Transizione energetica e salvaguardia del paesaggio, non si può versare il cervello all’ammasso.

1 week ago 42

Trieste, Castello di Miramare

la petizione Si all’energia rinnovabile, no alla speculazione energetica! si firma qui.

Paolo Carpentieri è un giurista, Consigliere di Stato, Consigliere giuridico e ai vertici di Uffici legislativi di vari Ministeri, docente presso varie Istituzioni di alta formazione, attualmente Presidente del T.A.R. Emilia-Romagna.

Insomma, non può esser fatto passare per un ecologista terrorista o robe simili.

Al recente Secondo Congresso nazionale dei giudici amministrativi italiani – I 50 anni di funzionamento dei Tribunali amministrativi regionali, tenutosi a Palazzo Spada, la sede del Consiglio di Stato, il 18-19 ottobre 2024, ha tenuto l’illuminante relazione su Il giudice amministrativo e il cambiamento climatico, ripresa anche dalla Rivista telematica di diritto ambientale Lexambiente.

centrale fotovoltaica su terreno agricolo

La proponiamo di seguito, perché si tratta della chiara spiegazione dei motivi di fatto e di diritto per cui la transizione energetica non può esser fatta a spese del territorio e dei suoi valori ambientali, naturalistici, paesaggistici, storico-culturali, identitari.

La verità è che questa transizione ecologica, fatta in questo modo forse poco lungimirante, che consuma suolo, territorio, agricoltura e paesaggio, secondo la classica logica dell’economia estrattiva, può al più servire, questo sì, ad assicurare una maggiore sicurezza dell’approvvigionamento energetico del paese, soprattutto in tempi disgraziati di ritorno alla guerra, quali quelli che purtroppo stiamo vivendo in questi anni.

 Ma certo non serve affatto a combattere il cambiamento climatico.

Questo errore strategico … nasce dalla fallacia insita nell’idea mainstream di certo ambientalismo industrialista del ‘pensare globale – agire locale’. La verità è tutt’al contrario: bisognerebbe riuscire ad agire globale, se si vuole risolvere qualcosa, cercando di non distruggere il nostro territorio locale”.

Appennino Umbro-Marchigiano, Monte dei Sospiri dopo la realizzazione della locale centrale eolica (2016)

E ancora, “...è del tutto inutile auto-distruggere qui e ora, subito, i nostri paesaggi, coprendoli di pale eoliche e di campi fotovoltaici, mentre il resto del mondo non fa nulla (anzi, continua a crescere con un’esplosione demografica fuori controllo). È come voler svuotare il mare con un cucchiaino. 

L’obiezione è dunque sul modo di procedere, affrettato, poco lungimirante, non governato, non pianificato, condizionato da forti interessi economici (non dimentichiamoci le centinaia di miliardi di euro per finanziare gli incentivi alle costruzioni di rinnovabili pagate in larga parte dai cittadini nelle bollette della luce), non sul se procedere.

Il problema sta nell’assenza di pianificazione, nell’assenza di un reale ed effettivo governo pubblico dei processi, nella scelta di abbandonare questa transizione alla mano invisibile del dio mercato, al laisser faire, per cui le imprese intervengono dove più conviene loro, dove i terreni costano meno, e cioè sulle aree agricole verdi. Il problema sta, inoltre, nell’annichilimento dei poteri dei comuni, ritenuti attori molesti del fattore ‘nimby’, e nella sterilizzazione di ogni voce contraria

La verità è che per combattere il mutamento climatico occorrerebbe pensare a modelli di vita radicalmente diversi e occorrerebbe porre seriamente la questione demografica (che però costituisce ormai un tabù impronunciabile).

Sul fallimento della nozione di sviluppo sostenibile – un ossimoro – ho detto in altre sedi. Ma se non si pone al centro l’idea di limite e la nozione di equilibrio omeostatico, non si va da nessuna parte.

Prima di distruggere i nostri paesaggi … dovremmo riflettere bene e a lungo su cosa sta accadendo nel mondo e su quali possano essere le risposte reali e vere al mutamento climatico.

Filippine, Isola di Luzon, baia di Bangui, centrale eolica sulla spiaggia (AFP Photo/Ted Aljibe – Il Corriere della Sera)Vogliamo arrivare a questo?

Aggiungo che la tecnica del bilanciamento non sempre (o quasi mai) può funzionare per la tutela del patrimonio culturale, per la semplice ragione che il bene culturale o paesaggistico è unico, è irriproducibile, non lo puoi spostare da un’altra parte, mentre, nel contempo, l’impatto visivo dei parchi eolici e dei campi fotovoltaici è di regola tale da stravolgere radicalmente la facies del territorio interessato dall’intervento, trasformandola di fatto in un paesaggio industriale.

In conclusione, occorre certamente trovare un punto di mediazione ragionevole, su questo non c’è dubbio. Ma questa mediazione, per essere ragionevole, deve poggiare sulla realtà e sulla verità e non su falsi miti. A me sembra che l’assetto regolatorio attuale non abbia centrato l’obiettivo dell’equilibrio, ma sia piuttosto squilibrato a favore della visione che io chiamo dell’’ambientalismo industriale’, di una transizione ecologica che soggiace al dominio della tecnica ed è abbandonata al libero mercato, a discapito della bellezza dei nostri paesaggi, che sono la nostra cultura e la nostra identità”.

