TRENT’ANNI FA: LA GUERRA IN IRAQ

1 year ago 97

di Alain Gresh e Jean-Pierre Sereni

Il 20 marzo del 2003 iniziava la guerra contro l’Iraq. A partire da oggi e per le prossime settimane, OrientXXI e Orient XXI Italia pubblicheranno articoli e approfondimenti dedicati a questo ventennale, a firma di diversi autori e autrici.

15.03.2023

Iraq 2003. Un crimine senza colpevoli

di Alain Gresh

E così la storia si ripete. Ogni volta, l’intervento straniero contribuisce ad aggravare problemi che dovrebbe risolvere, caricando la popolazione di ulteriori sofferenze che, invece, dovrebbe alleviare. E ogni volta, gli eventi smentiscono le belle promesse di un futuro migliore, facendo allontanare l’orizzonte di un ordine internazionale più giusto mentre la guerra diventa il modus operandi per risolvere le crisi. E ogni volta, ci sono alcuni – colti da amnesia – che ci spingono a scatenare una nuova guerra.

Gli esempi da citare sono tanti. In Libia, l’obiettivo era sbarazzarsi di un dittatore megalomane e sanguinario; il risultato è stato quello di avere un paese diviso, il crollo dello Stato e le conseguenze della caduta del regime oggi ricadono su tutta la regione del Sahel. In Afghanistan, con un clamoroso ritiro delle truppe dopo vent’anni, gli Stati Uniti hanno lasciato un paese in rovina e al loro destino le donne afghane che pretendevano di liberare, mentre i talebani, proprio quelli che Washington voleva punire per gli attentati dell’11 settembre 2001, sono oggi di nuovo al potere. Mai il famoso detto “la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni” è apparso tanto vero.

Nella classifica dei disastri, alla guerra contro l’Iraq del 2003 spetta senza dubbio il primo posto. Sarà “la madre di tutte le battaglie” aveva promesso il presidente iracheno Saddam Hussein il 16 gennaio 2003, quando gli Stati Uniti, il Regno Unito e i loro alleati – in quella che fu chiamata “la nuova Europa” – invasero il suo Paese. Bastarono poche settimane per mettere fine alle spacconate del raïs, ma ci sono voluti anni prima che Washington trovasse la via d’uscita. Un evento che metteva insieme il folle sogno in stile dottor Stranamore dei neoconservatori con quello dell’ex presidente George W. Bush che ambiva a ridisegnare il Medio Oriente e favorire gli appetiti delle grandi compagnie petrolifere che miravano al petrolio iracheno nazionalizzato nel 1972 (1).

Attraverso la voce del suo ministro degli Esteri dell’epoca Dominique de Villepin, la Francia, con l’ovazione di gran parte dei presenti a quella storica sessione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, aveva osato protestare contro quella folle avventura. La sfida lanciata da Parigi all’arroganza americana le costò una crisi senza precedenti con Washington e una campagna antifrancese che raggiunse il culmine in quell’anno. Ma questo coraggio non durò a lungo. In netto contrasto con lo spirito e la lettera della Carta delle Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza – e quindi anche la Francia – approvò la risoluzione a sostegno dell’invasione americana e la decisione di affidare all’aggressore il compito di gestire l’Iraq. A una condotta criminale e illegale, gli Stati Uniti aggiunsero poi un’incompetenza dovuta all’ideologia dei neocon e alla scarsa conoscenza della regione.

È difficile stabilire il bilancio di questa guerra. Non sapremo mai il numero esatto dei morti iracheni: centinaia di migliaia secondo alcuni, un milione secondo altri. A cui vanno aggiunti la miriade di profughi, la distruzione delle infrastrutture, il collasso del sistema scolastico. Decretando un rigido confessionalismo politico che divide il potere tra sunniti, sciiti e curdi, gli apprendisti stregoni americani hanno reso ingovernabile il Paese. E ancora oggi, gli Stati Uniti continuano a controllare le entrate petrolifere irachene conservate nei caveau della Banca Centrale. Per quanto riguarda le conseguenze geopolitiche, sono ben lontane dal corrispondere ai sogni dei neoconservatori che prevedevano la nascita di un Iraq democratico, solido alleato di Israele.

