Dopo tanti messaggi storici, è il momento di un post defatigante, più leggero: un elenco delle ritualità e dei gesti retro perduti negli ultimi quarant’anni. Cose banali per molti, ma non per tutti. Sostanzialmente, aborro e non vorrei scrivere un post alla “ma che ne sanno i duemila” e “Noi in cinquantasette in motorino senza casco perché la vita mi ha gettato tra i lupi e quelli anziché farmi capobranco mi hanno detto di farla finita di dire cavolate”, ma farvi apprezzare forse qualcosa che avete grazie ai progressi della tecnica.
E che eravate abituati a fare, strappandovi un ricordo.
Gesti retro perduti negli ultimi quaranta anni: la matita nella cassetta
Gesto valido sia per i fan della musica che dei computer. Avete comprato una bella musicassetta vergine: avete intenzione di salvare il vostro programma per computer preferito o copiare della musica dalla radio, da un vinile o da un CD.
Prima di tutto cercherete una matita o una penna Noris Stick della Staedtler, che non ci paga per questo involontario endorsement. Come mai?
Chi di voi ha più di 30 anni la risposta la conosce: il nastro magnetico in una audiocassetta non è collegato direttamente alle bobine, bensì ad una parte non magnetica chiamata “il codino”.
Puoi registrare audio e programmi (che, ricordiamo, sono sempre registrati sottoforma di onde sonore) ovviamente solo sulla parte magnetica. Volendo potresti usare la funzione di avanzamento rapido o il Play sul lettore, ma “alla cieca”.
Le bobine di una audiocassetta sono perfettamente dimensionate per una matita o un Noris Stick, o per le dita di un bambino se eravate bimbetti e non trovate niente di meglio: andava quindi a finire che il “primo avanzamento” di una cassetta vergine veniva sempre fatto, molto cautamente per non sprecare neppure un pezzetto di nastro, con una matita.
La matita tornava anche utile quando il lettore si “mangiava la cassetta”, ovvero la stessa veniva espulsa, per un difetto, un errore o un semplice incidente, con le preziose “interiora” vomitate di fuori.
Grazie alla matita, potevi riavvolgere la singola bobina e cercare di rimettere tutto a posto.
Spezzare la linguetta/coprire il buco
Non stiamo parlando di volgarità, ma di uno dei primi mezzi di protezione da copia. Una musicassetta ha un suo costo, e distrarsi e rischiare di registrare sul proprio nastro più prezioso era cosa da poco.
Ogni cassetta vergine arrivava con due linguette, una per lato, riconosciute da alcuni sensori meccanici nella piastra di registrazione. Linguette integre significavano nastro completamente registrabile, linguette spezzate nastro non più registrabile.
Il sensore meccanico si incastrava nel forellino e segnalava che quel nastro non andava registrato, impedendo quindi al tasto “Rec” di attivarsi.
Ovviamente su una cassetta vergine potevi spezzare tu stesso la linguetta per assicurarti che non fosse più registrabile, oppure avere un “pentimento” e coprire il forellino con del nastro isolante o dello scotch abbastanza robusto per ripristinare la superficie.
Nel mondo del floppy disk inizialmente questo era al contrario: i floppy da otto pollici e da cinque e un quarto arrivavano con una tacca sul lato e nella scatola (solitamente da cinque o dieci dischi) una serie di adesivi da attaccare sulla tacca alla bisogna.
Coperta la tacca, si “accecava” un sensore ottico che segnalava al computer la possibilità di scrivere sul disco. Tacca scoperta significava disco pronto alla copia.
Alcuni videogames arrivavano con la precisa istruzione di copiare il disco di gioco e/o munirsi di dischi vergini con la tacca ignuda per provvedere ai salvataggi.
Altri programmi arrivavano senza la tacca: in fabbrica venivano scritti prima di inserirli nel “fodero” di plastica oppure con lettori col sensore sostituito da una levetta: modifica quest’ultima che con un po’ di manualità potevi fare anche tu a casa. A questo punto, a prescindere dalla tacca, potevi scegliere se scrivere o meno sui tuoi floppy usando un banale interruttore sul lettore floppy.
Un’altra possibilità era “creare” la tacca dove non c’era con forbici, coltello o apposite taglierine di cui parleremo subito dopo.