Insomma, non si può versare il cervello all’ammasso in nome di un feticcio tanto falso quanto distruttore, la realizzazione di impianti produttori di energia rinnovabile “senza se e senza ma”.

La compatibilite a ogni costo è una grave malattia, ma si può curare.

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

Secondo Congresso nazionale dei giudici amministrativi italiani

I 50 anni di funzionamento dei Tribunali amministrativi regionali

18 e 19 ottobre 2024

PALAZZO SPADA

Piazza Capo di Ferro, 13 – Roma

Venerdì 18 ottobre 2024

Sessione IV

Il giudice amministrativo e il cambiamento climatico

Paolo Carpentieri – Presidente TAR Emilia-Romagna

CONCLUSIONI

Ringrazio innanzitutto il Prof. Pasini per l’efficace spiegazione sull’oggetto delle nostre discussione, per averci chiarito cos’è (e a che punto è) il mutamento climatico. Molto utile, direi anzi indispensabile, perché senza conoscere il fatto il diritto è vuoto, come i concetti, di cui parlava Kant, sono vuoti senza le intuizioni del mondo sensibile.

Premetto poi che concordo con l’analisi giuridica, come sempre attenta, approfondita e completa, fornita dagli illustri Relatori: il Prof. De Leonardis ci ha offerto un’esposizione sullo stato dell’arte della “giustizia climatica” e spunti molto interessanti sul dibattito seguito alla modifica dell’art. 9 della Costituzione disposta con la legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1; il Cons. Tulumello ci ha illustrato molto bene lo stato della giurisprudenza amministrativa nel giudicare del conflitto tra “ambiente-ecologia” (transizione ecologica) e altri valori-beni-interessi pubblici in qualche modo antagonisti, in particolare il paesaggio. L’Avv. D’Ascia ci ha illustrato, sempre in tema di “giustizia climatica”, le più recenti pronunce della CEDU del 9 aprile 2024, il caso Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri contro la Svizzera e il caso Duarte Agostinho e altri contro Portogallo e 32 altri Stati.

Sulla “giustizia climatica” ritengo che, pur nell’apprezzare e nel non sottovalutare l’apporto utile di tale “formante”, occorra realisticamente sottolineare la necessità di muoversi con prudenza su questo versante, poiché, a mio avviso, non devono riporsi eccessive e vane speranze sulla sua capacità di contribuire a una più efficace attuazione delle misure di lotta al climate change: vi osta la natura squisitamente politica del tema, che non può certo parcellizzarsi in una miriade di azioni individuali davanti ai giudici, con esiti prevalentemente risarcitori, o, altrimenti, con gli evidenti problemi – bene sottolineati dal Prof. De Leonardis – di potenziale invasione delle prerogative del legislativo e dell’esecutivo, in violazione evidente del principio di separazione dei poteri.

Come, più in generale, è stato bene sottolineato a proposito della tutela dei diritti sociali di nuova generazione e delle “libertà positive”[1], la dimensione “individuale” legata alla loro configurazione giudiziario-soggettiva fa sfuocare e perdere di vista la dimensione necessariamente collettiva che caratterizza (e deve caratterizzare) queste pretese sociali, la cui realizzazione richiede rivendicazioni politiche e soprattutto un’adeguata mobilitazione nella sfera pubblica[2]. In sostanza, il rischio è quello di frantumare in mille rivoli individuali (ininfluenti) la mobilitazione politica di massa, che sola può in realtà “spostare” con il suo peso gli equilibri e determinare scelte politiche degli Stati davvero efficaci sul piano della lotta al mutamento climatico.

Circa la riforma dell’art. 9 della Costituzione, rispetto alla tesi prevalente, del tutto favorevole, ho assunto, invece, in miei recenti contributi[3], una posizione più problematica e critica: ho distinto tra il qui ed ora e il futuribile sperato. Ho detto che, pur a fronte di importanti e condivisibili enunciati contenuti in questo nuovo terzo comma, l’unico effetto immediato e concreto della riforma sembrerebbe ad oggi consistere nell’indebolimento della tutela paesaggistica per effetto della equiordinazione formale della tutela ambientale (declinata soprattutto in termini industriali).

Sembra, in effetti, che sinora questa riforma sia servita solo a indebolire la tutela del paesaggio sgombrando il campo dal “fastidioso equivoco” che la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione, rispetto alle pale eoliche e ai campi fotovoltaici, potesse godere di una posizione di superiorità gerarchica in quanto, essa soltanto, inclusa tra i primi 12 articoli della Carta fondamentale (interesse primario e assoluto , diceva una volta la Consulta[4]). Adesso, entrata nei principi fondamentali della Carta anche la tutela dell’ambiente-ecosfera, nessun ostacolo si frapporrebbe più alla libera bilanciabilità dei vari beni-interessi-valori in potenziale conflitto (gli impianti di produzione di energia elettrica rinnovabile vs. il paesaggio e l’agricoltura).

Restano per ora sullo sfondo la tutela della biodiversità, degli ecosistemi, delle future generazioni, degli animali senzienti, etc ., tutele che appaiono allo stato relegate nel novero delle previsioni programmatiche, ad oggi pressoché prive di ricadute applicative concrete (a parte, forse, una maggiore tutela degli orsi e dei lupi o degli animali domestici), e dunque affidate a un futuro (prossimo o remoto), sperabilmente più sensibile e maturo.