Ironia della sorte, la guerra in Iraq ha permesso all’Iran, nemico pubblico numero uno degli Stati Uniti, di intrufolarsi nel cuore del sistema politico e delle milizie irachene; dando vita all’organizzazione dello Stato Islamico (IS), come la guerra americana in Afghanistan aveva dato vita a quella di Al-Qaeda.

Per tutti questi crimini – crimini di aggressione, crimini contro l’umanità e crimini di guerra (2) – non verrà processato alcun leader occidentale. Né George W. Bush, né Tony Blair, né Silvio Berlusconi, né José Maria Aznar, nessuno di loro sarà trascinato davanti a un tribunale internazionale come un qualsiasi leader africano.

La guerra in Iraq è stata cancellata troppo in fretta, di certo è stato un “errore”, ma dal quale non si imparerà alcuna lezione: a Washington e Tel Aviv non stanno già parlando di una nuova spedizione contro l’Iran? Un’amnesia che fa capire il grado di scetticismo dei popoli e dei governi del “Sud globale” nei confronti dell’invasione russa dell’Ucraina. Non perché la approvino – anzi la maggior parte dei governi l’ha condannata – ma si dichiarano estremamente scettici di fronte all’indignazione occidentale per l’aggressione della Russia, l’occupazione inaccettabile di un territorio con la forza e i crimini del suo esercito. Sono fortemente convinti che gli occidentali non difendano affatto il diritto internazionale, la pace e la democrazia in Ucraina, ma si preoccupino solo dei loro interessi. Di ciò vedono un’ulteriore prova nel rifiuto da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea di adottare misure per porre fine all’occupazione della Palestina, che va avanti ormai da decenni.

Il denaro dell’Iraq è ancora sotto il controllo degli Stati Uniti

di Jean-Pierre Sereni

Nel marzo 2003, l’amministrazione USA, con un’operazione definita “illegale”, decide di invadere l’Iraq. A distanza di vent’anni, e malgrado il ritiro delle truppe, gli Stati Uniti continuano a mantenere il controllo sulle entrate dei proventi petroliferi iracheni. Un controllo, diventato arma di ricatto, di cui nessuno parla.

Inizio dicembre 2022. I commercianti di Baghdad sono preoccupati dall’improvvisa impennata del biglietto verde. Ci vogliono, infatti, sempre più dinari iracheni (IQD) per comprare un dollaro: 1.200 IDQ ufficialmente; 1.470, e fino a 1.750, sul mercato nero a metà mese. Un rialzo del 45% del tasso di cambio non è cosa da poco in un Paese che, dopo anni di sanzioni occidentali e guerra civile, non produce altro che petrolio e importa quasi tutto ciò che consuma sul mercato interno. Dopo gli ultimi anni di sostanziale stabilità del cambio USDIDQ, l’opinione pubblica resta perplessa. Un barile di petrolio si vende a prezzi altissimi, tra gli 80 e i 90 dollari (tra i 75,58 e gli 85 euro), la produzione è ripresa (4,5 milioni di barili al giorno) e, almeno secondo quanto sostiene l’ex presidente del Consiglio, le riserve monetarie sfiorano i 100 miliardi di dollari (95 miliardi di euro). E allora com’è possibile che non ci siano soldi? C’è un’immediata mobilitazione di piazza e nelle prime manifestazioni spuntano cartelli su cui si legge: “Rialzo del dollaro = morte dei poveri e dei bambini ” oppure “Dove sono finiti i parlamentari amici del popolo?”.

Messo alle strette, il neopremier, in carica da fine ottobre 2022, Mohamed Shia Al-Sudani, del partito sciita Dawa (1) al potere dal 2005, annuncia il provvedimento più comodo: sollevato dall’incarico il governatore della Banca centrale dell’Iraq (CBI) sostituendolo in via temporanea con uno dei suoi compagni di partito. Arrivano altre misure come i sussidi per i beni di prima necessità e quelle per contrastare i cambiavalute del mercato nero. Ma le cose non migliorano e così esplode la rabbia popolare contro le autorità locali, su cui vengono fatte ricadere tutte le colpe.

