spazio geopolitico per adottare il punto di vista degli oppressi dell’umanità non-europea nel suo rapporto con l’Europa e con suoi cittadini. A questo proposito, l’Irlanda occuperà un posto centrale nell’evoluzione delle idee di Marx ed Engels, a cominciare da quest’ultimo. Il suo cambiamento di prospettiva sugli irlandesi è sorprendente: mentre in La condizione della classe operaia in Inghilterra (1845) c’ era l’eco dei pregiudizi etnici suscitati negli operai inglesi dalla condizione miserabile degli immigrati irlandesi, Engels svilupperà, qualche anno dopo, una forte passione per la causa irlandese, che lo animerà fino alla fine dei suoi giorni.

L’operaia Mary Burns, la sua prima compagna irlandese, svolse un ruolo chiave nella sua educazione. La visita dell’Irlanda che fecero insieme nel 1856 cambiò radicalmente la sua interpretazione della questione irlandese. Citando il suo viaggio in una lettera a Marx, datata 23 maggio 1856, nella quale egli definiva l’Irlanda come la prima colonia dell’Inghilterra, Engels descrisse il modo in cui diversi secoli di guerre di conquista avevano «completamente distrutto il paese». Anni dopo, in una lettera datata 19 gennaio 1870, che riferiva a Marx del progresso della sua ricerca sulla storia irlandese, egli confermò: «Più studio l’argomento, più diventa chiaro ai miei occhi che l’Irlanda, in conseguenza dell’invasione inglese, è stata spogliata del proprio sviluppo e rimandata indietro di secoli».

Alle ortiche dunque l’idea del colonialismo come fattore di progresso economico! Questo capovolgimento di prospettiva avrebbe posto Marx ed Engels decisamente nel campo dei nemici giurati del colonialismo. Già nel 1857 Engels rivedeva a fondo il suo giudizio sull’Algeria nell’articolo che scrisse su questo paese per The New American Cyclopaedia. Gli algerini non erano più quel «popolo di ladri i cui principali mezzi di esistenza consistevano in incursioni tra gli uni e gli altri» e al quale il colonialismo francese, nonostante la sua brutalità, portava «la civiltà» e l’industria, come aveva spiegato nell’articolo del 1848. Al contrario, erano i francesi che devastavano il paese alla maniera delle invasioni barbariche: «Le tribù arabe e cabile […] sono state sottomesse o scoraggiate da spaventose razzie durante le quali le loro case e i loro beni sono stati bruciati e saccheggiati, i loro raccolti distrutti in piedi, e gli sfortunati abitanti rimasti sul posto abbattuti o abbandonati a tutti gli orrori della brutalità o della dissolutezza».

Allo stesso modo, negli articoli che scrisse nel 1857-58 per il New York Daily Tribune sulla «rivolta dei sepoy», il primo grande sussulto indipendentista indiano, Marx sarebbe diventato l’avvocato degli insorti contro l’Impero britannico, denunciando la crudeltà delle sue truppe e il suo sfruttamento degli indigeni. Engels difese anche i cinesi contro gli europei nel suo commento del 1857 sulla seconda guerra dell’oppio. Molto lontano dalle illusioni di un tempo sul ruolo civilizzatore del colonialismo, il capitolo del primo volume del Capitale (1867) di Marx dedicato alla «Genesi del capitalista industriale» descrive il ruolo dell’espansione coloniale nell’«accumulazione primitiva» del capitale nelle metropoli a scapito delle terre colonizzate e delle loro risorse naturali.

«La scoperta delle terre aurifere e argentifere dell’America, la riduzione degli indigeni in schiavitù, il loro seppellimento nelle miniere o il loro sterminio, gli inizi di conquista e di saccheggio nelle Indie orientali, la trasformazione dell’Africa in una sorta di stazione commerciale per la ‘caccia alle pelli nere’, ecco i processi idilliaci di accumulazione primitiva che segnalano l’alba dell’era capitalistica. […] Il regime coloniale diede grande impulso alla navigazione e al commercio. Partorì le società mercantili, dotate dai governi di monopoli e privilegi e che servivano da potenti leve per la concentrazione dei capitali. Assicurava sbocchi alle manifatture nascenti, la cui facilità di accumulazione raddoppiava, grazie al monopolio del mercato coloniale. I tesori direttamente estorti fuori dall’Europa dal lavoro forzato degli indigeni ridotti in schiavitù, dalla Convenzione, dal saccheggio e dall’omicidio, ritornano alla madrepatria per funzionare come capitale».