In proposito sono solito proporre quello che chiamo “il test Ilva”: se la Corte costituzionale fosse stata chiamata oggi a pronunciarsi sul caso Ilva di Taranto, avrebbe concluso – in forza del nuovo terzo comma dell’art. 9 – in modo diverso da come concluse nella sentenza n. 85 del 2013 (affermativa della totale bilanciabilità di tutto, nei limiti della ragionevolezza)? Personalmente lo escludo.

Sul piano pratico, dunque, questa riforma (non a caso votata pressoché all’unanimità dal Parlamento, anche dalle destre di solito piuttosto scettiche sulla svolta green) è servita in sostanza solo a supportare pronunce che, in tema di realizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile, hanno accolto i motivi di gravame con cui l’impresa proponente lamentava la mancata effettuazione, da parte dell’Amministrazione di “un raffronto comparativo fra tutti i plurimi interessi pubblici e privati sottesi alla fattispecie” e l’attribuzione di “un dirimente valore ostativo al rilievo paesaggistico dei siti . . . la cui tutela non è affatto sovraordinata nel sistema costituzionale agl’interessi antagonisti, primo fra tutti quello della produzione di energia da fonti rinnovabili (la recente riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione depone anzi, sul piano della gerarchia degl’interessi, in senso antitetico)” [5] .

E dunque il timore di un downgrading della tutela del patrimonio culturale, che avevamo manifestato nel 2021[6], alla vigilia dell’approvazione della modifica dell’art. 9 della Costituzione, era più che fondato[7].

Anzi, eravamo stati troppo ottimisti! Ed infatti si sostiene oggi, addirittura, che il bilanciamento sarebbe stato ormai operato a monte dalla normativa europea sovraordinata e dalla legge nazionale, poiché l’art. 1 della direttiva 2023/2413 del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 ottobre 2023 ha inserito nella direttiva (UE) 2018/2001 un nuovo art. 16- septies – rubricato “Interesse pubblico prevalente” – in base al quale “Entro il 21 febbraio 2024, fino al conseguimento della neutralità climatica, gli Stati membri provvedono affinché, nella procedura di rilascio delle autorizzazioni, la pianificazione, la costruzione e l’esercizio degli impianti di produzione di energia rinnovabile, la connessione di tali impianti alla rete, la rete stessa e gli impianti di stoccaggio siano considerati di interesse pubblico prevalente e nell’interesse della salute e della sicurezza pubblica nella ponderazione degli interessi giuridici nei singoli casi e ai fini dell’articolo 6, paragrafo 4, e dell’articolo 16, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 92/43/CEE, dell’articolo 4, paragrafo 7, della direttiva 2000/60/CE e dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2009/147/CE”.

Sicché oramai non ci sarebbe più partita, non ci sarebbe più niente da bilanciare (al livello di procedimento amministrativo, di conferenza di servizi, o dinanzi al giudice amministrativo), con il risultato pratico che tutti i progetti di parchi eolici e di campi fotovoltaici – se necessari per raggiungere i risultati del PNIEC – dovrebbero di necessità essere realizzati, a questo punto ovunque piaccia all’impresa proponente, a nulla potendo valere l’opposizione della Regione, del Comune, del comitato di cittadini o della soprintendenza.

Insomma, saremmo al cospetto di un novello super-interesse “tiranno”, quello alla lotta al mutamento climatico e al raggiungimento della neutralità climatica, dinanzi al quale tutto deve recedere e soccombere.

Tesi questa a mio sommesso avviso discutibile. Dubito che la direttiva europea possa porsi al di sopra dell’art. 9 della Costituzione (che tale pretesa graduazione, con asserita primazia dell’ambiente-ecologia-transizione ecologica, non opera) e dubito che la (poco consapevole) locuzione adoperata nella direttiva possa valere a scardinare il nostro sistema delle tutele, essendo ben possibile (e consigliabile) un’interpretazione sistematica più coerente e ragionevole. Basti pensare che, portando alle sue estreme conseguenza questa tesi, si perverrebbe all’assurdo che dovrebbe essere sempre consentito l’efficientamento energetico di un edificio storico vincolato anche sovrapponendo alla facciata storica un cappotto termico, nulla potendo in contrario il diniego di autorizzazione del soprintendente, come tale sempre recessivo e illegittimo, sol che sia dimostrato che il cappotto termico, riducendo le emissioni dell’edificio, contribuisce alla lotta al mutamento climatico.

Altrimenti opinando, occorrerebbe scomodare la teoria dei controlimiti e la clausola identitaria dell’art. 4, par. 2, TUE – posto che, almeno per me, il patrimonio culturale della Nazione è il vero fondamento della nostra identità nazionale – per arginare letture tese a rovesciare di fatto nel suo opposto il senso dell’originario art. 9 della Costituzione (dalla primarietà e assolutezza della tutela del patrimonio culturale alla sua pratica irrilevanza).

Occorrerebbero, evidentemente, su questo delicato profilo, approfondimenti che non sono possibili in questa sede[8].