UN SISTEMA MESSO IN PIEDI SOTTO L’OCCUPAZIONE

Oggi quasi nessuno ricorda che, dal 22 maggio 2003, le entrate delle compagnie petrolifere non finiscono più nelle casse del Tesoro iracheno, ma su un conto aperto a nome della CBI presso la filiale newyorkese della Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti. Un sistema messo in piedi all’indomani dell’occupazione del Paese, sotto l’allora “governatore”, Paul Bremer, con un executive order, un decreto presidenziale firmato dall’ex presidente Georges W. Bush. Paragonabile più o meno alla zona del franco (2), dove una decina di paesi africani utilizzano il franco CFA o altre valute gestite direttamente da Parigi.

Allora le motivazioni fornite ai media erano legate alla questione irrisolta delle riparazioni dovute al Kuwait dopo l’invasione del 2 agosto 1990 da parte delle divisioni corazzate di Saddam Hussein. La famiglia regnante Al Sabah reclamava oltre 350 miliardi di dollari (330,68 miliardi di euro). L’accordo verrà infine raggiunto nel 2010 sulla base di 52 miliardi (49 miliardi di euro). L’ultimo versamento risale a febbraio 2022. Tuttavia, il conto CBI /Oil Proceeds Receipts a New York non è stato ancora chiuso e l’Iraq non ha riacquistato la sua sovranità monetaria e finanziaria.

Il conto newyorkese funziona come un qualsiasi altro conto bancario, ma da vent’anni non se ne sente quasi più parlare. Ogni mese, un camion da 10 tonnellate con miliardi di dollari parte da una sede della Federal Reserve nel New Jersey, poi viene caricato su un aereo della US Air Force, con destinazione Baghdad. Ognuna delle controparti ha il proprio resoconto: l’Iraq si procura facilmente i dollari, mentre Washington mantiene, di fatto, un certo controllo sul secondo produttore di greggio, dopo l’Arabia Saudita, dell’OPEC (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio). Dopodiché, a Baghdad, la CBI organizza una dollar auction (3), un mercato ad asta dove i dollari americani vengono venduti al miglior offerente. All’asta partecipa un gran numero di acquirenti – sono oltre mille istituzioni finanziarie e bancarie in Iraq – e si verificano moltissime truffe.

NELLE TASCHE DELL’IRAN E DELLA SIRIA?

In realtà, molte di queste istituzioni sono poco operative e servono principalmente come prestanome per gli interessi stranieri sanciti da Washington. Nel 2020, il presidente Donald Trump aveva minacciato di tagliare l’invio di dollari. La Casa Bianca non tollerava più che una parte dei dollari iracheni finisse nelle tasche dell’Iran e dei suoi alleati, la Siria di Bashar Al-Asad e gli Hezbollah libanesi – soggetti alle sanzioni americane –, per non parlare delle due grandi famiglie di Kurdistan che operavano da intermediarie per gli interessi turchi. A quanto ammontavano queste “perdite”? Non ci sono dati certi, ma il recente sviluppo del mercato parallelo dei cambi e la differenza di tasso tra cambio ufficiale e mercato nero (45%) dimostrano quanto fossero rilevanti le perdite.

L’ascesa al potere di Mohamed Shia Al-Sudani, alleato più o meno compiacente di Teheran, ha scatenato l’ira di un ufficio del Dipartimento del Tesoro di Washington, l’Office of Foreign Assets Control (OFAC), esasperato dalla cleptocrazia senza limiti che vige in Iraq dopo gli anni 2010-2012. Sono tre le banche a cui è stato vietato l’accesso al sistema di comunicazione interbancario SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication). La Banca centrale d’Iraq è tenuta inoltre a richiedere a chi acquista dollari di fornire un bel po’ di informazioni sull’utilizzo finale delle valute acquistate. Le nuove procedure sono state informatizzate, ma i banchieri iracheni e molti dei loro clienti stanno cercando di boicottarle.