Nonostante il loro nuovo punto di vista ipercritico sul colonialismo, non ci si può tuttavia aspettare di trovare in Marx ed Engels una teoria completa dell’emancipazione dei popoli colonizzati. La loro svolta epistemologica nella comprensione del ruolo del dominio coloniale nella creazione e nella perpetuazione di una configurazione gerarchica del mondo non poteva bastare da solo a liberarli completamente dai pregiudizi eurocentrici prevalenti nel loro spazio culturale. Si continueranno a trovare nei loro scritti, fino alla fine, tracce di questi pregiudizi. Tuttavia, piuttosto che elementi chiave della loro visione del mondo, erano solo residui culturali.

Engels definì nel 1882 la posizione che il movimento operaio europeo avrebbe dovuto assumere sulla questione coloniale in caso di vittoria. In una lettera a Karl Kautsky datata 12 settembre, il compagno di Marx formulava i seguenti principi, riferendosi in particolare all’Algeria, all’Egitto e all’India: il proletariato metropolitano deve condurre i paesi coloniali all’indipendenza il più rapidamente possibile; deve rifiutare qualsiasi guerra coloniale, anche se le rivoluzioni nazionali nei paesi coloniali dovessero prendere una piega violenta; l’indipendenza dei paesi colonizzati è per il proletariato europeo la soluzione migliore; solo con l’esempio e l’attrazione economica il proletariato europeo deve convincere i paesi coloniali ad avanzare verso il socialismo; non può imporre la sua politica sociale ad un altro popolo.

«A mio avviso, […] i paesi abitati da indigeni, che sono semplicemente soggiogati – l’India, l’Algeria, i possedimenti olandesi, portoghesi, spagnoli – dovranno essere provvisoriamente presi in mano dal proletariato e condotti il più rapidamente possibile verso l’indipendenza. È difficile dire come questo processo si svilupperà. Forse l’India farà, o molto probabilmente ciò avverrà, una rivoluzione, e poiché un proletariato che si emancipa da solo non può condurre guerre coloniali, bisognerebbe permettere a questa rivoluzione di seguire il proprio corso; essa non sarebbe sufficiente, certo, questo non succederà senza ogni tipo di distruzione, ma questo genere di cose è inseparabile da tutte le rivoluzioni. Lo stesso potrebbe accadere altrove, ad esempio in Algeria o in Egitto, e sarebbe sicuramente la cosa migliore per noi. Avremo abbastanza lavoro da fare a casa nostra. Una volta riorganizzata l’Europa, come anche l’America del Nord, questo darà una potenza così enorme e un esempio tale che i paesi semi-civilizzati si metteranno essi stessi al seguito; già i bisogni economici lo renderanno evidente. Ma quanto a sapere quali fasi sociali e politiche dovranno attraversare questi paesi, prima di arrivare anch’essi ad un’organizzazione socialista, credo che oggi non possiamo che avanzare ipotesi abbastanza vaghe. Una sola cosa è certa: il proletariato vittorioso non potrà imporre alcun beneficio ad una nazione straniera, qualunque essa sia, senza minare allo stesso tempo la propria vittoria».

È noto che Kautsky si erge in seguito a custode dell’ortodossia marxista in seno alla socialdemocrazia tedesca e alla Seconda Internazionale, in particolare contro il revisionismo riformista di Eduard Bernstein. Ciò che è meno noto è che questa difesa dell’ortodossia si spostò anche sulla questione coloniale: Kautsky rimase fedele alla linea tracciata da Engels, di cui pubblicò la lettera in allegato al suo opuscolo del 1907 Socialismo e politica coloniale. Qui rispondeva a Bernstein che, in un articolo dello stesso anno, aveva difeso «la necessità storica della colonizzazione» e l’idea che una politica coloniale moderata sarebbe stata nell’interesse del proletariato delle metropoli.