Pertanto le pronunce sopra citate, che pur appaiono sotto un certo punto di vista conformi al quadro normativo di riferimento (notoriamente e dichiaratamente rivolto a promuovere e favorire in ogni modo la realizzazione degli impianti FER, contro ogni forma di possibile opposizione, e dunque contro il fattore nimby, i Comuni, le soprintendenze, i comitati, etc.), suscitano comunque (si licet) qualche domanda[9].

L’obbedienza alla legge non ci deve impedire di guardare illuministicamente alla realtà dei fatti, almeno per provare a collocare la decisione entro un orizzonte di senso più ampio e completo.

Occorre dunque partire da un dato di verità. Occorre fare un discorso di verità, per riportare i nostri pensieri su un piano di realtà, al di là delle “narrazioni” convenzionali restituite dal groviglio normativo di settore.

Il dato di fatto dal quale partire è la constatazione, oggettiva e vera, che l’Italia contribuisce alle emissioni mondiali di gas climalteranti (all’incirca) per uno 0,8% circa [10] (l’intera Europa sembra che produca non più del 10% dei gas climalteranti).

Nel frattempo l’Amazzonia brucia (nonostante Lula da Silva, forse un po’ meno di quanto non avvenisse sotto il governo Bolsonaro) sotto la spinta inarrestabile della crescita demografica e della fame di terra da coltivare (complici forse anche le multinazionali dell’agricoltura intensiva, ma questo poco rileva); per non parlare dell’Argentina di Milei o del Venezuela di Maduro; nel frattempo la Cina continua a costruire centrali a carbone (alcuni dicono anche per alimentare l’industria delle batterie al litio e dei pannelli fotovoltaici); nel frattempo l’India neppure se lo pone il problema del mutamento climatico, occupata com’è a sfamare un miliardo e mezzo circa di persone; nel frattempo potrebbe essere rieletto negli Stati Uniti un negazionista climatico dichiarato; nel frattempo l’Africa – ovviamente – ignora a sua volta il problema, essendo in tutt’altre faccende affaccendata, per mille buone ragioni, etcetc.

Cosa ci dice questo dato di verità di fatto? Ci dice chiaramente che autorizzare un campo fotovoltaico in mezzo al verde soddisfa appieno il (fisiologico) desiderio di guadagno dell’impresa proponente, ma è totalmente irrilevante sul piano della lotta al mutamento climatico.

E allora è semplicemente falso dire che il conflitto è tra “ambiente-ecologia”, da un lato, e “paesaggio- agricoltura”, dall’altro lato, ossia tra chi vuole i “parchi eolici” e i campi fotovoltaici per fare la transizione ecologica e chi, come i Comuni e i comitati di cittadini (o le soprintendenze), si oppone alla transizione ecologica perché non vuole il cambiamento:

In realtà il conflitto è tra le imprese che perseguono i propri interessi economici (leciti e legittimi, per carità), da un lato, e coloro che difendono gli interessi collettivi o diffusi alla tutela dell’identità paesaggistico-culturale (contro il consumo di territorio e di paesaggio), dall’altro lato.

La verità è che qui si contrappongono due modelli alternativi di sviluppo o, meglio, due diverse e contrapposte visioni del futuro dei territori e del tipo di sviluppo che le comunità vogliono per sé e per i propri figli.

La verità è che questa transizione ecologica, fatta in questo modo forse poco lungimirante, che consuma suolo, territorio, agricoltura e paesaggio, secondo la classica logica dell’economia estrattiva, può al più servire, questo sì, ad assicurare una maggiore sicurezza dell’approvvigionamento energetico del paese, soprattutto in tempi disgraziati di ritorno alla guerra, quali quelli che purtroppo stiamo vivendo in questi anni[11]. Ma certo non serve affatto a combattere il cambiamento climatico.

Questo errore strategico, che ho già denunciato in miei precedenti contributi[12], nasce dalla fallacia insita nell’idea mainstream di certo ambientalismo industrialista del “pensare globale – agire locale”. La verità è tutt’al contrario: bisognerebbe riuscire ad agire globale, se si vuole risolvere qualcosa, cercando di non distruggere il nostro territorio locale.

Qui, peraltro, devo precisare, nessuno è contrario alla transizione ecologica. Che si debba fare è (per me) fuori discussione. Non è in discussione il se si debba fare, ma solo il come, il modo , la misura della sua realizzazione (come proverò a chiarire più avanti). Personalmente ho sempre detto di essere un convinto assertore della più recente filosofia ambientalista critica dell’antropocene (e dell’antropocentrismo), che costituisce probabilmente l’unico pensiero filosofico davvero nuovo e fecondo: condivido e sottoscrivo parola per parola, ad esempio, l’enciclica del 2015 Laudato sì di Papa Francesco (salvo il rilievo critico che essa è priva del capitolo fondamentale, quello che avrebbe dovuto essere il primo capitolo, quello relativo alla demografia).

Ciò precisato, occorre esaminare brevemente tre obiezioni che spesso vengono mosse a questo argomentare, obiezioni a mio avviso errate.