Sul floppy da tre pollici e mezzo invece non c’era nessuna tacca: una “modernissima” finestrella arrivava con una piccola “tapparellina” in plastica da spingere con l’unghia dell’indice o del pollice. Aperto significava “non si può scrivere”, chiuso significa “scrivere”.
Il che ci porta al gesto successivo
La taglierina per dischi
Alcuni floppy da 5 1/4” erano certificati per essere scritti su entrambe le facciate. Altri no: comunque ricevevano il loro strato di materiale magnetico su entrambi i lati. Semplicemente veniva verificato solamente il lato necessario ai lettori a disco singolo (la facciata inferiore, solitamente).
Una accettabile scomessa con sè stessi, che pagava nella stragrande maggioranza dei casi, era usare lo stesso i dischi singoli su ambo le facciate, provvedendo a tagliare il “foro” su entrambi i lati perché il lettore a facciata doppia riconoscesse il disco singolo (più economico) come doppia facciata e perché il lettore a faccia singola si trovasse dinanzi un foro anche qualora il disco fosse girato di 180 gradi.
Esattamente come nel caso precedente potevi usare un coltellino, oppure una apposita taglierina per dischi, spesso venduta con nomi commerciali come Disk Doubler o Disk Notcher, niente più che una bucatrice quadrata con una dima incorporata per centrare il floppy e ottenere un foro pregevolmente estetico.
Grazie alle meraviglie della stampa 3D oggi puoi comprare dime stampate in PET, e grazie alle meraviglie del bagarinaggio oggi un Disk Notcher è un oggetto di lusso il cui possesso è così elitario da garantirti un accesso ad appositi gruppi.
Sui floppy da tre pollici e mezzo bisognava essere più creativi, scavando un foro rettangolare nella plastica dura con un taglierino rovente, passando così dai 720Kb della facciata singola al 1,44 Mb della facciata doppia.
Non tanto per gli standard attuali, ma un mondo per l’epoca.
Soffiare nella cartuccia
Ne abbiamo anche parlato in passato: siete un ragazzino negli anni ’80 e ’90. Avete il vostro NES o il vostro GameBoy, ma anche un Master System, succede e nessuno vi giudicherà.
Il Master System vi accoglie con un “SYSTEM ERROR”, il NES con immagini storte e bizzarre e il GameBoy col logo di avvio fisso.
Cosa fate? Sono sicuro che estrarrete la cartuccia, ci soffierete dentro incolpando “la polvere” e sarete contenti se dopo un paio di tentativi la cartuccia si rianimerà.
In realtà soffiare nelle cartucce non serve a niente, se non cospargerle di goccine di sputo che a lungo andare peggioreranno il problema.
L’atto che ha riportato in vita la cartuccia è stato fisicamente inseririrla e reinserirla più volte: le cartucce erano (e sono, dove ancora esistono, vedi Switch) basate su lamelle metalliche che mettono in contatto la memoria nelle cartucce con un connettore progettato per una agevole inserzione (i bambini non devono avere una straripante forza fisica) con delle “dita” che lo agganciano.
Togliere e rimettere la cartuccia significa “sgrattare” dello sporco ed ossido depositato, oppure trovare quell’angolo in cui le “dita” toccano un punto della lamella non incrostato.
Già all’epoca erano disponibili, ma poco diffusi, kit per pulire le cartucce e le console senza aprirle: finti slot per cartuccia foderati di un panno ben steso, o finte cartucce con del feltro, che potevi umettare di alcol isopropilico e usare, togliendo e reinserendo, perché strofinassero e pulissero.
In assenza, il retrocollezionista potrà pulire la sua collezione con un cottonfioc e dell’alcol ispropilico, usando modalità più aggressive, come una gomma da cancellare, nel caso la cartuccia fosse molto, molto incrostata.
Ma all’epoca faceva parte del folklore assieme ad un altro gesto tipico.
Rubare batterie in casa ovunque
Non è proprio un vero furto, anche perché se lo fosse tutti saremmo in galera. Siamo abituati alle nostre Nintendo Switch con la loro batteria ricaricabile, a giochini portatili con la loro batteria anch’essa ricaricabile, a controller di gioco ricaricabili e a svegliarci col cellulare in carica sul comodino.