Questo «colonialismo socialista» era stato espresso per la prima volta in seno alla Seconda Internazionale tre anni prima, al congresso di Amsterdam (1904). Il socialdemocratico olandese Henri van Kol in quell’occasione aveva presentato un progetto di risoluzione che giustificava il mantenimento della colonizzazione sotto un governo operaio invocando una versione «socialista» della missione civilizzatrice. Ciò aveva suscitato un acceso dibattito in seno all’Internazionale nel momento in cui l’espansione coloniale era al suo apogeo su scala mondiale e in cui partiti socialisti europei in piena crescita, avendo avuto accesso ai loro parlamenti nazionali, si trovavano sempre più di fronte alla questione dell’«imperialismo».

Il dibattito fu proseguito e deciso al Congresso di Stoccarda (1907).  Dove Van Kol ebbe l’appoggio della maggioranza della delegazione tedesca alla quale partecipava Bernstein. Nella foga del dibattito, pronunciò affermazioni volgarmente razziste che rivelavano l’ipocrisia dell’atteggiamento paternalistico di tipo sansimoniano di cui si vantava. Queste affermazioni particolarmente scioccanti meritano di essere citate tanto sono rivelatrici – così come la reazione di una parte del pubblico – della mentalità coloniale di gran parte della socialdemocrazia al suo apice. Mettono in prospettiva l’allineamento della maggior parte delle sezioni della Seconda Internazionale dietro i rispettivi governi nella guerra di spartizione coloniale del mondo quale fu, in larga misura, la prima guerra mondiale. Kautsky sosteneva l’aiuto allo sviluppo al posto del colonialismo: «Abbiamo tutto l’interesse a che le popolazioni primitive giungano a una cultura superiore, ma ciò che contesto è che si debba praticare la politica coloniale. […] Se vogliamo agire da civilizzatori sui popoli primitivi, la prima necessità per noi è conquistare la loro fiducia, e questa fiducia la guadagneremo solo quando daremo loro la libertà».

Van Kol rispose: «Se inviamo una macchina ai negri dell’Africa centrale, sapete cosa faranno? È molto probabile che eseguiranno intorno al nostro prodotto europeo una danza guerriera (ilarità) ed è anche probabile che il numero dei loro innumerevoli Dei sarà aumentato di un’unità (nuova ilarità). […] Se noi europei andassimo in Africa con le nostre macchine europee, saremmo le vittime della nostra spedizione [Van Kol aveva spiegato che «potrebbero anche essere loro (gli indigeni) a scuoiarci, o a mangiarci…»]. Al contrario, dovremo avere le armi in mano per difenderci eventualmente, anche se Kautsky lo chiama imperialismo. (Molto consenso da alcuni banchi.)»

La sinistra vinse, ma nonostante tutto il prestigio di Kautsky. Questo dibattito aveva contrapposto maggioranze di destra provenienti dai paesi colonizzatori (ad eccezione dei russi in maggioranza di sinistra), a minoranze di sinistra di questi stessi paesi, sostenute dalle delegazioni dei paesi non colonizzatori. Tra queste, la delegazione polacca alla quale partecipava Rosa Luxemburg, di cui L’Accumulazione del capitale, pubblicato nel 1913, sarà il primo lavoro teorico marxista di vasta portata a dare ampio spazio all’universo coloniale, anche se non c’è una teoria politica dell’anticolonialismo. La constatazione della natura delle divisioni al congresso di Stoccarda avrebbe indotto Lenin ad elaborare la sua teoria dell’«aristocrazia operaia» sostenuta dallo sfruttamento imperialista, con la quale spiegava la svolta «social-sciovinista» maggioritaria della maggior parte dei partiti socialisti dei paesi belligeranti.