Si dice: «se non si fa qui e subito la transizione ecologica, tra poco, con la tropicalizzazione del clima, il surriscaldamento del Mediterraneo e la incipiente desertificazione di vaste aree del paese, non ci sarà più nessun paesaggio e nessuna agricoltura da difendere». È facile obiettare a questa visione catastrofista che, per quanto detto sopra, è del tutto inutile auto-distruggere qui e ora, subito, i nostri paesaggi, coprendoli di pale eoliche e di campi fotovoltaici, mentre il resto del mondo non fa nulla (anzi, continua a crescere con un’esplosione demografica fuori controllo). È come voler svuotare il mare con un cucchiaino.

Certo, noi siamo i più bravi del mondo, vogliamo essere i primi della classe e vogliamo essere d’esempio[13]. Ma a me pare che questa ambizione non valga il prezzo della distruzione dei paesaggi italiani. Dissento, dunque, molto sommessamente, dall’idea, pur autorevolissimamente enunciata dal Presidente Mattarella lo scorso 28 settembre (nel corso della seconda giornata della visita di Stato in Germania, a Bonn, presso il Campus delle Nazioni Unite), secondo la quale l’Europa non deve farsi condizionare dalle resistenze del resto del mondo e deve essere orgogliosa di costituire l’avanguardia nell’impegno per la transizione ecologica. Sì, dobbiamo essere bravi, ma, se possibile, senza autodistruggerci.

Un’obiezione più seria riguarda poi l’innovazione tecnologica. Si dice: «se non “corriamo” dietro agli obiettivi europei rischiamo di “perdere il treno” dell’innovazione tecnologica e della ricerca». Anche a questa obiezione può replicarsi con l’osservazione che si può ben fare innovazione e ricerca anche senza dover per forza distruggere la bellezza dei nostri paesaggi. Puntando, ad esempio, sul brown field e sulle periferie degradate e compromesse e sulle aree industriali dismesse.

Un altro argomento messo in campo dai sostenitori della transizione ecologica accelerata è quello che fa leva sul fatto che, soprattutto in Italia, i paesaggi non avrebbero ormai quasi più niente di “naturale” e sarebbero stati incessantemente trasformati dall’uomo sin dall’antichità, ragion per cui non si comprende perché oggi si dovrebbe smettere di modificarli e ci si dovrebbe preoccupare delle pale eoliche, etc.: il Colosseo o gli imponenti acquedotti romani, si dice, non rappresentano essi stessi profonde e radicali manomissioni dei paesaggi naturali? e – si aggiunge – perché non dovrebbe accadere per i parchi eolici e i campi fotovoltaici la stessa cosa avvenuta per il ponte medievale di Spoleto, ritenuto da Goethe un esempio di “seconda natura”[14], in cui l’intervento umano si è perfettamente integrato con il contesto naturale, sì da risultarne un tutt’uno armonico? Alcuni sono arrivati a parlare di energetic landscapes, paesaggi energetici[15].

Questo argomento, radicalmente sbagliato, è stato già da anni confutato da Antonio Cederna e da Pier Luigi Cervellati, i quali posero in luce il vizio logico che lo incrina: un vizio evidente di scala, di incomparabilità dimensionale (oltre che di tipologia e di tecnica costruttiva), tra quanto avvenuto in passato (fino alla rivoluzione industriale, ma, in realtà, a ben vedere, fino al 1945) e quanto è avvenuto nella seconda metà del Novecento e sta avvenendo oggi. La potenza incontrollabile della Tecnica oggi è enormemente maggiore che non in passato e le alterazioni antropiche dei paesaggi di oggi sono assolutamente incomparabili con quelle di ieri. Antonio Iannello ha bene chiarito [16] come le tecniche costruttive di “ieri” (fino al 1945) erano (se si vuole, anche per povertà economica e tecnica) oggettivamente inserite in modo organico nel contesto territoriale, per dimensioni, per tecniche e materiali costruttivi; erano dunque “a misura d’uomo” e di natura, mentre lo sgoverno dei territori del boom economico post guerra, lo sviluppo industriale, il dilagare delle seconde case sulle coste e nelle località montane, etc. hanno prodotto un profondo stravolgimento della facies dei nostri paesaggi, uno sconvolgimento mai visto prima per dimensioni quantitative e per pessima qualità estetica. È come paragonare l’arco con le frecce alla bomba atomica.

Tralascio poi l’argomento, che non merita commento, secondo cui, poiché i nostri territori sono stati già da tempo devastati dalla cementificazione selvaggia, non si comprende perché ci si dovrebbe opporre oggi alle pale eoliche e ai campi fotovoltaici . . . .

Ma, allora, qual è l’alternativa? È stato detto mille volte: si coprano obbligatoriamente tutti i capannoni industriali, i sedimi autostradali e ferroviari in disuso, le aree abbandonate e degradate delle nostre pessime periferie urbane, si imponga (in modo effettivo e vincolante) la priorità dell’uso del brown field e, perché no, si facciano accordi con la Tunisia, l’Algeria e la Libia per andarla a produrre lì l’energia fotovoltaica, nel deserto, dove c’è sempre sole e non c’è paesaggio, a parte le dune (bastano poi dei cavidotti sottomarini per portarla in Italia, il Mediterraneo è già pieno di condotte sottomarine di ogni tipo e non ci sono particolari ostacoli tecnici).

L’obiezione è dunque sul modo di procedere, affrettato, poco lungimirante, non governato, non pianificato, condizionato da forti interessi economici (non dimentichiamoci le centinaia di miliardi di euro per finanziare gli incentivi alle costruzioni di rinnovabili pagate in larga parte dai cittadini nelle bollette della luce), non sul se procedere.