Ma in passato quando da bambino avevi convinto i tuoi genitori a farti comprare un GameBoy (quattro batterie stilo per la prima generazione, due per i GameBoy Pocket, Color e Advance…), un SEGA GameGear o un Atari Lynx (ben sei batterie stilo) avevi il problema di dover cambiare batterie ogni quattro-cinque ore se ti andava bene.
Certo, le console citate avevano anche la possibilità di attaccare un alimentatore esterno, per il GameGear se avevi già in casa un Master System eri a posto, per il GameBoy solitamente lo trovavi nei negozi dove lo avevi comprato o ne compravi uno universale dal ferramenta o dal negozio generalista, ma questo annientava il vantaggio del gioco portatile e rendeva impossibile giocare ad esempio sul sedile posteriore della macchina, salvo avere una “liana” dall’accendisigari al sedile di dietro col rischio di causare incidenti dati da un cavo elettrico annodato intorno al cambio o al freno a mano.
In ogni famiglia dove c’era una console portatile c’era anche un genitore che scopriva di non riuscire più a cambiare canale perché gli avevano fregato le pile del telecomando (o che esse si scaricavano troppo in fretta se eri così astuto da rimetterle a posto a fine gioco) o che si ritrovava con la sveglia ferma.
Comprare accessori per l’illuminazione delle console
Oggi hai un cellulare: è ovvio che questo sarà retroilluminato.
Hai una Nintendo Switch: ovvio che potrai giocarci anche di notte o a luci spente, come con la tua Steam Deck e ogni altra console portatile. Il minimo è il gioco retroilluminato.
Il GameBoy non avrà la retroilluminazione prima del GameBoy Light del 1998 (peraltro venduto in tragicomiche confezioni dove la mascotte era una sensuale astronauta, sin troppo per dei ragazzini, concupita da svariati alieni ed in pose vagamente pornosoft…), con una lunga pausa in cui la retroilluminazione svanì fino al GameBoy Advance SP, console del 2003 che introdusse peraltro il concetto di batteria ricaricabile (con lo stesso caricabatterie del futuro Nintendo DS prima generazione).
Questo vale a dire che il ragazzino medio, specie in Occidente dove il GB Light non arrivò mai di prima mano, dal 1989 al 2003 doveva arrangiarsi attaccando lucette portatili alla sua console per vederci di notte.
Lucette da libro malamente riadattate, lenti di plastica avvolte intorno alla console con un proprio pacco di batterie da rubacchiare in giro o con lamelle elettriche da infilare pericolosamente nel vanetto pile del GameBoy o in modo più “pulito”, connettori del Data Link Cable connessi solo alla linea di alimentazione erano tutto quello che serviva per vederci chiaro (più o meno) di notte.
Questo o giocare di lampione in lampione, o con una torcia.
Ovviamente fatto trenta potevi fare trentuno e comprare improbabili gusci di plastica con casse potenziate, tasti “ergonomici”, pacchi batterie addizionali e trasformare la tua console portatile in una mostruosità grossa come un mattone.
Prima del filtro a Luce Blu: il filtro per il contrasto e antiriflesso
Oggi l’ultimo grido della moda è comprare un bel filtro a luce blu, la cui efficacia è enormemente discussa: ieri era comprare un “filtro antiriflesso” con tanto di (inutile) cavetto di messa a terra da collegare a casaccio ad una vite sulla carrozzeria del PC per evitare “le radiazioni”, concetto assai evanescente.
A dire il vero il filtro antiriflesso aveva un suo senso, e molti monitor di buona marca ne avevano: un vetro affumicato da incollare con una staffa sopra e intorno al monitor per “aumentare il contrasto” aveva un solo effetto però.
Spingerti ad aumentare la luminosità perdendo tutto il vantaggio e accelerando il logorio del tubo catodico.
Almeno oggi molti filtri a luce blu arrivano col c.d. “filtro privacy” per ridurre l’angolo di visuale in modo da bloccare sguardi molesti: all’epcoa non c’era neppure questo.
Lucchetti, lucchetti ovunque
Le telefonate interurbane costavano. Assai. Il telefono era una risorsa da razionare. Il telefono Siemens S62 “Bigrigio” a selezione decadica arrivava con l’antifurto incorporato, o meglio, incorporabile.