Il Dipartimento del Tesoro ha limitato l’utilizzo del contante. Si è scesi da 250 milioni di dollari al giorno (236 milioni di euro), a 150 (141,72 milioni di euro), fino a 20 o 30 milioni (da 19 a 28,34 milioni di euro) a gennaio, secondo le fonti. Per i risparmiatori iracheni le conseguenze sono state immediate. Sempre più spesso si verificano scontri con la polizia intorno a piazza Al-Khilani a Baghdad. Giovedì 2 febbraio, il premier iracheno ha finalmente avuto un colloquio telefonico con il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Ma in pubblico non trapela nulla. Poco dopo, il vice segretario al Tesoro Brian Nelson, “mister sanzioni”, accompagnato da uno dei capi dell’OFAC, ha incontrato a Istanbul il governatore della CBI, Ali Mohsen al-Alaq. Un comunicato stampa americano ha raccomandato di “proseguire il coordinamento e la cooperazione come sempre” per limitare l’accesso al sistema finanziario internazionale a “soggetti illegali e corrotti”. Nelson si è inoltre congratulato con la CBI per “la maggiore osservanza delle norme”, dicendosi pronto a “collaborare alla modernizzazione del settore bancario iracheno”.

Non c’è stata alcuna replica da parte del governatore iracheno. Per ora i suoi collaboratori stanno cercando di risparmiare dollari, rimpiazzandoli con yuan cinesi negli scambi con la Repubblica Popolare. Dall’8 febbraio, è presente però a Washington una delegazione irachena e si stanno intensificando gli incontri. Sono finite le sanzioni? È troppo presto per sapere se verrà ripristinato il camion di dollari che partiva dal New Jersey. È chiaro però che Baghdad cederà per evitare di far precipitare la sua economia in una disastrosa crisi economica. Gli iracheni hanno un triste ricordo dell’embargo imposto al regime di Saddam Hussein prima del 2003. E inoltre c’è una duplice pressione sul governo iracheno: da una parte c’è Teheran che spinge l’Iraq ad allontanarsi dagli Stati Uniti; dall’altra Washington che sogna di arruolare il Paese nella sua crociata anti-Iran. Anche a costo di pesanti pressioni nel caso in cui la scelta del premier iracheno vada troppo per le lunghe.

Traduzioni dal francese di Luigi Toni

NOTE

Iraq 2003. Un crimine senza colpevoli

  1. Jean-Pierre Sereni, «Échec d’une guerre pour le pétrole», Le Monde diplomatique, marzo 2013.
  2. [Tra questi crimini, vedi Alain Gresh, “Haditha, un massacro impunito in Iraq”, Le Monde diplomatique, “Nouvelles d’Orient”, 29 gennaio 2012.

Il denaro dell’Iraq è ancora sotto il controllo degli Stati Uniti

  1. Il Partito Islamico Dawa o Partito Islamico dell’Appello è uno dei principali membri dell’Alleanza Irachena Unita, ovvero la coalizione di partiti religiosi sciiti che ha ottenuto la maggioranza relativa in entrambe le elezioni tenutesi in Iraq nel 2005. [NdT].
  2. Le zone del franco sono territori, organizzate in quattro zone geopolitiche dove sono utilizzate delle valute che erano in passato legate al franco francese (antiche colonie o territori d’oltremare) e che oggi sono legate all’euro da un sistema di parità fissa garantita dal Tesoro francese. [NdT].
  3. Le regole della cosiddetta dollar auction, proposta da Martin Shubik nel 1971, prevedono che sia messo all’asta un dollaro (ad esempio) e che se lo aggiudichi chi alla fine avrà fatto l’offerta più alta. Tuttavia, a differenza di una comune asta al rialzo, qui però deve pagare senza ottenere nulla anche chi avrà fatto la seconda miglior offerta. Questo fa sì che, per chi si trova nel corso dell’asta ad essere il secondo miglior offerente, la sua offerta rappresenti un costo irrecuperabile. [NdT].
Read Entire Article