Il problema sta nell’assenza di pianificazione, nell’assenza di un reale ed effettivo governo pubblico dei processi, nella scelta di abbandonare questa transizione alla mano invisibile del dio mercato, al laisser faire , per cui le imprese intervengono dove più conviene loro, dove i terreni costano meno, e cioè sulle aree agricole verdi. Il problema sta, inoltre, nell’annichilimento dei poteri dei comuni, ritenuti attori molesti del fattore “nimby”, e nella sterilizzazione di ogni voce contraria[17].

La verità è che per combattere il mutamento climatico occorrerebbe pensare a modelli di vita radicalmente diversi e occorrerebbe porre seriamente la questione demografica (che però costituisce ormai un tabù impronunciabile).

Sul fallimento della nozione di sviluppo sostenibile – un ossimoro – ho detto in altre sedi[18]. Ma se non si pone al centro l’idea di limite e la nozione di equilibrio omeostatico, non si va da nessuna parte[19].

Prima di distruggere i nostri paesaggi – e concludo – dovremmo riflettere bene e a lungo su cosa sta accadendo nel mondo e su quali possano essere le risposte reali e vere al mutamento climatico.

Aggiungo che la tecnica del bilanciamento non sempre (o quasi mai) può funzionare per la tutela del patrimonio culturale, per la semplice ragione che il bene culturale o paesaggistico è unico, è irriproducibile, non lo puoi spostare da un’altra parte, mentre, nel contempo, l’impatto visivo dei parchi eolici e dei campi fotovoltaici è di regola tale da stravolgere radicalmente la facies del territorio interessato dall’intervento, trasformandola di fatto in un paesaggio industriale.

In conclusione, occorre certamente trovare un punto di mediazione ragionevole, su questo non c’è dubbio. Ma questa mediazione, per essere ragionevole, deve poggiare sulla realtà e sulla verità e non su falsi miti. A me sembra che l’assetto regolatorio attuale non abbia centrato l’obiettivo dell’equilibrio, ma sia piuttosto squilibrato a favore della visione che io chiamo dell’“ambientalismo industriale”, di una transizione ecologica che soggiace al dominio della tecnica ed è abbandonata al libero mercato, a discapito della bellezza dei nostri paesaggi, che sono la nostra cultura e la nostra identità.

Paolo Carpentieri


[1] Isaiah Berlin, Due concetti di libertà, 1958 (in Libertà, trad. it. di G. Rigamonti, Milano, 2005). In tema cfr. D. Nocilla, Libertà , in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico , vol. IV, Milano, 2006, 3496 ss., ed ivi ampi richiami bibliografici.

[2] G. Agamben, Homo sacer , 1995, 146 ss., parla di separazione tra umanitario e politico come scollamento tra i diritti dell’uomo e i diritti del cittadino. In tema cfr. anche R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno , Il Mulino, Bologna, 2020, 391: “Una volta poi che a fondamento della razionalità si pongono scelte individuali insindacabili e alla base dell’etica – come accade nel neocontrattualismo – diritti individuali per natura inalienabili, nessuno schema dialettico può intrinsecamente funzionare”. Spunti di rilievo anche in Leo Strauss (richiamato da Jürgen Habermas, Una storia della filosofia. I. Per una genealogia del pensiero postmetafisico , Feltrinelli, Milano, 2022, 37). Una critica profonda alla nuova religione dei diritti umani in M. Gauchet, La démocratie contre elle meme , Gallimard, Paris, 2002, richiamato in sintesi da R. Esposito, Da fuori (una filosofia per l’Europa), Einaudi, Torino, 2016, 221. Jacques Julliard (su Il Foglio del 14 aprile 2021, I diritti contro la democrazia) osserva come l’ideologia dei diritti dell’uomo ha dirottato il dibattito politico dal Parlamento verso i tribunali (richiamando Jean-Claude Michéa, il quale osservava che “l’illimitatezza dei diritti di ognuno . . . non sfocia in una società armoniosa e consensuale, ma in una guerra di tutti contro tutti per interposti avvocati”).

[3] G. Severini, P. Carpentieri, Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’articolo 9 della Costituzione , nella rivista on line Giustizia InsiemeDiritto e processo amministrativo , n. 1945 – 22 settembre 2021.

[4] A partire da Corte cost. 27 giugno 1986, n. 151 (che respinse i ricorsi regionali contro la legge “Galasso”), idea poi ribadita nelle sentenze nn. 378 e 641 del 1987, n. 367 del 2007, n. 180 del 2008, nn. 164, 226 e 272 del 2009, nn. 101, 193 e 278 del 2010, nn. 235 e 309 del 2011, n. 66 del 2012, nn. 139, 211 e 238 del 2013, n. 197 del 2014, n. 64 del 2015, n. 11 del 2016, n. 246 del 2017, nn. 164 e 257 del 2021, n. 24 del 2022, ma poi negata dalla stessa Corte sulla base della nota giurisprudenza sulla inammissibilità di valori “tiranni” inaugurata dalla sentenza “Ilva” n. 85 del 2013.

[5] Così Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2024, n. 4766, che richiama, nello stesso senso, Cons. di Stato, sez. VI, n. 10624/2022 e n. 8167/2022.