Un bel lucchetto da piazzare sulla ruota di selezione in modo da impedire fisicamente di comporre i numeri. Un po’ di astuzia rendeva i telefonanti dei novelli Arsenio Lupin: siccome la selezione decadica funzionava spostando il telefono fino a portare il numero su una linguetta metallica di stop e fare in modo che una molla lo riportasse all’inizio attivando un interruttore un tot numero di volte pari al numero da comporre, giocando col ridotto gioco consentito dal lucchetto si poteva “attivare quell’interruttore” ingannando il telefono e componendo i numeri.
Sistemi del genere potevano essere usati anche per bloccare le porte delle cartucce delle console e diventare il primo Parental Control videoludico della storia: anche di questo ne abbiamo già parlato.
E questo tema si intreccia con il successivo.
L’importanza di una vita al rallentatore
Negli anni ’80 tra i computer più diffusi nelle case c’era il Commodore 64. Il Datassette ci abituava a velocità abbastanza… poco veloci. Il gioco medio si caricava così lentamente che spesso venivano introdotte schermate di caricamento ricche di suoni e immagini (i “loader” come i famosi Ocean Loader) per distrarre l’attenzione o addirittura interi minigiochi da giocare al posto di “prendersi una tazza di thé”.
Ma come abbiamo già descritto nell’articolo qui linkato e che ricitiamo a causa di un bug mai corretto risalente all’epoca del VIC20, anche i lettori floppy erano notoriamente lenti, molto più della concorrenza.
Il processore del Commodore 64 doveva interpretare i dati mediante “bit banging”, rendendo i caricamenti un’esperienza lenta in modo allucinante, spingendo i ragazzini più ricchi a chiedere ai genitori cartucce acceleratrici come la Epyx Fastload o multifunzione come la Action Replay e le sue parenti Retro Replay, Nordic Replay e simili, che sommavano all’accelerazione tutti gli strumenti necessari a duplicare giochi o inserire i desiderati cheat code per avere vite infinite e altri vantaggi.
Dieci anni dopo sembrava essersi liberati della maledizione della lentezza, e invece ci ripiombammo tutti grazie ad Internet, con le aggravanti.
Con un modem a 33Kb o a 56Kb, collegarsi era un processo lungo e tedioso, che richiedeva come abbiamo detto l’atto fisico di collegarsi, “telefonando” ad un provider (ancora prima, ad un computer connesso ad un altro modem, vedi BBS).
Scaricare un file video atto ad essere contenuto da un CD, ad esempio un film, ti avrebbe preso quasi 24 ore, scaricare un Mp3 una decina di minuti.
Essere “pirati” significava essere molto pazienti, ed essere pronti a dormire molto poco o lasciare il computer acceso di notte sperando che tutto andasse bene. Con un modem analogico dovevi “tenere occupato il telefono” e sobbarcarti il costo di chiamate urbane se non interurbane prolungate, che di notte costavano meno e non ti isolavano dal mondo.
In tempi prima di Netflix e Amazon Prime, vedere quella serie animata disponibile solo all’estero significava a. essere tecnicamente dei fuorilegge inclini alla pirateria e b. essere pronti a fare almeno un paio di nottate ad episodio sperando di non aver sbagliato qualcosa.
Inserire il floppy di avvio
Credeteci o no, per buona parte della storia del PC compatibile il disco fisso di avvio era un grazioso orpello. Dovevi avviare da floppy, col tuo caro vecchio floppy di MS-DOS.
Un ricordo di quei tempi è il fatto che, per impostazione di default, ogni installazione fresca di Windows 10 e 11 deciderà di ribattezzare la prima partizione sul disco, quella avviabile, in C.
Solitamente il PC moderno tipico avrà una partizione C (un disco veloce, come un NVMe o un SSD), una partizione dati D (un SSD o un HDD) ed una serie di lettere successive attribuite variamente ai pendrive connessi.
I computer non troppo recenti, o alcune soluzioni da ufficio con necessità di supporti “legacy”, datati ma non troppo, avranno come disco D un lettore DVD, retrocompatibile coi lettori CD e così via.
A e B sono riservati per i lettori floppy USB connessi per scopo di archivio storico: storicamente erano le lettere dei due lettori floppy, un tre pollici e mezzo ed un cinque e un quarto o due da tre e mezzo nella media, usati uno per DOS e l’altro per i programmi.