La rivoluzione fallita del 1905 in Russia, come la vittoria del Giappone, potenza orientale, nella guerra russo-giapponese del 1904-05, catalizzò gli sconvolgimenti rivoluzionari in Persia, Turchia e Cina, tre paesi in osmosi culturale con lo spazio coloniale dell’impero zarista. La prima guerra mondiale galvanizzò la radicalizzazione politica in tutti e tre i paesi, così come in India e in altri paesi dell’Asia e del Nord Africa. Arrivati al potere in Russia con la rivoluzione d’ottobre 1917, i bolscevichi avrebbero puntato sempre più sui movimenti nazionali e rivoluzionari in Oriente per rompere il loro isolamento, soprattutto dopo il fallimento della rivoluzione tedesca del 1918-19 e di fronte alla guerra condotta contro di loro dalle Forze dell’Intesa a partire dal 1918.

Riunendo la sinistra radicale della socialdemocrazia prebellica, la Terza Internazionale, fondata nel 1919, avrebbe messo le questioni nazionali e coloniali all’ordine del giorno del suo secondo congresso nel 1920. Il tenore dei dibattiti fu molto diverso da quello di Stoccarda: essi non vertevano più sull’atteggiamento nelle metropoli di fronte al colonialismo, questione sulla quale la posizione dell’Internazionale comunista era conforme all’ortodossia, ma sull’atteggiamento da adottare di fronte ai movimenti nazionalisti dei paesi coloniali e semi-coloniali – sia dei comunisti delle metropoli che dei comunisti di questi stessi paesi, la cui rappresentanza in seno alla nuova internazionale fu subito più importante di quanto non fosse nella precedente.

Su questa questione si innestava quella dell’atteggiamento dei bolscevichi al potere verso i popoli e le nazioni dell’impero coloniale russo. Dal 1913 in particolare, Lenin si era ardente difensore del diritto delle nazioni all’autodeterminazione in occasione di diverse polemiche, tra cui la più famosa contro Rosa Luxemburg. Sostenne il rigoroso rispetto di questo diritto da parte del nuovo potere di fronte alla convergenza di un atteggiamento estremista di sinistra fortemente rappresentato nei ranghi bolscevichi, con il persistere di un disprezzo delle popolazioni «ritardate» in nome dell’interesse del nuovo Stato, identificato con «l’interesse del proletariato».

«Che cosa possiamo fare per i popoli come il Kirghizistan, l’Uzbekistan, il Tagikistan e il Turkmenistan, che finora sono stati sotto l’influenza dei loro mullah? […] Possiamo andare a dire a questi popoli: Abbatteremo i vostri sfruttatori? Non possiamo, perché sono completamente sottomessi ai loro mullah. Bisogna aspettare, in tal caso, che la nazione interessata si sia evoluta, che il proletariato si sia differenziato dagli elementi borghesi, il che è ineluttabile», esclamava Lenin al congresso del partito bolscevico nel 1919, auspicando che i bolscevichi si astenessero dall’imporre la loro volontà ai popoli anticamente oppressi dallo zarismo. Sarà invano: nelle sue ultime note del dicembre 1923 sulla questione delle nazionalità, il fondatore del bolscevismo si confesserà colpevole di non aver combattuto con sufficiente vigore per il principio dell’autodeterminazione, fino a descrivere il nuovo Stato russo come un apparato che «abbiamo preso in prestito dallo zarismo limitandoci a spennellarlo leggermente con una vernice sovietica».

La differenza non si limitava ovviamente alla spennellatura: il nuovo Stato tentò addirittura di strumentalizzare i movimenti autoctoni dell’Oriente ostentandone l’appoggio, a volte indistintamente, quando si opponevano alle potenze occidentali. Il momento principale di questo tentativo fu il «Congresso dei popoli dell’Oriente» riunitosi a Baku nel 1920 sotto la presidenza di Grigorij Zinoviev, i cui partecipanti (1891, di cui solo 55 donne) appartenevano in gran parte all’ex area coloniale zarista. Il comunista indiano M. N. Roy, che aveva svolto un ruolo importante nei dibattiti della Terza Internazionale sulla questione coloniale, rifiutò di prendere parte a questa impresa che definì «Zinoviev Circus» secondo quanto riportato nelle sue memorie pubblicate nel 1960. Lette oggi, le sue parole fanno pensare alla critica dell’orientalismo inverso in «orientalismo alla rovescia»: Roy rimprovera ai dirigenti russi, di dipingere di rosso il nazionalismo e il panislamismo anticoloniali e di non applicare ai popoli d’Oriente la griglia di analisi di classe che applicavano ai popoli occidentali.