[6] G. Severini, P. Carpentieri, Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’articolo 9 della Costituzione , cit.

[7] Ne costituiscono ampia riprova la dottrina e la giurisprudenza puntualmente citate nella pregevole e ampia relazione presentata in occasione del presente Convegno dal Cons. G. Tulumello (soprattutto paragrafi 5.1. La dialettica fra ambiente e paesaggio, 5.2. Il nuovo testo dell’art. 9 della Costituzione , e 5.3. La recente Direttiva (UE) 2023/2413 del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 ottobre 2023, che modifica la direttiva (UE) 2018/2001 sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili: la codificazione della nozione di interesse pubblico prevalente ).

[8] La motivazione del nuovo art. 16- septies della direttiva 2023/2413 si rinviene nel considerando n. 44: “Ai fini del pertinente diritto ambientale dell’Unione, nelle necessarie valutazioni caso per caso intese ad accertare se un impianto di produzione di energia rinnovabile, la connessione di tale impianto alla rete, la rete stessa o i mezzi di stoccaggio sono d’interesse pubblico prevalente in un determinato caso, gli Stati membri dovrebbero considerare tali impianti di produzione di energia rinnovabile e la relativa infrastruttura d’interesse pubblico prevalente e d’interesse per la salute e la sicurezza pubblica eccetto se vi sono prove evidenti che tali progetti hanno effetti negativi significativi sull’ambiente che non possono essere mitigati o compensati, o se gli Stati membri decidono di limitare l’applicazione di tale presunzione in circostanze specifiche e debitamente giustificate, quali motivi connessi alla difesa nazionale. Tali progetti possono beneficiare di una valutazione semplificata nel momento in cui tali impianti di produzione di energia rinnovabile sono considerati d’interesse pubblico prevalente e funzionali alla salute e alla sicurezza pubbliche”. È da sottolineare, ovviamente, l’inciso “eccetto se vi sono prove evidenti che tali progetti hanno effetti negativi significativi sull’ambiente che non possono essere mitigati o compensati). Si può dunque ipotizzare, tutt’al più, in base a questa nuova direttiva, una sorta di dovere di motivazione rafforzata sulla tutela del paesaggio, ma non può certo ritenersi che sia stata operata una rigida gerarchizzazione normativa dei beni-valori-interessi coinvolti nelle singole fattispecie, tale da escludere in radice ogni possibile, doveroso bilanciamento. Inoltre, dalla lettura complessiva della citata direttiva del 2023 ( considerando dal n. 20 al n. 33, nonché artt. 15- bis e ss.) emerge chiaramente che la semplificazione e accelerazione delle procedure autorizzative deve seguire logicamente e giuridicamente la “mappatura coordinata per la diffusione delle energie rinnovabili e per le relative infrastrutture, in coordinamento con gli enti locali e regionali” ( considerando 25), e la conseguente individuazione delle aree idonee e delle aree non idonee, oltre alla designazione di specifiche zone “come zone di accelerazione per le energie rinnovabili” in quanto “particolarmente adatte ai fini dello sviluppo di progetti in materia di energia rinnovabile” ( considerando 26), dovendo valere, la ridetta semplificazione, come si evince tra l’altro dal considerando 33, per le suddette aree già definite a monte idonee o particolarmente adatte (con l’ulteriore considerazione – considerando 27 – che “In tale contesto la pianificazione territoriale rappresenta uno strumento indispensabile”).

[9] Giova precisare che si pongono qui esclusivamente questioni e temi di carattere sistematico generale, che nulla ovviamente hanno a che fare con le singole e specifiche fattispecie decise, esclusa dunque in questa sede qualsivoglia disamina critica intrinseca alle sentenze citate.

[10] Secondo altre fonti l’Italia inciderebbe per meno dello 0,1% delle emissioni globali emettendo circa 338 milioni di tonnellate di CO2eq (11% delle emissioni europee): così al sito https://www.esg360.it/esg-smart-data/emissioni-di-co2-dove-trovare-i-dati/, 22 gen 2024.

[11] Si vedano, in tale più realistico senso, i considerando 4 e 5 della citata direttiva 2023/2413 del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 ottobre 2023.

[12] P. Carpentieri, Relazioni e conflitti tra ambiente e paesaggio, relazione (integrata con alcuni aggiornamenti successivi) presentata al Corso di formazione organizzato dall’Ufficio studi della Giustizia amministrativa e dal Tar della Toscana su “Scelte ambientali, azione amministrativa e tecniche di tutela dopo la legge di rev. cost. n. 1 del 2022”, svoltosi a il 1° e il 2 luglio 2022, pubblicata, con i relativi Atti, sul sito della Giustizia amministrativa in data 6 febbraio 2023, nonché in Federalismi.it , n. 13/2023, 5 giugno 2023.