Sintonizzare un canale per la vostra console
Una delle prime console domestiche della storia, la prima con supporto per le cartucce, si chiamava non a caso “Fairchild Channel F”, dove F stava per “divertimento”.
Solo molto dopo sarebbero arrivati monitor specifici (gli stessi hobbisti “seri” usavano monitor da videosorveglianza, da cui il formato BNC come alternativa all’RCA), e molto dopo le TV commerciali avrebbero incorporato connettori per i formati composito, a componenti e RGB, in Europa mediante la presa SCART.
Quindi bisognava accontentarsi dell’uscita RF-Antenna. Ti poteva capitare quindi di scoprire che non avevi un monitor per il tuo Commodore 64 o Master System, o che il tuo Master System II non aveva altra uscita (come il tuo Atari VCS) e dover sintonizzare il canale giusto su una vecchia TV, eventualmente usando uno “scatolotto sdoppiatore” per scegliere ogni volta tra ingresso antenna e ingresso videogioco, con una qualità video infima.
Nell’ordine la connessione antenna era il fondo del barile, superata dal videocomposito, superato da S-Video, superato da Componenti ed RGB.
Di fatto un po’ di nebbiolina costante era la compagna di vita di molti giocatori, come anche il gesto fisico di sintonizzare, spesso girando una rotellina, fino ad avere l’immagine migliore possibile.
Portarsi troppi, troppi oggetti in tasca
Il cellulare, diciamolo, ci ha viziato e molto. In tasca abbiamo un computer, una macchina fotografica, un lettore musicale, una scheda di memoria, un calendario, un’agenda ed un blocco note virtuali.
Negli anni ’80 e ’90, anche lo yuppie più ricco poteva permettersi un cellulare (o il suo cugino povero, il cercapersone), ma se avesse voluto una foto avrebbe dovuto comprare una macchina fotografica (Polaroid, se voleva l’istantanea), se avesse voluto organizzarsi avrebbe dovuto comprare un’agenda, o un diario elettronico, se avesse voluto ascoltare musica avrebbe dovuto comprare un Walkman e, generalmente, circondarsi di una serie di oggetti da selezionare in base al momento della giornata.
Programmare il videoregistratore
Tra Digitale Terrestre, box Sky, TV on Demand e servizi video come Amazon Prime e Netflix gestire il proprio tempo è facile.
Ma agli esordi del VHS in ogni casa, c’era un piccolo adempimento da demandare ai “giovanissimi di casa”, da sempre riconosciuti come i più esperti nelle tecnologie.
Programmare il videoregistratore.
Bastava inserire una cassetta sacrificale, programmare mediante telecomando la registrazione dei programmi che si voleva (ricordandosi di lasciarsi qualche minuto in avanti e indietro per eventuali ritardi dell’emittente) e godersi in serata i programmi persi durante il giorno.
Lo stesso nastro a fine giornata veniva riavvolto e riusato fino alla dissoluzione fisica, per poi essere sostituito da un altro nastro.
Videonoleggio/audionoleggio
Oppure potevi recarti dal videonoleggio. Una videocassetta poteva essere noleggiata per una serata in famiglia, quando lo streaming era solo una chimera e “scaricare un film” impossibile o come visto ampiamente scomodo.
Un CD poteva essere noleggiato per una festa tra amici oppure per essere duplicato abusivamente su cassetta, e molti stereo avevano funzioni che lo consentivano, tecnicamente per scopi leciti, di fatto chissà.
Attualmente nell’Oregon esiste l’ultimo Blockbuster (iconica catena ormai decotta di nolo audiovisivi) che vive sostanzialmente di nostalgia del tempo che fu.
Incidentalmente, proprio l’uso pirata, vietato ma di fatto tollerato, portò una seconda derivazione, ovvero riviste specializzate che vendevano kit c.d. “Viruskiller”, nome scelto puramente a caso per evitare denunce o uso di marchi registrati che indicava macchinari per rimuovere il Macrovision, il sistema anticopia che, tentando di duplicare una VHS con due lettori connessi, interferiva coi circuiti relativi al segnale di ampiezza creando immagini distorte e con visibili problemi di luminiosità.
Rendendoci tutti quel genere di script kiddies, “Ragazzini dei manuali” che si credevano grandi hacker.
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