Sembra una storia presa dall’ultimo capitolo della saga cinematografica di Batman, ma non lo è: un bambino di due anni vive in carcere, e non è Bane, il nemico giurato del Batman cinematografico, ma è il figlio di una trentenne italiana che sta scontando una pena detentiva.
E che semplicemente, non si sa dove mettere.
Un bambino di due anni vive in carcere a Rebibbia (e la società ha un problema)
La giustizia senza pietà e considerazione non è giustizia: è semplice giustizialismo, è la ferocia dei commenti social sotto ogni notizia elevata al rango di brutale animo vendicativo.
È il precetto veterotestamentario delle colpe dei genitori che dovrebbero ricadere come un miasma, e contrariamente ad ogni senso di umanità più prefondo, sul sangue dei figli per continenza.
Il bambino, che i media chiamano “Giacomo” per proteggerne la privacy dietro un nome di fantasia, è uno dei ventisei bambini figli di detenute e non autosufficienti. Una volontaria lo porta all’asilo nido tre giorni la settimana e non di più, il piccolo Giacomo esprime come può soddisfazione per un momento di libertà fugace.
Ma questo è tutto: l’ambiente ben poco stimolante ha causato in lui una serie di ritardi cognitivi e nello sviluppo. Giacomo fa poco moto, il suo fisico ne risente. Giacomo non parla, se non per monosillabi, “mamma”, “papà” e le parole “apri e chiudi” udite dai secondini ogni volta che gli viene concessa la libertà che dovrebbe avere per diritto, essendo innocente.
Anche suo padre è in carcere, ovviamente un carcere diverso, e lo incontra una volta alla settimana.
Sarebbe giusto per il piccolo Giacomo essere in una casa famiglia, valutare una pena per la madre che non punisca anche il piccolo. Ma mentre un emendamento sul DDL Sicurezza al riguardo si trascina e l’Associazione Antigone discute della cosa, i social hanno già deciso di punire Giacomo per colpe che non sono sue.
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