[13] Joseph Heinrich, professore di antropologia ad Harvard, ha proposto la teoria dei weird (Weird: la mentalità occidentale e il futuro del mondo, Il Saggiatore, 2022): Weird è l’acronimo di Western, Educated, Industrialised, Rich, Democratic . Heinrich sostiene che i Weird, gli “strani” (cioè noi) – quelli che ragionano in maniera analitica, credono nella responsabilità individuale e nella libertà del volere, sono individualisti, ma universalisti etici – pur costituendo una sparuta minoranza nel mondo, pensano di poter imporre al mondo il proprio punto di vista “universalmente valido”. Gli altri, in non weird , vivono invece legati al clan e alla famiglia, pensano in maniera olistica, sono comunitaristi piuttosto che individualisti, negano o ignorano ogni pretesa etica universalistica. Insomma, noi occidentali, educati, industrializzati, ricchi e democratici, che (giustamente) ci preoccupiamo del mutamento climatico, siamo in realtà una sparuta minoranza sul pianeta. Forse rappresentiamo l’avanguardia del plurimillenario processo di auto-domesticazione dei Sapiens e siamo quasi sicuramente nel giusto, ma non possiamo non sapere e non considerare qual è il mondo in cui viviamo. In tema cfr. S. Maffettone, Il nostro tempo con il pensiero – una filosofia del presente , Mimesis, Milano-Udine, 2023, nonché H. Sauer, L’invenzione del bene e del male , Laterza, Bari-Roma 2023.

[14] J. W. Von Goethe, Viaggio in Italia, trad. di E. Castellani, Milano, 1983 (ristampa 2010), 122 (“Salito a Spoleto, mi sono recato all’acquedotto che fa da ponte tra una montagna e l’altra . . . Una seconda natura, intesa alla pubblica utilità, questa fu per loro l’architettura, e in tal guisa ci si presentano l’anfiteatro, il tempio, l’acquedotto”). Sul tema cfr. S. Settis, Architettura e democrazia , Torino, 2017, cap. IV, Eine zweite Natur.

[15] Per alcune considerazioni critiche sugli errori cui può condure l’eccesso di relativismo sia consentito il rinvio a P. Carpentieri, Il concetto giuridico di “paesaggio” tra governo del territorio e ambiente , Prolusione tenuta in occasione dell’inaugurazione dell’a.a. 2023-2024 della SPISA – Università di Bologna, 5 aprile 2024, reperibile sul sito della Scuola, pag. 30, note 70 e 71.

[16] C. Iannello, La concezione crociana di paesaggio nell’art. 9 della Costituzione repubblicana scritto da Aldo Moro e Concetto Marchesi, in P. Carpentieri, C. Iannello, G. Montedoro, La concezione crociana di paesaggio nel diritto contemporaneo , con prefazione di Piero Craveri, Editoriale Scientifica, Napoli, 2023, 29 ss.

[17] L’azzeramento del ruolo dei Comuni, deve osservarsi, presenta profili di dubbia costituzionalità, stante la riconosciuta natura storica e propria delle loro funzioni urbanistiche e di governo del territorio. Parimenti dubbia è la legittimità della restrizione posta alla reale partecipazione dal basso della cittadinanza attiva (anche alla stregua della direttiva 90/313/CEE del 1990 sull’accesso alle informazioni ambientali e delle Convenzione di Aarhus del 1998, che riguarda anche la partecipazione ai processi decisionali, e di Faro del 2005, ratificata dall’Italia con la legge n. 133 del 2020, che prevede le comunità di patrimonio, valorizzando la partecipazione attiva dal basso nei processi decisionali). Da notare che il trentesimo considerando della direttiva (UE) 2023/2413 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 ottobre 2023, precisa che “Per incrementare l’accettazione dei progetti in materia di energia rinnovabile da parte dell’opinione pubblica, è opportuno che gli Stati membri adottino idonee misure per promuovere la partecipazione delle comunità locali ai progetti in materia di energia rinnovabile. Restano applicabili le disposizioni della convenzione della Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale (16), firmata ad Aarhus il 25 giugno 1998, in particolare le disposizioni relative alla partecipazione del pubblico e all’accesso alla giustizia”.

[18] P. Carpentieri, La causa nelle scelte ambientali, in Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze, n. 3 del 2006, 99 ss. S. Maffettone (Il nostro tempo con il pensiero – una filosofia del presente, cit.) distingue tra deep ecology , ecologia profonda (antisistema) e shallow ecology (ecologia superficiale), ossia “compatibilista” o, per l’appunto, “sostenibilista”. Rallentare o accelerare? Questo è il dilemma. Vogliamo rallentare oppure seguire il mito transumanista degli accelerazionisti, per i quali il problema non c’è, oppure, se c’è, la tecnologia presto lo risolverà (Ray Kurzweil, The Singularity is nearer , 2024, La singolarità è più vicina, Apogeo)? Un mito, quest’ultimo, strumentale alla dittatura del PIL, che altro non è se non l’ennesima versione “aggiornata” del pensiero magico-religioso, fondato sull’attesa escatologico-messianica del salvatore, qui nella versione della singolarità tecnologica, che mette la Tecnica al posto di Dio.

[19] Sulla centralità del concetto di omeostasi nella biologia cognitiva cfr. A. Damasio, Sentire e conoscere, Adelphi, Milano, 2022; anche nella teoria di Gaia di Verdansky – Lovelock – Margulis si fa riferimento al concetto di omeostasi adattiva.

Fenicotteri rosa (Phoenicopterus roseus) in volo e centrale eolica

(foto AFP Photo/Ted Aljibe – Il Corriere della Sera, da mailing list ambientalista, A.L.C., S.D., archivio GrIG)

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