Ricordate la pubblicità di Eni sui presunti vantaggi ambientali del suo diesel+ grazie al 15% di componente green?
In quel caso, si utilizzava la componente “verde”, battezzata appunto green diesel, per costruire una campagna pubblicitaria che poi l’Antitrust ha giudicato ingannevole, comminando una sanzione di 5 milioni di euro al cane a sei zampe.
In particolare, Eni vantava caratteristiche del prodotto, tra cui la riduzione delle emissioni di CO2, risultate poi parziali e poco chiare.
È contro messaggi di questo tipo, fuorvianti e infondati, che Bruxelles intende combattere con la proposta della nuova direttiva “Green claims”, le rivendicazioni verdi fatte dalle imprese per promuovere i loro prodotti e servizi.
Il provvedimento, che dovrebbe essere presentato nelle prossime settimane dalla Commissione Ue, punta a disinnescare il cosiddetto greenwashing, termine che indica le fake news ecologiche delle aziende. In sostanza: affermo di essere green, di impegnarmi di più per la tutela ambientale, di voler tagliare le emissioni inquinanti, ma in realtà questo impegno verde è limitato, poco efficace, non dimostrabile.
La punta dell’iceberg del greenwashing si ha quando le società delle fonti fossili sostengono di perseguire piani ambiziosi per azzerare le emissioni di CO2, i piani net-zero, mentre poi continuano a investire in carbone, gas e petrolio (il loro core business), aumentando la produzione di energie fossili e lasciando una quota marginale di investimenti alle fonti rinnovabili.
Ma sotto quella punta ci sono tanti altri proclami che sembrano verdi e invece non lo so sono (o lo sono meno di quanto i messaggi pubblicitari facciano credere).
Ad esempio, lo scorso settembre 2022, in Olanda l’Autorità per i consumatori e i mercati ha sanzionato Decathlon e H&M per aver inserito dichiarazioni di sostenibilità potenzialmente fuorvianti sulle etichette dei loro capi di abbigliamento. Le aziende, infatti, usavano termini generici come “Ecodesign” e “Conscious” senza però specificare quali sarebbero gli impatti ambientali positivi dei prodotti, rischiando così di indurre i consumatori a falsi acquisti green.
Il punto è che le dichiarazioni di sostenibilità dovrebbero essere oneste, chiare, basate su fatti e dati verificabili e confrontabili con altri prodotti simili, in modo che il consumatore sia correttamente informato e possa scegliere con consapevolezza cosa comprare.
Uno studio del 2020 della Commissione europea, citato nel preambolo della direttiva, ha rilevato che il 53% delle dichiarazioni ambientali, su più di 1.300 prodotti/servizi esaminati e più di 1.600 pubblicità, fornisce informazioni vaghe, fuorvianti o infondate sulle caratteristiche ambientali.
Un altro problema poi è la confusione che al momento regna in questo settore.
Oggi, sottolinea Bruxelles, esistono più di 200 etichette ambientali attive a livello Ue e più di 450 in tutto il mondo; inoltre, ci sono più di 80 iniziative e metodi di rendicontazione ampiamente utilizzati, solo per le emissioni di CO2.
Ecco perché è così importante fare chiarezza: servono metodi affidabili, completi e armonizzati a livello europeo per calcolare le impronte ecologiche delle diverse categorie di prodotti, sul loro intero ciclo di vita (produzione, consumo, smaltimento).
Si parla di Product Environmental Footprint (PEF) ma non è così semplice tracciare regole condivise. Ad esempio, spiega l’agenzia Euractiv nel presentare la bozza della direttiva, i produttori di imballaggi di vetro hanno criticato la metodologia proposta per il loro settore, sostenendo che era troppo centrata sulle emissioni di CO2 senza tenere conto di altri vantaggi del packaging in vetro, come la possibilità di riciclare infinite volte i contenitori e la mancanza di sostanze chimiche tossiche.
Obiettivo della direttiva quindi è assicurare che le aziende siano trasparenti e credibili quando affermano che un determinato prodotto è green.
Gli Stati membri, si legge nel testo, “provvedono affinché le asserzioni ambientali […] siano comprovate in base a una metodologia conforme” a una serie di requisiti.
Ad esempio, la metodologia si deve basare su “prove scientifiche ampiamente riconosciute” e deve permettere di “identificare gli impatti ambientali del prodotto o del venditore, tenendo conto del ciclo di vita e delle cause di tali impatti” (neretti nostri nelle citazioni).
Inoltre, gli Stati membri dovranno istituire un sistema per verificare la fondatezza delle dichiarazioni ambientali; tale controllo dovrà essere svolto da “verificatori indipendenti“.
La direttiva prevede che i Paesi debbano garantire che le regole siano applicate e introdurre sanzioni per chi le trasgredisce; le sanzioni “dovrebbero essere efficaci, proporzionate e dissuasive”, si legge nella bozza, in base a criteri comuni come la natura e la gravità delle infrazioni, i benefici economici che ne sono derivati e i potenziali danni ambientali causati.