Si tratta di una nota fonte di tensione tra il nuovo Stato bolscevico e i comunisti dei paesi coloniali, poiché gli interessi diplomatici statali non coincidono necessariamente con l’internazionalismo rivoluzionario. Una delle prime descrizioni di questa tensione fu la persistenza di Mosca nel descrivere il nuovo leader turco Mustafa Kemal come un rivoluzionario, nonostante la persecuzione da parte del suo governo del giovane Partito Comunista di Turchia. La questione cinese è stata un’altra occasione di tensione tra la tendenza di Mosca a flirtare con i leader nazionalisti dei paesi dell’Oriente, al di fuori dell’Unione Sovietica, e i comunisti locali contro gli stessi leader nazionalisti. Al contrario, quando il Comintern sotto Stalin, al suo settimo congresso nel 1935, confermò la sua svolta a destra a favore del più ampio fronte antifascista, i partiti comunisti dei paesi dell’Oriente sotto il dominio britannico o francese furono invitati a dissociarsi dalla lotta anticoloniale. Sotto la direzione di Maurice Thorez, il Partito comunista francese fu un adepto particolarmente zelante di questa nuova politica del Comintern che incoraggiava la tendenza al «colonialismo socialista» già forte al suo interno, soprattutto rispetto all’Algeria.

Fu solo con l’arrivo dei comunisti cinesi al potere a Pechino nel 1949 che il dominio occidentale sul movimento comunista internazionale, con la sua naturale tendenza a riprodurre una prospettiva «orientalista», fu fortemente osteggiata. Lo scisma sino-sovietico fu il culmine di questa grande divergenza. Tuttavia, dalla questione del Tibet a quella dello Xinjiang di oggi, lo stesso Stato cinese ha a sua volta replicato un atteggiamento coloniale, se non addirittura «islamofobo» nell’ultimo caso. Né Marx né Engels, tuttavia, si riconoscerebbero in uno qualsiasi dei governi che hanno rivendicato la loro eredità nel XX secolo. La combinazione al potere di socialismo e democrazia radicale, così come la messa in pratica di una politica fondata su un vero internazionalismo ripudiano tutti gli etnocentrismi e di subordinare la lotta rivoluzionaria agli interessi statali, sono ancora da inventare.

Riferimenti

Achcar, Gilbert, Marxisme, Orientalisme, Cosmopolitisme, Arles, Sindbad/Actes Sud, 2015.

Anderson, Kevin, Marx aux antipodes. Nations, ethnicité et sociétés non occidentales, trad. de l’anglais par Marc Chemali et Véronique Rauline, Paris, Syllepse, 2015.

Carrère d’Encausse, Hélène et Stuart Schram, Le Marxisme et l’Asie 1853-1964, Paris, Armand Colin, 1965.

Charléty, Sébastien, Histoire du Saint-Simonisme, Paris, Gonthier, 1965.

Dreyfus, Michel, L’Antisémitisme à gauche. Histoire d’un paradoxe, de 1830 à nos jours, Paris, La Découverte, 2009.

Gallissot, René, Marx, marxisme et Algérie. Textes de MarxEngels, présentés par René Gallissot avec la collaboration de Gilbert Badia, Paris, UGE, coll. 10/18, 1976

Haupt, Georges et Madeleine Rebérioux (sld), La Deuxième Internationale et l’Orient, Paris : Cujas, 1967.

Said, Edward, L’Orientalisme. L’Orient créé par l’Occident, trad. de l’anglais par Catherine Malamoud ; préf. de Tzvetan Todorov ; postf. de l’auteur, trad. par Claude Wauthier, Paris : Seuil, 1997.

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